Il mistero delle isole Kerguélen

Il fatto

Maggio 1839, emisfero Sud. Nel cuore del temibile inverno australe, alcuni uomini stanno avanzando sul terreno diseguale di una sperduta e deserta isola di origine vulcanica (1), là dove le acque azzurre dell’Oceano Indiano si confondono tumultuosamente con quelle verde scuro dell’Antartico, le cui onde spazzate dai venti dominanti dell’Ovest s’imbiancano di spuma.

Cavolo delle Kerguélen.

Mano a mano che si allontanano dalla riva, il fragore del mare si attenua e alla fine scompare e ogni cosa sembra stemperarsi in un’atmosfera strana ed arcana, sotto un cielo plumbeo e uniforme. Uno spesso strato di neve copre il terreno ed i suoni giungono attutiti dall’atmosfera umida e fredda e dal soffice mantello candido che ricopre ogni cosa, come se tutta la scena fosse per incanto scivolata in un’atmosfera senza tempo. Del resto, non vi sono altri rumori che quelli prodotti dagli insoliti visitatori: un gruppetto di ufficiali e marinai della nave di Sua Maestà britannica Erebus, un veliero di sole 370 tonnellate e appena 26 uomini d’equipaggio, e della sua gemella, Terror (2). Minuscole le navi ed esiguo il loro carico umano: ciò fa apparire ancor più opprimente, per contrasto, il grandioso ma triste spettacolo di quella natura selvaggia cui a suo tempo è stato imposto, non a caso, il nome eloquente di Isola della Desolazione (3). Nessuna fronda di verzura stormisce al soffio incessante dei venti australi, poiché gli alberi non allignano in quei luoghi inospitali e le uniche foreste esistenti sono quelle fossilizzate, estrema e patetica testimonianza di un tempo remotissimo in cui il clima dell’isola dovette essere ben più dolce e accogliente, probabilmente di tipo sub-tropicale (4). L’unica pianta che si avvicini in qualche misura alle dimensioni arboree era una curiosa specie di cavolo gigante, detto cavolo delle Kerguélen (5), che non era sfuggito alla vigile attenzione del medico di bordo, sir John Dalton Hooker (6), allora un giovane pressochè sconosciuto ma che più tardi sarebbe divenuto un botanico famoso, fra i più celebri del suo tempo (7). Allo stesso modo, il candido manto di neve non appare segnato dal passaggio di alcun essere vivente, poiché nessun mammifero terrestre vive in quelle remote latitudini, né tanto meno alcun rettile o anfibio, animali che abbisognano di un clima decisamente più mite (8).

Mano a mano che i visitatori ardimentosi di quel luogo enigmatico si allontanano dalla riva del mare e si lasciano alle spalle il rumore della risacca e la rassicurante sagoma della loro nave alla fonda nel porto naturale (9), la ricognizione verso l’interno si trasforma in una marcia dai contorni vagamente surreali. Il profondissimo, millenario silenzio che avvolge ogni cosa, la quiete innaturale, indecifrabile che sembra tutto avvolgere, la consapevolezza che forse mai piede umano ha preceduto i loro passi danno veramente a quegli uomini la sensazione d’esser giunti agli estremi confini del mondo. Eppure, nonostante la intensa nota di malinconia che lo pervade, il paesaggio reca in sé una sottile sfumatura di fascino, difficile da definire ma nondimeno evidente; quasi una bellezza arcana e primigenia che la Natura possente ha voluto imprimere perfino in quelle lande desolate. Mentre alzano lo sguardo lungo le pendici del monte Ross, che spinge la sua vetta ghiacciata a duemila metri d’altitudine (10), sotto una densa coltre di nubi grigie, gli uomini si sentono terribilmente piccoli, fragili, in un certo senso – direbbe Lucrezio – casuali (11): come ospiti inattesi di uno spettacolo grandioso che non per essi era stato allestito…

Ecco le parole con le quali, circa un secolo dopo, un ufficiale della Marina da guerra germanica descriverà quei luoghi e la loro strana atmosfera: “Un ruscello gorgogliava tra sassi e ciuffi d’erba lungo il sentiero. Intorno a noi le montagne si alzavano avvolte dalle nubi… Una squallida desolazione regnava sui monti e nelle valli. Eppure, per quanto triste e brullo, il paesaggio non era privo di fascino per chi non vedeva da tanto tempo né un monte né un pianoro e sicuramente non ne avrebbe più visti per molti mesi.” (12) Certo, le cose sarebbero state molto diverse se l’Erebus e la sua gemella, il Terror fossero approdate laggiù qualche mese prima: durante l’estate antartica, le pianure s’ingentiliscono grazie ai vivaci colori di numerose piante fiorite, come Azorella, Pringlea e Festuca (13), mentre l’aria risuona dei richiami incessanti di migliaia e migliaia di uccelli migratori venuti di lontano, primo fra tutti l’albatro gigante (14). Ma ora tutto appare deserto, abbandonato, come avvolto da un’atmosfera senza tempo: e sembra che l’aria fredda e umida, il cielo basso e la terra silenziosa siano sospesi, in attesa di qualcosa.

Ed ecco che il comandante di quel piccolo drappello, il trentanovenne sir James Clark Ross, si arresta improvvisamente senza poter trattenere un fortissimo moto di stupore, mentre uno sguardo di meraviglia e d’incredulità passa dai suoi occhi a quelli dei suoi compagni, l’uno dopo l’altro. Perché hanno visto tutti, chiaramente, qualche cosa che supera la loro capacità di comprensione, qualche cosa che assolutamente non avrebbe dovuto essere lì. Sul mantello di neve immacolata che copre ogni cosa si stagliano, nette, delle impronte di un qualche animale: più precisamente, delle orme di zoccoli (15). Si allontanano dalla regione costiera per spingersi verso l’interno e si perdono in direzione delle alture. Orme di zoccoli, laggiù, in capo al mondo! E tutto lascia pensare che siano anche recenti, poiché, diversamente, la neve le avrebbe rapidamente cancellate. I marinai britannici stentano a credere ai loro stessi occhi: come è possibile una cosa del genere?

La cornice

Sir James Clark Ross, nato a Londra il 15 aprile del 1800, aveva già una discreta fama come esploratore polare. Compagno di sir William Edward Parry nelle sue spedizioni artiche, il 31 maggio 1831 aveva localizzato l’esatta posizione del Polo Nord magnetico nella Penisola di Boothia (Canada settentrionale) (16). Nel 1835-36 era stato inviato nello Stretto di Davis, con la nave Cove, per soccorrere un certo numero di baleniere inglesi provenienti dal porto di Hull, rimaste intrappolate nei ghiacci (17). Infine, il 18 aprile 1839 aveva assunto il comando della spedizione antartica formata dall’Erebus, come si è detto, e dal Terror, quest’ultimo di 340 tonnellate e con un equipaggio, anch’esso, di 26 uomini, al comando del suo amico Francis Crozier (18).

Ross aveva avuto istruzioni di salpare per la Tasmania allo scopo di stabilire una stazione permanente per eseguire osservazioni magnetiche. Lungo la traversata doveva compiere analoghe osservazioni all’isola di S. Elena, nell’Atlantico meridionale, e al Capo di Buona Speranza. L’Erebus e il Terror giunsero in vista delle Kerguélen nel giugno e vi stazionarono per due mesi, in attesa di compiere il balzo successivo verso la Tasmania e, di lì, per le isole Auckland, fino all’Antartide (19). Quei due mesi furono impiegati da un gruppo di ufficiali per fare rilievi magnetometrici e da Ross, personalmente, per compiere osservazioni astronomiche e nautiche.

Yves Joseph Christophe de Kerguelen-Trémarec (Landudal, 13 febbraio 1734 – Parigi, 3 marzo 1797).

L’arcipelago delle Kerguélen deve il nome al suo scopritore, il bretone Yves I. de Kerguèlen-Tremarec, che le avvistò il 13 febbraio 1772 e le credette parte, tanto per cambiare, del supposto continente australe o Terra Australis Incognita – la grande ossessione geografica del Settecento, nonché dei due secoli precedenti (20). In Francia, infatti, “il presidente Charles de Brosses, convinto che nel Sud esistesse un continente grande quanto Europa, Asia e Africa messe insieme, riunì materiale di ogni genere e in tutte le lingue, per prepararne l’esplorazione. Tutti gli elementi raccolti formano il tema della sua Storia delle navigazioni verso le Terre Australi, che l’autore teneva aggiornata, senza tuttavia che la seconda edizione fosse mai pubblicata; l’opera, che spinse più di un navigatore verso la Magellania, la Polinesia e l’Australasia, si trova attualmente presso la Biblioteca Nazionale di Parigi”(21). Si direbbe che quella ossessione arrivasse a offuscare le idee anche di esperti o navigatori, se è vero che, tornato in patria senza averne riconosciuta la natura insulare, contro il parere del proprio equipaggio descrisse la terra da lui scoperta come una specie di Paradiso Terrestre. Deciso a sostenere la veridicità del suo racconto, nel 1774 Kerguélen si rimise in mare con due navi e volle tornare alla Francia Australe (così aveva denominato inizialmente quelle terre), ma una furiosa tempesta impedì nuovamente lo sbarco e rese impossibile un preciso rilevamento delle coordinate geografiche. Quel che è certo, questa volta anche l’ostinato ottimismo del navigatore francese dovette ricevere un duro colpo visto che all’affascinante descrizione fatta dopo il priomo viaggio subentrò una diversa valutazione dei fatti. Probabilmente non era un’appendice della vasta Terra Australe e, comunque, la sua posizione e il suo clima non erano poi tanto favorevoli, dato che questa volta fu lo stesso Kerguélen-Tremaréc a ribattezzare l’arcipelago Terra della Desolazione (22). Così – conclude Silvio Zavatti – il nuovo viaggio non portò a nessun risultato positivo, anzi riaccese polemiche e accuse, per le quali il navigatore subì gravi punizioni e condanne” (23). Difficile perdonargli, in ogni caso, di aver infranto un sogno plurisecolare come quello di una edenica Terra Australe Incognita, un mito che lui stesso aveva alimentato entusiasticamente due soli anni prima e sul quale, due anni dopo (nel 1776), il capitano James Cook, giunto con le due navi Resolution e Discovery alle isole Kerguélen e riconosciutane definitivamente la natura insulare, chiuderà per sempre la pietra tombale (24).

Come si è detto, i primi esploratori non trovarono traccia di una fauna indigena superiore, a parte numerosi uccelli e tre distinte specie di pinguini: reale, papua e gorgua (25). La fauna inferiore è rappresentata da un certo numero di insetti senza ali, perché i forti venti dominanti dell’Ovest renderebbero impossibile qualsiasi tentativo di volo; da un lepidottero parassita del cavolo, ossia una mosca essa pure priva di ali; da alcuni acari e da due o tre Protozoi che vivono nel muschio, un tipo di vegetazione molto diffusa a causa della persistente umidità del clima (26).

Furono i Francesi, molto più tardi, che tentarono d’introdurre una fauna superiore per motivi economici (l’arcipelago era stato annesso alla Francia nel 1893). Nel 1908-11 e poi ancora nel1927-28 essi tentarono l’allevamento delle pecore, ma anche se l’esperimento non fallì del tutto, una serie di ragioni, prima fra tutte la difficoltà di rifornimenti, indussero i colonizzatori a ritirarsi dalle isole, rinunciando a persistere nel tentativo.

Le ipotesi

Sorpresa e affascinazione sono, dunque, i sentimenti che James Clark Ross e i suoi compagni provano, in quel maggio del 1840, davanti alle impronte di zoccoli sulla neve dell’isola Kerguélen. Dopo un comprensibile momento di stupore e quasi d’incredulità, si decide di tentar di andare a fondo nell’enigma così inaspettatamente presentatosi in quella remota terra dell’emisfero australe. Il gruppo si mette a seguire le impronte, ma ben presto è costretto a fermarsi, deluso: esse scompaiono improvvisamente su un terreno roccioso, non c’è più niente da fare. Bisogna tornare indietro senza aver potuto dare una risposta alla domanda: qual è l’origine di quelle impronte, dal momento che sull’isola non vi sono né ponies né altri animali in grado di lasciare orme simili?

James Clark Ross scrive subito un rapporto sullo strano episodio, ma esso passa praticamente inosservato. La relazione del viaggio antartico di Ross, qualche anno dopo, viene bensì letta e apprezzata da un selezionato pubblico di specialisti, ma non diviene mai quel che si dice, oggi, un best-seller. E così, quasi certamente, il mistero delle impronte dell’isola Kerguélen sarebbe stato del tutto dimenticato se quindici anni dopo, quando il pubblico inglese è travolto dall’“affaire” delle cosiddette impronte del diavolo del Devonshire (febbraio 1855), qualcuno non si ricordasse di quella vecchia e strana storia. E’ un corrispondente del London Illustrated News a rispolverare il rapporto dell’esploratore James Clark Ross e a richiamare su di esso l’attenzione sovreccitata dei lettori del Regno Unito (27): ma di questo parleremo fra breve.

Dobbiamo ora tentare di dare una qualche risposta agli interrogativi che il “mistero delle Isole Kerguélen” sollecita, e cercheremo di farlo con mente sgombra, per quanto possibile, da pregiudizi, senza per questo esser disposti a cadere nella credulità.

Un fatto naturale richiede, fino a prova contraria, una interpretazione di tipo naturale: questa è una ovvia premessa di carattere metodologico. E tuttavia il concetto di “evento naturale”, dopo le scoperte di fisici come Einstein ed Heisenberg, si è enormemente arricchito di valenze ignorate all’epoca della Rivoluzione scientifica del XVII secolo. Il problema è che, mentre gli specialisti delle varie scienze (matematica, fisica, scienze naturali e scienze della psiche) sono perfettamente consapevoli di non poter studiare i fatti del mondo naturale con lo stesso punto di vista di Francesco Bacone, Galilei, Cartesio o Newton, gran parte dei divulgatori scientifici e, attraverso di essi, del pubblico dei non-specialisti, sono rimasti ancorati a una visione scientifica alquanto datata: quella, in sostanza, impostasi in Occidente, verso la fine del XIX secolo, con la filosofia del Positivismo.

Penisola Rallier du Baty, Isole Kerguélen.

Questa premessa era necessaria perché il campo del possibile, nella scienza contemporanea, si è molto allargato rispetto a quanto comunemente ammesso prima della “scoperta” delle matematiche non euclidee, delle particelle sub-atomiche e della dimensione inconscia della psiche. La teoria dei quanti, nel campo della fisica, o il riconoscimento dei casi di personalità multipla, in quello della psicologia, per fare solo due esempi, hanno letteralmente rivoluzionato la nostra visione del mondo naturale. Non solo: passata (almeno fra gli specialisti) la stagione dell’ubriacatura postivistica e neopositivistica, cioè di una visione rozzamente scientista della realtà, torna con forza crescente la vecchia domanda: è possibile esplorare tutto il campo delle realtà naturali, servendosi esclusivamente degli strumenti d’indagine, materiali e concettuali, forniti da quella facoltà che quasi tutte le filosofie dell’Occidente (ma solo dell’Occidente, anzi dell’Occidente moderno) definiscono genericamente la ragione ma che è, a ben guardare, solo una parte di essa, e cioè la ragione strumentale e calcolante?

Problemi difficili, certo, e la cui trattazione – anche sommaria- esulerebbe di gran lunga dai limiti della presente indagine. Tuttavia era giusto, crediamo, almeno accennarvi, prima di tentare una modesta indagine sulla questione che ci eravamo proposta.

Ora, se è giusto – in una ricerca scientifica – partire dalla spiegazione più semplice di un determinato fenomeno naturale, la prima ipotesi cui si è tentati di ricorrere per spiegare il mistero delle impronte viste dagli uomini della spedizione antartica di J.C.Ross è che esse siano state lasciate sulla neve da un animale introdotto dall’uomo. Abbiamo ragioni per ritenere verosimile una tale ipotesi? In linea di massima, saremmo portati a rispondere affermativamente a questa domanda, nonostante il parere negativo espresso da James Cook circa le possibilità di sopravvivenza di animali introdotti dall’Europa (vedi nota n. 24 del presente articolo). Dopo la visita del capitano Cook, nel 1776, l’arcipelago delle Kerguélen divenne il punto d’incontro di cacciatori di foche e di balene, che le usarono – come molte altre isole sub-antartiche – quale base provvisoria durante le loro spedizioni di caccia, che potevano durare anche tre anni (28). Erano i tempi d’oro di quel genere di battute, immortalati, fra l’altro, da romanzi famosi come Moby Dick di Herman Melville. Gli studiosi di botanica, e particolarmente di fitogeografia, sanno bene quali danni irreparabili quei cacciatori di foche e di balene portarono agli ecosistemi delle isole oceaniche perché, oltre a compiere stragi indiscriminate di cetacei e di pinnipedi, spesso fino alla totale estinzione, essi avevano preso l’abitudine di sbarcare a terra, in quelle isole, animali domestici destinati all’alimentazione degli equipaggi, particolarmente ovini e suini (29). Le capre e, in misura minore, le pecore e i maiali, si arrampicavano dappertutto, sterminando (ove ce n’erano) i piccoli mammiferi indigeni e gli uccelli più indifesi, com’era successo al Dodo, uccello non volatore, dell’isola Mauritius, nel 1600 (30). Ad essi si aggiungeva l’opera nefasta dei ratti, viaggiatori clandestini di tutte le navi europee e nemici implacabili delle faune indigene. Capre e pecore, poi, brucavano voracemente la vegetazione, sino a rendere brulle e spoglie delle isole un tempo ammantate di una ricca vegetazione: tale fu il caso, ad esempio, dell’isola di S. Elena e dell’isola di Pasqua fra quelle sub-tropicali, e, almeno in parte, della Nuova Zelanda, fra quelle di clima temperato. L’importazione casuale di piante infestanti di origine europea e quella volontaria di piante destinate ad uso agricolo dava poi il colpo di grazia a quei delicatissimi ecosistemi, che l’isolamento millenario aveva reso particolarmente vulnerabili rispetto ai competitori esterni. A tutto questo si aggiunga che gli Europei introducevano non solo animali da allevamento, ma anche selvaggina selvatica, come il cervo nella Nuova Zelanda o addirittura la renna nella Georgia Australe, che i Norvegesi avevano trasformato in una stazione baleniera permanente: con quali conseguenze sul mantello erboso originario, è facile immaginare.

James Clark Ross (Londra, 15 aprile 1800 – Aylesbury, 3 aprile 1862).

Dunque, non si può escludere del tutto che le impronte viste sull’isola Kerguélen da Ross nel 1840 fossero dovute a una pecora o a una capra (più difficile, ache se non impossibile, pensare a un maiale rinselvatichito) portata da qualche baleniere allo scopo di potersi rifornire di carne fresca nel corso delle lunghe battute di caccia nei mari australi, in un’epoca in cui l’unico sistema di conservazione della carne era quello di metterla sotto sale e non poteva, comumque, garantirne la commestibilità a tempo indefinito.

Tutto chiarito, allora, e svelato il mistero? In realtà, le cose non sono proprio così facili. Infatti, questa spiegazione offre indubbiamente il vantaggio della semplicità, il che corrisponde a una nota formula della filosofia scolastica, secondo la quale non bisogna moltiplicare il numero degli enti quando è possibile spiegare la realtà con un numero più ristretto di cause (31). D’altra parte, essa presenta un inconveniente tutt’altro che trascurabile: è puramente congetturale e ha dalla sua il criterio della verosimiglianza logica, ma non quello della verifica concreta. Ad esempio, noi possiamo sapere con certezza quando monsieur Brossière prese in affitto dal governo francese vasti appezzamenti di terreno per introdurre sull’isola l’allevamento delle pecore; ma non sappiamo nulla di quanto potè fare, di propria iniziativa e in via, diciamo così, non ufficiale, qualche sconosciuto capitano di baleniera nei primi decenni del XIX secolo, quando la sovranità su quei luoghi era peraltro ancora indefinita. Vogliamo dire che è ragionevole supporre che animali dotati di zoccoli siano stati introdotti senza che la cosa fosse noto a livello internazionale, e ciò spiegherebbe egregiamente la vivissima sorpresa provata dai membri della spedizione antartica britannica: è ragionevole appunto perché fornisce la spiegazione più semplice e naturale di un evento altrimenti difficilmente interpretabile. Ma ciò significa, d’altro canto, che le conclusioni sono già implicite nella premessa, com’è tipico del ragionamento deduttivo. Se tutti gli uomini sono mortali e se Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale; se alcune specie di mammiferi hanno gli zoccoli e quelle trovate sulla neve sono impronte di zoccoli, allora a produrle devono essere stati degli ungulati (dal latino ungula = unghia, zoccolo), anche se non risiulta affatto che ve ne fossero, in quel momento, sull’isola.

Qual è il limite intrinseco di un tal modo di studiare i fatti naturali? Quello di trattarli in maniera concettuale, cioè teorica, come si fa con gli enti della logica e con quelli della matematica, ma come non si dovrebbe dare per scontato con gli enti empirici. Torna qui attuale il pregiudizio fondamentale di ogni concezione della realtà basata sullo scientismo: se esiste o se, comunque, è esperibile solo ciò che può essere studiato in termini logico-matematici (il fenomeno kantiano, radicalmente separato dalla cosa in sé o noumeno), non può darsi altra realtà che quella fisica in senso stretto. Ma quali garanzie abbiamo che la realtà fisica stricto sensu, cioè esperibile dai sensi ordinari, esaurisca l’intera gamma del reale? Che cosa ci autorizza a pensare che la Natura sia solo quella esperibile con i sensi ordinari e che inoltre, al di sopra (o al di sotto) di essa non vi siano altri piani di realtà, cher la ragione strumentale e calcolante è inadeguata a comprendere, anzi perfino ad immaginare? Del resto, la ragione umana è qualcosa di più nobile e complesso di un elaboratore elettronico; ma usandola in maniera esclusivamente strumentale, non le consentiamo di ottenere risultati diversi da quelli di un elaboratore. Il computer non ci dà operazioni diverse dai dati che vi abbiamo precedentemente inserito: e tale è anche la struttura della ragione calcolante. Se pretendiamo di ottenere da essa solo risposte implicite nelle informazioni di partenza, ci precludiamo di ampliare veramente il campo della conoscenza umana. L’albero di melo non può dare che mele; la ragione calcolante non può dare che quanto è implicito nelle sue premesse (o nei suoi pregiudizi), tertius non datur – meglio ancora: secundus non datur. Pertanto, sono ammesse solo quelle ipotesi scientifiche che non contrastano con le premesse del quadro generale di riferimento accettato, in un determinato momento storico, dalla comunità scientifica dominante (università, case editrici, sistema scolastico, ecc.). Ma un tale modo di procedere ostacola il reale progresso scientifico e, giusta l’ipotesi dell’epistemologo Thomas Kuhn, produce le rivoluzioni scientifiche che sono essenzialmente rivoluzioni contro il paradigma accettato appunto dalla comunità scientifica ufficiale (32).

Una finestra sull’ignoto

Proviamo allora a capovolgere, per pura ipotesi, il nostro paradigma scientifico e ad ammettere che, se nelle isole Kerguélen non vi erano capre, pecore, maiali o addirittura cervi, le impronte di zoccoli sulla neve non possono essere spiegate con la presenza di tali animali. Sul piano del ragionamento logico ristretto, questa è un’acquisizione concettuale non meno logica, anzi si direbbe molto più logica, della precedente. Quello che stride è il quadro di riferimento generale: i dati che abbiamo immesso, per così dire, nel computer; cioè che in quei luoghi non esistevano mammiferi di alcun tipo. E dunque?

E’ giunto il momento di ritornare alla vicenda delle impronte del diavolo del Devonshire, che indirettamente aveva riportato di attualità, e messo a conoscenza di un vasto pubblico, la misteriosa scoperta fatta da J. C. Ross nell’isola di Kerguélen. La mattina dell’ 8 febbraio 1855 gli abitanti del Devon scoprirono, uscendo di casa nel freddo intensissimo di quell’inverno eccezionale, una serie di impronte di zoccoli nella neve, disposte in linea retta e riconoscibili lungo una distanza totale di circa 80 miglia. Non assomigliavano alle impronte di alcun animale conosciuto, ma né questo fatto né la straordinaria lunghezza della traccia, che attraversava le campagne innevate in linea retta, rappresentavano la cosa più sconcertante.

Quest’ultima era costituita dal fatto che le impronte si snodavano una dietro l’altra, tagliando diritto anche in presenza di ostacoli. Davanti ai muri dei giardini, per esempio, esse si fermavano per continuare dall’altra parte, come se lo sconosciuto animale li avesse saltati senza minimamente deviare, anzi, come se li avesse “attraversati”. E la neve sulla cima dei muri era rimasta vergine! In alcuni villaggi, poi, le impronte a ferro di cavallo erano ben visibili sui tetti delle case, a precchi metri d’altezza; oppure si fermavano davanti alla soglia di una capanna, per ricomparire sul retro; oppure ancora scomparivano davanti a un mucchio di fieno e poi riprendevano al di là di esso, sempre in linea retta, come se la creatura vesse compiuto un salto prodigioso. La popolazione ne fu terrorizzata: furono organizzate, ma invano, delle battute di caccia con fucili e forconi, e ben presto nacque fra il popolo la voce che il Diavolo, in quella buia e fredda notte d’inverno, avesse passeggiato sulla Terra con piedi di caprone, come ai tempi dei Sabba delle streghe.

Naturalmente anche il mondo scientifico fu messo a rumore, e parecchi naturalisti, tra cui il celebre Richard Owen, vollero dire la loro. Si parlò di un tasso; ma quale animale selvatico poteva correre in in linea retta per la bellezza di 80 miglia, coprendo una tale distanza in una sola notte? E saltare a quel modo al di là dei muri e dei covoni di fieno, per poi salire sui tetti delle case? (33).

Qualcun altro ipotizzò che un pallone sonda si fosse alzato, forse per disguido, dal porto militare di Devonport la sera del 7 febbraio, e che dei sacchetti pendenti da delle funi avessero lasciato le famose impronte (34). Certo che il vento doveva esser stato un prodigio di costanza, per aver sospinto il pallone sonda così a lungo senza mai deviare né a destra né a sinistra!

Si parlò anche di un uccello; di un canguro fuggito da uno zoo; di un buontempone in vena di scherzi fuori del comune: tutte ipotesi praticamente insostenibili e tutte rispondenti a una medesima logica: il mistero non è una dimensione della realtà che va accostata con l’indagine razionale ma anche con umiltà e consapevolezza dei limiti umani, bensì un nemico da aggredire, una sfida intollerabile da rintuzzare, un’inquietudine che va rimossa ad ogni costo per riportare la percezione del reale entro i binari rassicuranti di ciò che è già conosciuto. In alttre parole, per la mentalità scientista è preferibile cadere nell’assurdo (un tasso che copre 80 miglia in poche ore, saltando muri e scalando edifici) piuttosto che ammettere, anche solo per ipotesi, che si possa sollevare per un momento il velo della razionalità codificata dal paradigma scientifico dominante.

E si badi che il caso delle impronte del Devonshire non è affatto un unicum nella storia recente (per non parlare di quella antica). Per fare un solo altro esempio, ma se ne potrebbero fare parecchi, ricordiamo che il Times di Londra del 14 marzo 1840 (dunque, due mesi prima della scoperta di James Clark Ross nei mari antartici) riferì di impronte identiche a quelle trovate poi nel 1855, questa volta sulla neve di Glenorchy, nelle Highlands scozzesi, con l’unica differenza che sembravano prodotte da una creatura che avesse proceduto a balzi piuttosto che al trotto (35). E ci siamo limitati alla sola Gran Bretagna; ma impronte strane, o mostruose, sono state segnalate in ogni parte d’Europa e nell’arco di vari secoli. E allora?

Certo non saremo noi a tirare in ballo l’ufologia, o l’occulto, magari in chiave diabolica (per quanto rifiutiamo l’atteggiamento sprezzante di aprioristico rifiuto, proprio a molti divulgatori scientifici di formazione neopositivista). Tornando al caso delle isole Kerguélen, gli elementi in nostro possesso sono troppo scarsi per arrischiare una spiegazione del fenomeno, sia di tipo naturalistico sia d’altro genere. Mancano, ad esempio, i calchi o le riproduzioni delle impronte, mentre esistono nel caso del Devonshire di quindici anni dopo (36). Il fatto che le spiegazioni razionali avanzate si siano dimostrate poco convincenti non autorizza a saltare con ingenua disinvoltura nel campo dell’irrazionale.

Forse, però, nonostante tutto possiamo ricavare un insegnamento di carattere generale da questa intricata vicenda, sollevata quasi per caso da una spedizione scientifica del 1840 in una dimenticata isola sub-antartica, ed è il seguente. Vi sono cose per le quali la scienza naturale stenta a dare una spiegazione e che stenta perfino a contestualizzare nel paradigma scientifico perlopiù accettato, non perché la scienza non disponga al momento di strumenti di ricerca sufficientemente sofisticati, ma perché l’orizzonte concettuale della ragione calcolante è intrinsecamente inadeguato non solo a comprenderli, ma addirittura ad accettarli.

I “cerchi nel grano” (non tutti, ovviamente, ma quelli infinitamente complessi e straordinariamente precisi, giudicati “autentici” dagli studiosi, nel senso di non contraffatti), appartengono a tale categoria di fenomeni (37). Un altro esempio è costituito da quei reperti archeologici o paleontologici che contrastano irrimediabilmente col paradigma scientifico oggi dominante (si badi a quell’oggi), e che si stanno accumulando uno sull’altro, a dispetto della decisa volontà della scienza accademica di voltare la testa dall’altra parte per non vederli (situazione che richiama molto, per inciso, quella della cosmologia tolemaica alla vigilia della rivoluzione copernicana) (38). Ma una scienza che impieghi parte delle sue energie per rimuovere quei fatti che non riesce a spiegare, invece di prenderli seriamente in considerazione, è una scienza che nega i suoi stessi presupposti e la propria ragion d’essere. Così accade che “pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” (39). Analogo discorso si potrebbe fare per molti di quei fenomeni “paranormali” di cui si occupa, da alcuni decenni ormai, una scienza giovane come la parapsicologia; o per quelle creature misteriose di cui si occupa la criptozoologia. La civiltà occidentale moderna, figlia della Rivoluzione scientifica del XVII secolo, è passata da un estremo all’ altro: un tempo si credeva pressochè a tutto (40), oggi non si vuol credere più a nulla che non sia misurabile, quantificabile, riproducibile in laboratorio; ad onta del fatto che civiltà millenarie, come quella dell’India, abbiano sempre considerato con ben altra consapevolezza fenomeni non spiegabili solo con la ragione, attinenti al mondo naturale, preternaturale e soprannaturale.

E’ come se avessimo fermamente deciso di escludere dal nostro orizzonte mentale e spirituale tutto ciò che non rientra nella sfera della ragione strumentale, riducendo l’essere umano, per parafrasare Marcuse, a vivere in una sola dimensione, mentre è immerso n un cosmo multidimensionale ed è, egli stesso, chiamato a realizzare una vocazione più ampia, più comprensiva della realtà in cui è collocato. Triste spettacolo quello di un pesce delle immensità oceaniche, costretto a sguazzare in una misera pozzanghera; o, se si preferisce il paragone, del proprietario di un immenso e magnifico palazzo che si riduce, per pigrizia ed ignoranza, a vivere come un mendicante nella più buia e squallida delle sue cantine.

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Tratto, con il gentile consenso dell’Autore, dal sito Arianna Editrice.

Note

1) Spesso, nelle enciclopedie e nei libri di geografia, si parla dell’isola Kerguélen al singolare, mentre si tratta di un arcipelago formato da oltre 300 isole di cui una sola, effettivamente, occupa di gran lunga la maggior superficie (5.820 kmq. su un totale di 6.232: un po’ meno della Corsica). Le coordinate geografiche sono fra 48° 27’ e 49° 50’ Sud; e fra 68° 30’ e 70° 35’ Est. Politicamente il gruppo fa parte delle Terre Australi ed Antartiche Francesi (T.A.A.F., kmq. 395.500 circa) che comprendono anche le isole Crozet, Saint-Paul e Amsterdam, e la Terra Adelia nel continente antartico vero e proprio (dati riportati sul Calendario Atlante De Agostini di Novara). Scrive Zavatti: “Soltanto la Grande Terra, lunga 140 km., è degna di rilievo. E’ costituita da terreni vulcanici dell’èra secondaria e terziaria e presenta uno sviluppo costiero di 1.300 km. Vi si trovano numerosi giacimenti di lignite, la cui consistenza è però troppo limitata per renderne consigliabile lo sfruttamento.” In S. Zavatti, I Poli, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 210. La distinzione fra Grande Terra ed arcipelago risale all’Ottocento ed è documentata nella Geographie Universelle dell’insigne geografo Eliseo Réclus (Parigi, vari voll .fra il 1876 e il 1894). Per motivi pratici, tuttavia, nel corso del presente articolo useremo indifferentemente l’espressione “isola” o “arcipelago”, il numero singolare o plurale, ma con diverso significato che sarà ricavabile dal contesto.

2) Cfr. Il grande libro delle esplorazioni a cura di E. Newby, tr. it. Milano, Vallardi, 1976, p. 250. Erebus e Terror erano due navi cannoniere attrezzate a barco della Marina da Guerra, tre alberi, costruzione in legno. Nonostante le loro modeste dimensioni avevano una grande capacità di carico, e inoltre il loro ridotto pescaggio le metteva in grado di sfruttare agevolmente anche quei porti naturali che, come alle Kerguélen, non risultavano ancora scandagliati e accuratamente rilevati sulle carte nautiche. Un grave incidente dovuto alle rocce sommerse si verificò in un canale della Grande Terra all’incrociatore ausiliario tedesco Atlantis, nel 1940, nonostante la profondità apparente fosse stata rilevata di 20 metri ed il fatto che la nave avesse atteso l’alta marea del mattino per penetrarvi. Cfr. U. Mohr, Atlantis, tr. it. Milano, Longanesi, 1965, pp. 181-87.

3) Cfr. Encyclopaedia Britannica, ed. 1961, vol. 13, p.350. “The island was discovered by the French navigator, Yves Joseph de Kerguelen-Trémarec, a Breton noble (1745-1797), on the 13th of February 1772, and partly surveyed by him in the following year. He was one of those explorers who had been attracted by the belief in a rich southern land, and this island, the South France of his first discovery, was afterwards called by him Desolation Land in his disappointment”. Pare che il conte de Kerguélen-Trémarec, al suo rientro in Francia, finisse addirittura imprigionato alla Bastiglia (vedi U. Mohr, op. cit., p.177). Sul cambiamento di nome delle isole, vedi anche W. Sullivan, Alla ricerca di un continente, tr. it. Firenze, Casini, s.d.

4) Nella baia che da Cook fu chiamata Christmas Harbour, ma che i Francesi del capitano Rosnevet, collega del Kerguélen, avevano scoperto il 6 gennaio 1774 e denominato dell’Oiseau (dal nome della loro nave), furono trovati degli alberi fossili, uno dei quali misurava sette piedi di circonferenza: cfr. Ch. de La Roncière, La scoperta della Terra, tr. it. Torino, S.A.I.E., 1958, p. 280. Il piede è una misura di lunghezza inglese corrispondente a 12 pollici e a un terzo di yard, ed equivalente a 30,48 cm.; pertanto l’albero segnalato dal Rosnevet aveva una circonferenza di 213,36 cm. Solo in un clima tropicale, sub-tropicale o almeno temperato possono svilupparsi forme arboree di tali dimensioni; e i giacimenti di lignite confermano che le Kerguélen dovettero godere, in passato, di un clima del genere, ben diverso da quello odierno. La cosa non è semplicissima da spiegare, anzi è più difficile delle foreste fossili rinvenute nella stessa Antartide, la quale “ era un tempo lussureggiante di boschi di pini e di giungle di felci arboree” (da W. Sullivan, op. cit., p. 16). Questo perché la deriva dei continenti e la teoria della tettonica a zolle spiegano abbastanza agevolmente il radicale mutamento climatico di intere masse continentali; ma le piccole isole oceaniche di origine vulcanica presentano un caso del tutto diverso. Qui, probabilmente, il cambiamento del clima è avvenuto in gran parte a causa della migrazione dei Poli terrestri. Per la distribuzione degli alberi nelle zone più meridionali della Terra, cfr. F. Lamendola, Il limite antartico della vegetazione arborea, in Il Polo, vol. 3, 1986, pp. 29-35.

5) Pringlea è un genere di piante erbacee rappresentato da una sola specie, Pringlea antiscorbutica (così chiamata perché usata dagli equipaggi delle navi a vela per combattere lo scorbuto, malattia dovuta a carenza di vitamina C), dall’aspetto di un cavolo e assai ricca di acido ascorbico. E’ una delle rare piante fanerogame (= con fiore) delle isole Kerguelen; cfr. Dizionario di Botanica, Milano, Rizzoli, 1984, p. 383. Come il cavolo, Pringlea appartiene alla famiglia delle Cruciferae; per una adeguata rappresentazione, vedi A. Guillaumin-F. Moreau – C. Moreau, Mondo verde, tr. it. Milano, Labor, 1957 (2 voll.), vol: II, p. 808.

6) Sir Joseph Dalton Hooker (1817-1911) era figlio di un altro celebre botanico, sir William Jackson Hooker (1785-1865), la cui fama è legata, oltre che a un decisivo contributo allo studio delle piante superiori, delle felci, delle alghe, dei licheni e dei funghi, al fatto di essere stato (dal 1841) il primo direttore dei Royal Botanic Gardens di Kew, nel Surrey, prestigiosa istituzione scientifica del XIX secolo. La notorietà di J. D. Hooker, invece, è dovuta soprattutto ai suoi viaggi botanici, allo studio della distrubuzione geografica delle piante e all’incoraggiamento dato a Charles Darwin (insieme al geologo Ch. Lyell) quando il grande scienziato, padre della teoria della selezione naturale, fu messo in crisi dalla comunicazione di Alfred Russell Wallace del 1858, in cui questi aveva elaborato, indipendentemente, una teoria analoga. Il viaggio più importante di J. D. Hooker fu quello al seguito di J. C. Ross come assistente del medico di bordo, ma in realtà come naturalista della spedizione. Nel 1855 venne nominato aiuto direttore dei Giardini di Kew e nel 1865 vi succedette al padre come direttore; dal 1873 al 1878 fu presidente della Royal Society. Cfr: le due “voci” della Encyclopaedia Britannica, ed. 1961, vol. 11, pp. 727, 729.

7) Al ritorno dalla spedizione di J. C. Ross, nel 1843, Joseph Dalton Hooker pubblicò Flora Antarctica (1844-47), Flora Novae Zelandiae (1853-55) e infine Flora Tasmanica (1855-60), un vasto e minuzioso trittico che compendiava le più recenti conoscenze geobotaniche dell’emisfero Sud. Altre sue opere importanti sono Outlines of the Distribution of Arctic Plants (1862); il classico Student’s Flora of the British Isles (1870); un’opera monumentale, Genera plantarum (1862-63), in collaborazione con G. Bentham; e Flora of British India (1855-97). Vedi anche L. Huxley, Life and Letters of sir J. D. Hooker, 2 voll. (1918), e W. B. Turrill, Pioneer Plant Geographer (1953). Sul ruolo da lui svolto, insieme a Lyell, nel sollecitare Darwin, cfr. G. Montalenti, Charles Darwin, Roma, Editori Riuniti, 1982, pp. 61-62 ep. 125; e J. F. Leroy, Darwin, tr. it. Milano, Ediz. Accademia, 1971, pp. 55-56.

8) “Kerguélen era salpato dall’isola di Francia [Mauritius] il 16 gennaio 1772, con la nave da carico Fortune e la gabarra Gros-Ventre, per tentare attraverso l’Atlantico meridionale una nuova via preconizzata dal visconte De Grenier. Il luogotenente De Boisguehenneuc aveva scoperto la terra che in seguito avrebbe portato il nome del suo capitano; povera terra che aveva per soli abitanti il pinguino reale, la procellaria gigante, l’albatro, il gabbiano e la fregata, e come visitatori il leopardo e l’elefante marino.” Così Ch. de La Roncière, op. cit., pp. 279-80.

9) Probabilmente si tratta di Christmas Harbour, di cui esiste una bella incisione nel libro di J. C.Ross A voyage of Discovery in the Southern and Antarctic Regions, Londra 1847 (e che è riportata sia in Ch. de La Roncière, op. cit., p 390, sia nel vol. della enciclop. Il mondo dell’occulto, di C. Wilson, Realtà inesplicabili, tr. it. Milano, Rizzoli, 1976, p. 129). L’incisione, di gusto squisitamente romantico, ben esprime quel senso di suggestiva, indefinibile malinconia che avvolge il paesaggio delle Kerguélen. Come stile ricorda molto le celebri incisioni di Gustave Dorè per la Divina Commedia, e particolarmente l’atmosfera elegiaca di quelle del Purgatorio. Queste notazioni hanno la loro importanza perché aiutano a comprendere con quale tipo di sensibilità esploratori come Ross si accostarono alle terre dell’emisfero australe e con quale attitudine psicologica vissero l’esperienza del mistero.

10) Il Monte Ross è alto 1.960 m. e sorge nella Penisola Galliéni, al centro della costa meridionale, fra la Penisola de l’Amiral a sud-ovest e la Penisola Joffre a sud-est (tutti nomi, ovviamente, moderni). In linea d’aria, si trova esattamente a metà strada fra il canale di Port-aux-Francais e le pendici del grande Ghiacciaio Cook, che copre il 20 % della superficie della Grande Terra. Cfr. L. Boitani – S. Bartoli – L. Beani, Antartide e Patagonia, Edizioni Futuro, 1985, p. 91. Per la cartografia, vedi Il grande Atlante di Selezione dal Reader’s Digest, 1962, tav. 72.

11) Lucrezio, De rerum natura, libro quinto, 195-234. “Lucrezio combatte l’opinione degli Stoici che una Provvidenza divina governi il mondo, e che esso sia stato creato dalla Provvidenza stessa nel modo migliore per l’uomo, e quasi posto al suo servizio. L’evidenza stessa delle cose prova il contrario: vediamo infatti che monti e foreste selvagge, mari e paludi rendono inabitabile gran parte della terra, due terzi della quale, la zona glaciale e la zona torrida, non consentono vita umana…” Così L. Perelli nel suo Commento al De rerum natura, Torino, Lattes, 1981, p. 174.

12) U. Mohr, op. cit., pp. 180, 196.

13) “I conigli cancellarono letteralmente tutta la copertura vegetale dominante nell’arcipelago delle Kerguélen, copertura che era assicurata da tre diverse piante: Azorella, Pringlea e Festuca. Al loro posto crebbe Acaena, una pianta che ricresce rapidamente dopo il pascolo ed è anche diffusa dagli stessi conigli. Sfortunatamente tutta la microfauna invertebrata infeudata sulla vegetazione originaria non potè adattarsi ad Acaena e scomparve”. Cit. da H. Koopowitz –H. Kaye, Piante in estinzione. Una crisi mondiale, tr. it. Bologna, Edagricole, 1985, p. 111.Si noti che in una lontanissima isola del Pacifico meridionale, Mas a Tierra, è in atto lo stresso dramma fin dagli anni fra Otto e Novecento: la specie cilena Acaena argentea, insieme a un’altra infestante sudamericana, Aristotelia maqui, si va diffondendo rapidamente e minaccia la incomparabile ed unica flora locale. Cfr. C. Skottsberg, The Island of Juan Fernandez, in The Geographical Review, 1918, vol. 1, pp. 362-383. Vedi anche la “voce” Juan Fernandez nella Enciclopedia Italiana.

14) Una estesa trattazione dell’avifauna delle isole sub-antartiche, tra cui le Kerguélen, si trova in B. Stonehouse, Vita del Polo Sud, tr. it. Milano, Mondadori, 1973. La distruzione della fauna indigena, comunque, non ebbe inizio con i balenieri ma già coi primissimi esploratori. Nell’edizione francese dei Viaggi di James Cook si può vedere, ad esempio, un’incisione che mostra la Resolution e la Discovery alla fonda presso le isole Kerguélen, e alcuni marinai inglesi che si accingono, armati di bastone, a uccidere un gruppo d’ignari pinguini per incrementare le scorte di carne delle due navi.

15) Cfr. C. Wilson, op. cit., pp. 128-29.

16) Cfr. E. Newby, op. cit., p. 238. Il Polo Nord magnetico venne localizzato a 70° 05’ Nord e 96° 46’ Ovest.

17) Vedi S. Zavatti, Dizionario degli esploratori e delle scoperte geografiche, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 244-45.

18) Vedi S. Zavatti, L’esplorazione dell’Antartide, Milano, Mursia, 1974, p. 40 sgg.; e A. Solmi, Gli esploratori del Pacifico, Novara, De Agostini, 1985, p.221 sgg.

19) “Le istruzioni di Ross erano di impiantare osservatori magnetici fissi a St. Elena, al Capo di Buona Speranza, all’isola Kerguélen ed in Tasmania. Quindi nell’estate australe del 1840-41, di procedere direttamente verso Sud allo scopo di determinare la posizione del Polo magnetico, e addirittura raggiungerlo se possibile…” (da E. Newby, op. cit., p. 252). Penetrato nella banchisa come nessuno prima di lui aveva fatto, con un misto di abilità e di fortuna veramente eccezionali giunse fino a 76° 12’ Sud e 164 Est, a sole 160 miglia dal Polo magnetico Sud, prima che la gigantesca Barriera di ghiaccio che oggi porta il suo nome lo costringesse a volgere nuovamente il la barra verso la Tasmania.

20) Cfr. F. Lamendola, Terra Australis Incognita, in Il Polo, vol 3, 1989, pp. 51-58; id., Mendana De Neira alla scoperta della Terra Australe, vol. 1, 1990, pp. 19-24.

21) Cit. da Ch. de La Roncière, op. cit., p. 262.

22) I due viaggi di Y. J. de Kerguélen-Trémarec furono comunque, in un certo senso, preparatorii del terzo grande viaggio di James Cook. “Mentre si svolgeva il secondo grande viaggio del Cook, erano intanto rientrati in Francia il Kerguélen-Trémarec ed il comandante Crozet – succeduto al Marion Dufresne ucciso alla Nuova Zelanda – ed avevano quindi riferito delle loro scoperte di nuove terre nella zona dell’Oceano Indiano che sta a mezzogiorno dell’isola Maurizio. Il Cook ebbe ordine di investigare intorno a quelle terre, evidentemente perché fosse tolto il dubbio se non rappresentassero, per caso, avamposti – non più di una Terra Australe – ma per lo meno del supposto continente antartico.” Così G. Dainelli, La conquista della Terra, Torino, U.T.E.T,, 1954, p. 378.

23) Cit. da S. Zavatti, L’esplorazione dell’Antartide, cit., p. 22.

24) Crediamo sia di qualche utilità, al fine di meglio comprendere quanto diremo sulla improbabilità che le impronte di zoccoli trovate da J. C. Ross fossero di qualche animale domestico importato dai balenieri e poi rinselvatichito, riportare l’opinione espressa nel 1776 dal capitano Cook circa un eventuale allevamento di animali domestici sull’isola Kerguélen. “Cook e alcuni suoi uomini sbarcarono e trovarono una spiaggia arida e infeconda che sconsigliò l’abbandono di qualcuno degli animali di bordo perché sarebbe stato condannarli a una morte sicura. Cook affermò anche, nel suo diario, che nessun altro essere vivente avrebbe potuto vivere in quella terra, all’infuori degli uccelli e delle foche”. Cit. da S. Zavatti, I viaggi del capitano James Cook, Milano, Schwarz, 1960, p. 161.

25) Le specie di pinguino esistenti sono 18, di cui 3 si riproducono esclusivamente a sud della Convergenza antartica, mentre 4 nidificano sia a nord che a sud di essa (cfr. B. Stonehouse, op. cit., p. 88.) e le altre si spingono ancora più a nord, fino alla linea dell’Equatore (nel caso delle Galàpagos). Vedi anche Grande atlante degli animali, tr. it.Novara, De Agostini, 1974, pp. 158-59; e H.-W. Smolik, Enciclopedia illustrata degli animali, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 828.

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Francesco Lamendola, laureato in Lettere e Filosofia, insegna in un liceo di Pieve di Soligo, di cui è stato più volte vice-preside. Si è dedicato in passato alla pittura e alla fotografia, con diverse mostre personali e collettive. Ha pubblicato una decina di libri e oltre cento articoli per svariate riviste. Tiene da anni pubbliche conferenze, oltre che per varie Amministrazioni comunali, per Associazioni culturali come l'Ateneo di Treviso, l'Istituto per la Storia del Risorgimento; la Società "Dante Alighieri"; l'"Alliance Française"; L'Associazione Eco-Filosofica; la Fondazione "Luigi Stefanini". E' il presidente della Libera Associazione Musicale "W.A. Mozart" di Santa Lucia di Piave e si è occupato di studi sulla figura e l'opera di J. S. Bach.

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