Il mistero dell’Artide preistorica: Thule

È cosa assai caratteristica, che in seno a tutto un gruppo di ricerche recentissime sulla preistoria facciano nuova apparizione idee antiche, fino a ieri considerate come puri miti.

thuleUna di tali idee si riferisce alla leggendaria terra primordiale degli Iperborei. Messa sotto cauzione la presunta certezza, che nella preistoria avrebbe soltanto vissuto un’umanità scimmiesca; giunti ad affrontare il problema delle origini con uno sguardo nuovo e spregiudicato, fino a sospettare che già l’età della pietra sia stata testimone di una vera e propria civiltà di tipo superiore, simbolico-spirituale dei distinti ricercatori come «ipotesi di lavoro» per una grande sintesi, oggi, han ripreso proprio quell’idea. La patria primordiale di una razza bianca preistorica altamente civilizzata, tanto da venir considerata come «divina» dagli antichi, sarebbe stata proprio l’Artide, il Polo Nord, la favolosa Iperboride.

L’apparenza paradossale di questa tesi viene meno non appena si ricordi ciò che la fisica insegna intorno ai fenomeni derivanti dalla cosiddetta «precessione degli equinozî». A causa dell’inclinazione dell’asse terrestre di epoca in epoca si produce uno spostamento di clima sulla terra. Se sotto ai ghiacci polari è stato rinvenuto del carbon fossile, ciò vuol dire che un tempo in quella zona vi furono foreste e fiamme. Il congelamento non sarebbe intervenuto nella zona artica che in un periodo successivo. Una delle designazioni per l’Asgard, sede delle «divinità» e patria originaria dei ceppi regali nordici, secondo le tradizioni scandinave, è l’«isola verde» o «terra verde», in tedesco moderno Grünes-Land, donde Groenlandia. Ma questa terra, come lo dice il suo nome, ancor sino al tempo dei Goti sembra presentasse una rigogliosa vegetazione e non fosse ancora investita tutta dal congelamento. Ma vi è di più: nella regione dei ghiacci artici recentemente le spedizioni del canadese Jenness, dei danesi Rasmussen, Therkel e dell’americano Birket-Smith han fatto dei rinvenimenti archeologici invero singolari: in fondo sotto i ghiacci si son trovati resti di civiltà di ben più alto grado di quella esquimese e relitti di strati ancor più antichi, preistorici. A tale civiltà è stato dato il nome di civiltà di Thule.

origine-lingue-indoeuropeeThule è il nome che i Greci davano appunto a una regione o isola dell’estremo nord, la quale si confonde spesso con quelle terre degli Iperborei, donde sarebbe venuto il solare Apollo, cioè il dio delle razze dorico-achee scese effettivamente dal nord in Grecia. E di Thule Plutarco dice che in essa le notti per circa un mese duravano due sole ore: è proprio la «notte bianca» dei paesi boreali. E se altre tradizioni elleniche chiamano il mare boreale Mare Cronide, cioè Mare di Kronos (Saturno), questa è un’indicazione significativa, poiché Kronos veniva concepito come uno degli dei dell’età dell’oro, cioè dell’età primordiale, dell’età prima dell’umanità.

Ora, se noi ci portiamo in America, nelle civiltà azteche del Messico troviamo corrispondenze così singolari, che esse si estendono fino ai nomi. Infatti gli antichi messicani chiamavano Tlapallan, Tullan e anche Tulla (l’ellenica Thule) la loro patria primordiale. E come la Thule ellenica veniva riferita al solare Apollo, così ecco che anche la Tulla messicana vien considerata come la «Casa del Sole».

Ma confrontiamo tali tradizioni messicane con quelle celtiche. Se i lontanissimi progenitori dei Messicani sarebbero venuti in America da una Terra nordico-atlantica, ecco che le leggende irlandesi ci parlano della «razza divina» del Tuatha dè Danann, la quale sarebbe venuta in Irlanda dall’Occidente, da una mistica terra atlantica o nordico-atlantica, l’Avallon. Si direbbero, dunque, due forme di uno stesso ricordo. Le due civiltà corrisponderebbero a due irradiazioni, americana l’una, europea l’altra, partite da un unico centro, da un’unica sede scomparsa (mito dell’Atlantide), ovvero congelate. Ma vi è di più, nel senso che, se passiamo nel campo delle indagini positive moderne, troviamo elementi che potrebbero benissimo concordare con questi echi leggendarî. Infatti sul litorale atlantico europeo (soprattutto nella cosiddetta cultura delle Madéleines) esistono tracce ben precise di una civiltà vera e propria e di un tipo di umanità — il cosidetto uomo Cro-Magnon — che appare di uno sviluppo ben superiore rispetto alle razze quasi animalesche del cosiddetto «uomo glaciale» o «musteriano» abitanti allora l’Europa. I frammenti pervenutici di questa civiltà sono di tale natura, da far dire a dei ricercatori, che i Cro-Magnon potrebbero ben definirsi gli Elleni dell’età della pietra. Ora, questa razza dei Cro-Magnon, apparsa enigmaticamente nell’età della pietra lungo il litorale atlantico fra razze inferiori e quasi scimmiesche, non potrebbe forse essere la stessa cosa dei Tuatha dè Danann, della «razza divina» venuta dalla misteriosa terra nordico-atlantica, di cui nelle accennate leggende irlandesi? E i miti circa le lotte fra le «razze divine» sopravvenute e le razze di «demoni» o mostri, non sarebbero per caso da interpretarsi come echi fantastici della lotta svoltasi fra quelle due razze, fra gli uomini Cro-Magnon, «gli Elleni dell’età della pietra», e gli uomini «musteriani» animaleschi?

meditazioni-delle-vetteTornando ai ricordi tradizionali, non soltanto i Greci e gli Americani ricordano una sede artica primordiale. Secondo i ricordi iranici dell’Avesta, la patria originaria e mistica degli Ariani, concepita come la «prima creazione del Dio di Luce», — l’aryanem vaêjô — sarebbe stata una terra dell’estremo settentrione, e anzi vien detto che in essa, a un dato momento, l’inverno durò dieci mesi dell’anno, proprio come nelle regioni artiche. Si tratta dunque di un ricordo ben preciso del congelamento sopravvenuto con la precessione degli equinozî nella regioni boreale: ricordo, cui peraltro fa riscontro quello del «terribile inverno Fibur» scatenatosi alla fine di un certo ciclo, o «mondo», di cui nelle antichissime tradizioni scandinave. Ma anche in India si ricorda un’isola o terra luminosa posta nell’estremo settentrione, lo çveta-dvipa, e una razza dell’estremo settentrione, gli uttara-kura; lo stesso ricordo si ha nel Tibet, nel mito della mistica città del Nord Chandhala; nell’estremo Oriente Liezi riferisce la tradizione circa la terra posta «all’estremo nord del mare settentrionale» e abitata da «uomini trascendenti», e così si potrebbe continuare con molti altri riferimenti, tanto concordanti, che è da domandarsi se sia solo da attribuirsi al «caso» la presenza del comune motivo fra popoli così diversi e lontani fra di loro.

Fin qui, dunque, i ricordi tradizionali. Esattamente queste idee sono oggi riprese in una ricerca scientifica veramente mastodontica che, riportando a unità un complesso di risultati e di indagini speciali — quali quelle del Frobenius, dello Herrmann, del Karsts, etc. — si è intesa a forzare il problema delle origini. Intendiamo parlare dell’opera consacrata dallo scienziato Herman Wirth appunto all’Aurora dell’Umanità. Qui non si tratta né di un «teosofo», né di un dilettante imaginoso, ma di un tecnico, la cui competenza in fatto di filologia, antropologia, paleografia e discipline affini non può essere messa in dubbio.

ice-pack-air1I risultati delle ricerche del Wirth, in breve, sarebbero appunto questi: che nella più alta preistoria — verso il 20.000 avanti Cristo — una grande razza bianca unitaria, dal culto solare, dalla regione polare divenuta inabitabile per via del congelamento si sarebbe spinta verso il Sud, in Europa e in America, ma soprattutto in una terra scomparsa, posta al Nord dell’Atlantico. Da tale terra essa si sarebbe successivamente spostata, nel periodo paleolitico, verso l’Europa e l’Africa, con un moto, dunque, dall’Occidente all’Oriente; essa sarebbe penetrata nel bacino del Mediterraneo creando un ciclo di civiltà preistoriche intimamente apparentate, nel quale rientrerebbero quella egizia, etrusco-sarda, pelasgica, ecc., a tacere di altre ancora che nuove ondate avrebbero fondate nel loro avanzare per via continentale fino a raggiungere il Caucaso e poi oltre, fino all’India e alla stessa Cina. Così ciò che si riteneva esser la «culla dell’umanità», l’altopiano del Pamir, sarebbe soltanto uno dei centri abbastanza recenti d’irradiazione di una razza ben più antica. Le razze ariane e indogermaniche, l’homo europaeus in genere, sarebbero già razze derivate e in una certa misura già miste in confronto a ceppi più antichi e più puri, «iperborei», a cui vanno riferiti i ricordi, i simboli e perfino le figurazioni preistoriche su roccia relative ai «conquistatori dai grandi vascelli stranieri», dall’«ascia», dal «sole» e dall’«uomo solare con braccia innalzate». Una misteriosa unità stringerebbe per tal via un gruppo di grandi civiltà e di antiche religioni fiorenti già là dove fino a ieri si supponeva l’uomo animalesco delle caverne.

In brevi tratti tale è la concezione strana e suggestiva che, traendosi dal mondo del mito, oggi torna a luce: l’Artide, patria prima dell’umanità, anzi della civiltà, nel senso più alto, «solare».

E siccome simbolo richiama simbolo, per finire, ricorderemo questo. Ancor nell’epoca romana l’idea della regione del nord come un paese mistico, abitato dal «padre degli dei», dal nume dell’età prima o età aurea, e l’idea che il giorno artico quasi senza notte non fosse senza relazione con la luce perenne che circonfonde gli immortali, tali idee nell’epoca romana erano ancora così vive, che, secondo la testimonianza di Eumanzio, Costanzo Cloro avrebbe diretto una spedizione verso il Nord della Gran Bretagna, confusa con la stessa leggendaria Thule, non tanto per il desiderio di glorie militari, quanto per raggiungere la terra «che più di ogni altra è vicina al cielo» e quasi presentire la trasfigurazione divina che si riteneva subissero gli Eroi e gli Imperatori alla loro morte.

Ora, queste stesse regioni, che avrebbero visto l’aurora dell’umanità, che racchiuderebbero il mistero di una razza di conquistatori bianchi primordiali il cui simbolo, l’ascia, si ritrova peraltro nello stesso simbolo romano del fascio; queste stesse regioni nordico-artiche, dall’Islanda alla Groenlandia fino all’America del Nord, son quelle stesse che ieri l’ala italiana ha sorvolate vittoriosamente, in un’impresa che qualcosa di fatidico ha dunque voluto legare enigmaticamente appunto ai luoghi di una grandezza primordiale[1].

Il Corriere Padano (Ferrara), 13 gennaio 1934.


[1] [Il riferimento è o alla crociera atlantica della squadriglia di 25 idrovolanti, capitanata dall’allora ministro dell’aeronautica Italo Balbo, che era partita il primo luglio 1933 e giunta il 19 a New York o, più probabilmente, alle due trasvolate del Polo in dirigibile condotta dal generale Umberto Nobile del 1926 e del 1928, rispettivamente con il Norge e l’Italia, la seconda delle quali finì tragicamente con l’avventura della Tenda Rossa].

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