Il fascismo in America

La recente morte dello storico americano John Patrick Diggins ci offre il destro per alcune considerazioni circa l’argomento del suo studio più noto in Italia, L’America, Mussolini e il fascismo, ormai fuori commercio da anni, in quanto pubblicato da Laterza nel lontano 1982, ma originariamente uscito dieci anni prima col titolo Mussolini and Fascism: The View from America, a cura dell’Università di Princeton. Quello di Diggins è un libro famoso, tradotto in molte lingue, ed è stato un po’ l’apripista della scarna bibliografia sui rapporti tra USA e Italia fascista e sull’attività delle organizzazioni del PNF nella repubblica stellata. Ai tempi fecero scandalo, nel provinciale antifascismo nostrano, alcune riflessioni di Diggins sulla generale simpatia mostrata in America per l’avvento al potere di Mussolini, in virtù della sua politica sociale e, soprattutto, in virtù del suo rivoluzionario disegno antropologico di mutare gli Italiani da turba di straccioni emigranti, facili al coltello e al crimine – di cui negli USA si aveva sin dall’Ottocento una sprezzante opinione, venata di non secondarie inflessioni razziste – finalmente in un popolo serio, moderno e disciplinato.

Diggins, che è stato un rinomato studioso dei movimenti politici e in particolare del ruolo degli intellettuali nelle moderne dinamiche della società di massa, ribaltò decennali pregiudizi che in America avevano, sin dai primi flussi migratori, bollato l’Italiano come un delinquente mafioso, e operò di conserva un aggiustamento delle posizioni. Scrisse che «la maggioranza degli Americani approvarono il Fascismo in base alle loro inclinazioni e ai loro bisogni»: ne apprezzarono il lato di movimento di “rinascita nazionale”. E formulò l’originale prospettiva di un Mussolini visto come un “eroe americano”: l’uomo che dal nulla era riuscito a pervenire a un disegno di riedificazione politica che parve esaltante alla mentalità americana, adusa a premiare lo sforzo bagnato dal successo, l’efficientismo e la tenacia dei propositi dell’individuo d’eccezione. Per una volta, era dunque l’Italia che si dimostrava il “Paese delle occasioni”.

Era, questo, ciò che Diggins ha chiamato «il lato oscuro delle valutazioni politiche americane», implicando la storica immaturità ideologica di quel popolo, versato a superficiali simpatie piuttosto che ad approfonditi scandagli di cultura politica. Bisogna pur dire che, come molto spesso accadde all’estero (ma per la verità non solo all’estero), e soprattutto negli anni Venti, l’accoglienza favorevole che venne riservata al Fascismo al suo avvento e per parecchi anni a seguire, si presentò negli Stati Uniti, più che un filo-fascismo, un filo-mussolinismo. Era la figura carismatica dell’uomo d’ordine, del giovane politico decisionista e innovatore, che colpiva gli immaginari anglosassoni, più di quanto non fosse l’ideologia nazionalpopolare che ne animava le scelte, per lo più ignorata nei suoi risvolti, a parte una generica curiosità per il corporativismo. Le simpatie raccolte da Mussolini in quel mondo – pensiamo solo a Churchill o a Franklin Delano Roosevelt – le diremmo per lo più a-fasciste e prive di connotati ideologici, se non per l’aspetto, certo non secondario, del robusto anti-comunismo impersonato dal Duce.

Paradigmatico, in questo senso, è quanto scritto da Diggins, quando riportava autorevoli giudizi di studiosi dell’Università di New York circa un Mussolini visto come «l’uomo della tradizione con il quale Aristotele, San Tommaso o Machiavelli si sarebbero senza imbarazzo trovati a loro agio». Del resto, come giustamente ha ricordato Renzo Santinon in I Fasci italiani all’estero (Settimo Sigillo), il terreno era già stato in precedenza preparato ad esempio da Marinetti, che «seminando il futurismo nel continente americano, aprì negli anni Venti la strada a una lettura avanguardistica ed entusiasmante del fascismo». Poi, a queste iniziali simpatie si aggiunse nel decennio seguente l’importante episodio del grande successo mediatico e d’opinione ottenuto negli USA da Italo Balbo, a seguito delle sue straordinarie imprese aviatorie. L’eccezionale prestigio riservato al trasvolatore fu sancito da un trionfale corteo per le vie di New York, con l’intitolazione di strade e targhe celebrative all’ex-capo squadrista. Tutto questo funzionò certamente da volano per nuovi consensi al Regime fascista, destinati a scemare soltanto a seguito della guerra etiopica (gli Stati Uniti, su sobillazione inglese, parteciparono alle sanzioni anti-italiane votate dalla Società delle Nazioni, di cui pure non facevano parte), volgendosi poi in crescente ostilità solo dopo l’intervento militare del 1940.

Ma, prima, ci fu tutto un lungo intreccio di rapporti tra America e Italia fascista. In cui non mancarono le luci e le ombre. Se la luce era essenzialmente la figura di Mussolini e in specie la sua politica sociale – segnatamente quella relativa alla bonifica delle terre paludose, che riscosse in America larga eco -, le ombre erano date dalla presenza dell’attivismo fascista di base negli Stati Uniti. Qui, spesso, risuonarono antichi pregiudizi anti-italiani duri a morire. Su questo terreno, il fuoriuscitismo antifascista lavorò sporco e a fondo. Sulla scorta di talune predicazioni marcatamente di parte – pensiamo a Salvemini, che a lungo saturò le Università americane con la sua propaganda ideologica basata sul risentimento – si volle ricreare anche su suolo americano la storica diffamazione basata sul binomio Fascismo-violenza. Un’ostinata campagna falsificatoria si ingegnò di sospingere l’opinione pubblica di quel Paese, ingenuamente portata a dare credibilità al bluff (allora come oggi), verso una preconcetta diffidenza nei confronti dei Fasci, sorti a quelle latitutidini sin da 1921. Fu allora facile mischiare le carte e fare del militante fascista italo-americano nulla più che una nuova versione del mafioso o del picchiatore da bassifondi. E questo, nonostante che le cronache dell’epoca riportassero sì di scontri tra Italo-americani fascisti e antifascisti, ma non mancando per altro di precisare che spesso erano proprio i fascisti a rimanere vittime della violenza e dell’odio: nel 1927, per dire, a New York vennero uccisi i fascisti Nicola Amoroso e Michele D’Ambrosoli, oppure, nel 1932, venne assassinato il fascista Salvatore Arena a Staten Island. Non si ha invece notizia di gravi fatti di sangue di parte fascista.

Il fascismo italo-americano era organizzato. E anche bene. Già nel 1925 c’erano novanta Fasci e migliaia di iscritti nelle città americane, riuniti nella Fascist League of North America guidata da Ignazio Thaon di Revel, che per motivi politici cessò di operare nel 1929. Il coordinamento tra i Fasci fu opera di Giuseppe Bastianini, primo segretario dei Fasci Italiani all’Estero e personaggio ingiustamente demonizzato per le sue origini “movimentiste” (era stato Ardito e vicesegretario del PNF a ventiquattro anni), favorevole allo sviluppo dello squadrismo tra gli italofoni d’oltreoceano. Un ambiente in cui si distinse Domenico Trombetta, singolare figura di organizzatore e animatore, esponente del radicalismo fascista newyorchese, direttore del periodico fascista “Il Grido della Stirpe”, assai diffuso tra gli Italiani e attorno al quale si catalizzò l’idea del volontariato di milizia, a difesa dell’italianità tra i milioni di nostri immigrati negli Stati Uniti. Questo ambiente rimase attivo anche quando, negli anni Trenta, Mussolini, per non urtare la sensibilità americana allarmata dalle campagne antifasciste, per gestire l’immagine del Regime preferì puntare sui normali canali diplomatici anziché sull’attivismo di base. Eppure, anche nel nuovo contesto, diciamo così più istituzionale, il Fascismo dimostrò di essere ben vivo tra gli Italo-americani, tanto da esprimere, persino verso la fine del decennio, una militanza a tutto campo – comprese trasmissioni radiofoniche di propaganda da una stazione di Boston –, ben rappresentato dall’American Union of Fascists di Paul Castorina, in rapporti amichevoli con i fascisti inglesi di Oswald Mosley e con la Canadian Union of Fascists, e dal pre-fascista Ordine dei Figli d’Italia in America, la principale associazione comunitaria italo-americana, che proprio nei tardi anni Trenta si identificò strettamente col Regime italiano, condividendone anche i più recenti indirizzi di politica razziale. Messi in sordina i Fasci per motivi di opportunità politica, una fitta rete di associazioni culturali, di attivisti, animatori di eventi comunitari, ma specialmente di giornali e stampa periodica, fece sì che il Fascismo, fino agli anni a ridosso della guerra, fosse di gran lunga la scelta politica che godeva dei maggiori consensi tra gli Italiani residenti negli USA. Un caso tipico fu l’arruolamento di un migliaio di volontari italo-americani nella Legione degli Italiani all’Estero, comandata in Africa Orientale dal Console della Milizia Piero Parini. E nella sola New York, negli anni Trenta, funzionavano non meno di cinquanta circoli fascisti, i cui membri indossavano la camicia nera e divulgavano assiduamente l’Idea.

Talune di queste dinamiche, e soprattutto quella relativa alla polemica tra istituzioni diplomatiche e Fasci politici, sono state rivisitate nel 2000 da Stefano Luconi in La diplomazia parallela. Il regime fascista e la mobilitazione degli Italo-americani (Franco Angeli), che ha segnalato proprio il ruolo centrale della comunità italo-americana filo-fascista come fattore politico di sostegno al governo di Roma, strumento di pressione economica, d’opinione e anche politica nei confronti di Washington. Una realtà che vedeva le ragioni politiche del Fascismo appoggiate non già dalla teppa dei portuali o dei picciotti del sottoproletariato italiano del New England, ma proprio all’opposto dalla vasta quota di Italiani che in America riportarono un solido successo personale, andando a costituire quel segmento sociale nazionalista, politicamente maturo ed etnicamente solidarista, sul quale non a torto Mussolini faceva conto per avere buona stampa negli Stati Uniti.

Per concludere brevemente l’argomento, vogliamo solo dire che, nonostante il seminale studio di Diggins abbia riportato larga fama, insegnando a molti come si fa storiografia senza confonderla con le opinioni personali, ancora oggi ci si imbatte in spiacevoli casi di ottusa faziosità. Chi si desse la pena di dare uno sguardo a quanto scrive ad esempio Matteo Pretelli sul sito “Iperstoria” gestito dal Dipartimento di Storia dell’Università di Verona e dal locale Istituto Storico della Resistenza, sotto il titolo Fascismo, violenza e malavita all’estero. Il caso degli Stati Uniti d’America, potrebbe pensare che Diggins abbia predicato nel deserto. Il solerte accademico italiano – che ci assicurano Lecteur presso l’Università di Melbourne – si danna l’anima per dimostrare i legami tra Fascismo italo-americano e criminalità mafiosa. Nessuno nega che da qualche parte ci sia stato un mascalzone che abusava della camicia nera. Ogni rivoluzione ha avuto la sua feccia, e il Fascismo molto meno di altre. Ma vorremmo segnalare al propagandista in parola che la malavita vera, quella gestita dai grandi criminali mafiosi, dimostrò di non stare dalla parte del Fascismo, bensì da quella dell’antifascismo. Basta sfogliare il libro di Alfio Caruso Arrivano i nostri pubblicato nel 2004 da Longanesi, in cui si dimostra in che misura la lobby di massoni e mafiosi di vertice preparò lo sbarco americano in Sicilia nel 1943. Lì non fu il caso di teppistelli: l’intero apparato della criminalità mafiosa organizzata, estirpata manu militari dal Fascismo nel 1928, si ripresentò compatto in veste di mortale nemico del Fascismo. E fu la volta di Genco Russo, Calogero Vizzini, Lucky Luciano… insomma la “cupola” al completo, ritornata al potere in Sicilia sotto bandiera a stelle e strisce e garantita dal capofila del legame tra mafia e governance americana: quel Charles Poletti che gettò le basi della repubblica italiana “democratica”, antifascista, ma soprattutto mafiosa, che gode ancora oggi ottima salute.

* * *

Tratto da Linea del 6 febbraio 2009.

Condividi:

2 Responses

  1. Pep87
    | Rispondi

    Bravo Luca, eccellente articolo.

  2. Janpyex
    | Rispondi

    Ma scusate, le gerarchie mafiose italo-americane si sono schierate con “l’anti-fascismo”, dopo che il governo americano si schierò a livello internazionale contro le potenze dell’asse. Quindi, per opportunismo politico e di potere non certo per una questione ideologica. Poiché, oltre tutto, l’anti-fascismo racchiude in sé molteplici ideologie, pure in opposizione tra loro.

    Inoltre è storicamente e ufficialmente riconosciuto, che le camicie nere nell’Italia Meridionale, agissero al pari dei mafiosi, per salvaguardare gli interessi semi-feudali dei grandi proprietari terrieri.

    Poi, è innegabile che in Italia durante la dittatura si sia mantenuto un eccellente stato di diritto, che nell’ordine:
    Avvertiva, ammoniva, (forse multava?), poi esiliava (nei casi di personaggi famosi) e/o picchiava i “contrari d’opinione”, prima di ucciderli, nel caso avessero continuato a rimanere delle loro idee anti-regime.
    Questo è acqua alle rose, in confronto a quello che accadeva in Germania e Russia, dove i “contrari di opinione” erano, in rarissimi e fortunati casi, processati per direttissima e sbattuti in gatta buia. Mentre in genere li si uccideva per fucilazione, o più spesso in modo lento, presso i gulag e i campi di concentramento.

    Quindi, da questo punto di vista fu sicuramente e relativamente meglio il fascismo, ma da qui a celebrarlo e a renderlo così aulico e innocente, ce ne passa… E tali tentativi mi sembrano ridicoli, perché ignorano tutto lo squadrismo con il quale salì al potere e vi si mantenne.
    Stento a credere che in quel periodo ci furono solo rose, fiori e consensi.

    Perché non esistono movimenti dittatoriali poggianti su un consenso totale… Poiché persino, tutte le rivoluzioni una volta preso il potere, hanno poi fondato regimi di oppressione e censura. Chi più chi meno.
    Da quella Cubana, a quella di Khomeini, passando per la Russia, ecc.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *