Idee per l’Europa: la Rivoluzione Conservatrice

freikorpsLa perlustrazione di quella galassia culturale e ideologica che è stata la Rivoluzione Conservatrice è diventata negli ultimi anni un punto importante della riflessione sull’Europa del XX secolo. Ernst Nolte, in un suo piccolo libro, intitolato La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, pubblicato da Rubbettino e curato da Luigi Iannone, svolge una rapida, ma esauriente indagine su alcuni dei protagonisti di quella stagione di pensiero. Che ebbe come comune fondamento una critica radicale alla società liberaldemocratica egemone in Occidente, esprimendo da una parte la volontà di restaurare la Germania – dopo il crollo del 1918 – nei suoi diritti mondiali e, dall’altra, una visione della storia anti-progressista. In questo senso, si può dire con Nolte che la Rivoluzione Conservatrice sia stata uno dei movimenti più rilevanti contro la modernità, ma che, al tempo stesso, gli sia mancata una vera ispirazione politica. Rimase una spinta intellettuale, certo importante, ma incapace di intercettare le motivazioni politiche che agitavano le masse. E senza masse, si sa, qualunque rivoluzione è difficilmente realizzabile.

Nolte sceglie di presentarci alcuni tra i maggiori rappresentanti di quel colto e innovativo movimento, inquadrandoli in brevi “medaglioni”, sintetici quanto esaustivi. Ma prima, lo storico tedesco fa una panoramica storica, cercando di inquadrare il retroterra da cui scaturirono le varie posizioni. E rileva che l’elemento più importante che accomuna quegli intellettuali, quasi tutti già attivi prima del 1914 e imbevuti di nazionalismo, fu senz’altro il trauma vissuto in occasione della Rivoluzione bolscevica.

Da una parte, essa scatenò il terrore in quanti – come Klages o Spengler – vedevano minacciata da vicino l’identità europea e rimasero fortemente impressionati dalla volontà di annientamento dell’Occidente proclamata da Lenin. Da un’altra parte, questo evento drammatico attirò l’attenzione e una certa simpatia da parte di alcuni, come Niekisch e per un periodo Jünger, che vedevano balenare a Oriente nuove possibilità politiche. Essi avvertirono la Russia sovietica come una macchina distruttiva che, finalmente, avrebbe contribuito a eliminare dalla scena il liberalismo e il mondo borghese, visti quasi sempre come il fulcro della decadenza della civiltà e l’avvento del dominio del mercantilismo economicista. E formulavano scenari in cui una Germania socialista e nazionalista avrebbe potuto affiancare l’URSS in un finale regolamento di conti contro l’Occidente capitalista.

In uno sguardo più generale, Nolte non manca di fare un cenno al fatto che gli ideali della Rivoluzione Conservatrice tedesca erano comuni a larga parte dell’Europa. E cita Enrico Corradini, che già all’inizio del Novecento aveva parlato per suo conto di “socialismo nazionale” ed aveva rovesciato l’idea marxista di lotta di classe, lanciandosi nella teorizzazione di una “lotta di classe” tra nazioni: le povere e proletarie – tra cui in primis l’Italia – contro le ricche che dominavano il mondo. Ma anche in Francia si muoveva qualcosa di singolare. Ad esempio, una certa alleanza tra Sorel, teorico della violenza rivoluzionaria fondata sul mito popolare, ma ostile al socialismo marxista, e Maurras, il leader dell’Action Française, movimento monarchico e reazionario. Intrecci strani, opposti che si toccavano, contaminazioni nuove. Era questo il terreno ideologico trasversale su cui si muovevano i rivoluzionari conservatori. Tra i quali figurava anche il Thomas Mann prima-maniera, che nelle sue Considerazioni di un impolitico, scritte durante la guerra, riprese tra l’altro la dicotomia spengleriana fra Kultur germanica, tradizionale e creativa, e Zivilisation occidentale, decadente, priva d’anima, fondata su diritti astratti. Mann del resto, lo sappiamo, già col suo capolavoro sulla saga dei Buddenbrook, aveva manifestato una concezione pessimistica circa le sorti del mondo borghese-capitalista, afflitto da un’interiore malattia di disgregazione. Si trovò pertanto a condividere con naturalezza la prognosi infausta che formulò Spengler, col suo monumentale Tramonto dell’Occidente.

Proprio Spengler radicalizzò l’ostilità a tutte le forme del progressismo. Paragonata alla primavera di energie vitali da cui sbocciarono nella storia le maggiori civiltà, la civilizzazione occidentale, cosmopolita e marcia dentro, non era se non un lungo inverno di idolatria per tutto quanto è corrosivo e superficiale: dal mito del progresso tecnico alla febbre per il profitto, fino all’edonismo senza freni. Nolte scrive che «Spengler giunge a una sorta di condanna a morte per questo tipo di civilizzazione, facendola apparire come l’opposto della vita». Era un mondo fradicio di cui lo storico verificò, specialmente in Prussianesimo e socialismo, l’attuazione delle due più terribili minacce portate alla civiltà europea, entrambe di matrice marxista: la lotta di classe proletaria e la «rivoluzione mondiale di colore», che con rara anteveggenza Spengler pronosticò lucidamente.

Spengler è in generale piuttosto noto anche a livello divulgativo. Non è così per Ludwig Klages – di cui in Italia solo negli ultimi anni si è pubblicata qualche traduzione dei suoi libri – che rappresenta un vero unicum nell’universo rivoluzionario conservatore. Fu una sorta di mistico della natura, che credeva ai magnetismi cosmici, ma con venature razzialiste e sovrumaniste. Per lui l’uomo sarebbe potuto tornare alla purezza originaria soltanto immergendosi nel «grandioso accadere universale», dal quale, come scrive Nolte, «hanno origine quelle opere della Kultur che si fondono, come in sogno, con il “vortice di suoni” del pianeta». Insomma, un metafisico. Ma non troppo. Anche lui, come molti altri, giudicò il giudeo-cristianesimo colpevole di aver provocato la frattura tra uomo e natura, già presente nella Bibbia, che insegnò all’uomo a contrapporsi al creato con intenti di dominio, compiendo così un «sanguinoso sacrilegio alla vita». E il capitalismo, che giudicava un frutto anch’esso del cristianesimo, era da Klages messo al centro di un violento atto d’accusa. Questo inusuale studioso di psicologia, grafologo e filosofo, fu un naturista e un ecologo con molti decenni di anticipo sugli odierni movimenti “verdi”. Scrisse, già dagli anni Venti, parole di soprendente capacità profetica. Denunziò che il capitalismo stava compiendo degli scempi a danno dell’integrità della terra – parlò degli «scarichi velenosi delle fabbriche che avvelenano le acque della terra» – e vaticinò che, se nulla gli si opponeva, il progressismo avrebbe ridotto il mondo «a un’unica Chicago». Straordinaria visione del “villaggio globale”. E c’è da chiedersi cosa mai avrebbe detto circa il recente procedere dell’urbanizzazione selvaggia e gli attuali massicci dissesti dell’ambiente…

Dopo Klages, è la volta di Jünger. In poche pagine, la collaudata capacità di sintesi di Nolte ne viene confermata. Interessanti sono gli accenni – che dovrebbero far riflettere i molti teorizzatori di un Jünger mite letterato antinazista – alle parole che l’autore dell’Arbeiter scriveva, quando ricopriva il ruolo di aggressivo pubblicista dalle colonne dei giornali nazionalisti. Più volte, in questa sua militanza, si trovò a collaborare strettamente con i nazisti, di cui condivideva larga parte dell’ideologia. Ad esempio, è da Nolte ricordata quella sobria paginetta scritta da Jünger nel 1923 sul “Völkischer Beobachter”, quotidiano hitleriano, in cui il futuro “resistente” diceva alcune cose innocue e dal tipico marchio “democratico”: «L’idea della vera rivoluzione è quella nazionalistica… il suo vessillo è la croce uncinata, la sua forma d’espressione la concentrazione della volontà in un unico punto, la dittatura». Questa rivoluzione doveva sostituire «l’azione alla parola, il sangue all’inchiostro, il sacrificio alle retorica, la spada alla penna». Nolte rimarca i contatti tra Jünger e gli “eretici” nazionalbolscevici, secondo la sua teoria della “vicinanza al nemico”, e ribadisce che quella di Jünger era un’ideologia della guerra, per altro non mancando di sottolinearne un certo più o meno velato antisemitismo.

Nolte completa il suo quadro con altri stimolanti ritratti di protagonisti della Rivoluzione Conservatrice, tra cui anche Schmitt o i meno noti Moeller van den Bruck, August Winnig, Ernst Niekisch e i fratelli Strasser, e vi comprende anche tre intellettuali che furono, per così dire, tra i “padri spirituali” di quel movimento, come Ludwig Woltmann, Max Scheler e Eduard Stadtler. Figure che attraversarono i primi decenni del Novecento provenendo dalle più svariate culture – cattolicesimo, socialdemocrazia, radicalismo nazionalista – e dalle più svariate classi sociali, dal benestante al semplice artigiano. Tutti si misurarono con le prorompenti energie ideologiche dell’epoca, e in qualche modo operarono delle coniugazioni. Alcuni misero l’accento più sul nazionalismo, altri sul socialismo, ma non ve n’è uno che non fosse concorde che il “nemico principale” – per dirla con de Benoist – fosse l’Occidente con la sua devastante applicazione del capitalismo di rapina e con il suo degradante cosmopolitismo. E nessuno di essi trascurò il valore innovatore e socialmente decisivo del nazionalismo. Persino Winnig, socialdemocratico, e persino Niekisch, filo-bolscevico, che nel 1919 fece parte dei consigli operai, misero l’accento sull’importanza di tutelare gli aspetti identitari della nazione.

Alcuni di essi, a un certo punto della lotta, assunsero atteggiamenti di un tale radicalismo che lo stesso Hitler venne considerato l’elemento moderato e bilanciatore all’interno del complesso movimento nazionalista. Con ciò, la Rivoluzione Conservatrice portò alla maturazione delle idee e all’evoluzione politica un contributo non marginale. Che fu sempre antiliberale e insieme anticomunista. Lo stesso Niekisch, che dopo il 1945 sarà chiamato a far parte della Volkskammer della DDR, prima di patire la prigione sotto il Terzo Reich fino al 1936 aveva potuto liberamente pubblicare la sua rivista filobolscevica “Wiederstand”. C’entrava il fatto che egli, se vide con simpatia certi lati del bolscevismo, non fu mai comunista, e della Russia sovietica dava un’interpretazione tutta sua. Secondo Niekisch, infatti, come scrive Nolte, «l’ideale comunista sarebbe stato il mantello di cui si sarebbe ricoperto l’impulso vitale nazionale russo nel suo estremo bisogno di affermarsi».

Molti rivoluzionari conservatori confluirono nel partito nazionalsocialista, ma molti altri no. Ci furono fenomeni di fiancheggiamento, ma anche, come nei casi di Winnig o di Niekisch, di finale ostilità. Da tutto questo ribollire di posizioni, da quel laboratorio di idee che fu la Rivoluzione Conservatrice si ricava oggi la lezione, come afferma Nolte, che fenomeni di peso mondiale come il Nazionalsocialismo, ed ivi compresi i movimenti che rimasero a lungo nella sua orbita ideologica, devono essere osservati con «una visione più ampia», così da meglio comprendere gli intrecci di pensiero e la complessità delle sintesi che vennero tentate.

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Tratto da Linea del 13 dicembre 2009.

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