I forzati all’assalto

(Dal nostro Inviato)

Fronte Nord, dicembre.

A Kemijärvi eravamo arrivati verso le 10 del mattino, dopo quattro ore di avventuroso viaggio in automobile ed era ancora il buio pesto della notte. Poi ci avevano infilati in una pullka lappone, trainata da una solida renna ed eravamo partiti verso la linea del fuoco, o meglio verso la zona boschiva compresa tra Salta e Savukoski, a cavallo del fiume Tenniöjok, nella quale si erano ammassati notevoli contingenti di truppe sovietiche, con evidente intenzione aggressiva. Correvamo verso nord, filando veloci sulla pista gelata oltre il 67° parallelo. A settentrione, il cielo era punteggiato di stelle; a mezzogiorno, proprio sulla linea dell’orizzonte, stava comparendo il primo bagliore dell’alba, che tingeva la neve d’azzurro. Nella zona artica, d’inverno come d’estate, le albe come i tramonti sono di una snervante lentezza.

Avete fatto testamento?

– I russi – ci disse il simpaticissimo maggiore V. che ci accompagnava – non attaccheranno prima che il cielo sia tutto chiaro; non prima di un’oretta. A proposito, il testamento lo avete fatto? Ed avete firmato la vostra dichiarazione?

Egli intendeva parlare di una dichiarazione nella quale noi «desiderando assistere ad un combattimento, ci assumevamo tutte le responsabilità relative ai rischi dei combattimenti». Avevamo firmato. Due sciatori finlandesi, sbucando improvvisamente dagli alberi, ci intimarono di fermarci.

– Dove andate?

– Qui vicino.

– Quanto?

– Un migliaio di metri.

A breve distanza, accoccolati sulla neve, otto bianchi finlandesi che completavano la pattuglia, stavano consumando il loro frugalissimo pasto.

Poi, improvvisamente, tuonò un colpo di cannone. Lontano, verso nord, una mitragliatrice rispose, tosto imitata da una seconda, che sgranò i suoi colpi radendo la neve. E in breve tutta la zona boscosa sulle rive del fiume gelato fu un solo frastuono di armi da fuoco. Il cielo si era imbiancato, cominciavano i cento minuti di luce; e i russi sferravano un nuovo attacco, annunciandolo con un fragoroso quanto inutile fuoco di batterie, perché non esistono sul fronte nord posizioni finlandesi che valgano la pena di un intenso bombardamento.

La pattuglia ripose quieta ogni cosa nel fondo dei sacchi, infilò gli sci, strinse saldamente i bastoni nei pugni. L’ufficiale diede il segnale di partenza e scappò via, seguito dai suoi uomini. La pattuglia volò giù lungo i fianchi del Vuotoksentunturi in ordine sparso, traversò dialogamenle una radura scintillante e scomparve nel bosco. La nostra renna galoppò lungo la pista coperta di neve fresca, arrampicò sull’ultima salita e, dalla vetta della collina, il campo di battaglia apparve ai nostri occhi. Non vedevamo nulla. Ogni tanto il caratteristico sibilo delle granate di piccolo calibro preannunciava uno scoppio, ogni tanto, per una pallottola radente, sembrava che un invisibile e lunghissimo scudiscio sferzasse la neve. Si fece un silenzio immenso, il bosco sembrò ondeggiare, udimmo un rombo di motori e alcuni carri armati sovietici uscirono dagli alberi, infilando la strada fra Nousu e Kuosku. Avanzavano lentissimi affondando nella neve, slittando sul ghiaccio, perdendo i cingoli: dalle feritoie delle mitragliatrici cominciavano a sparare alla impazzata in tutte le direzioni.

Sei carri armati disposti a semicerchio zoppicavano verso Savukoski.

Da parte dei finlandesi nessun segno di vita.

Allora, all’ombra degli alberi, sgusciarono fuori i sodati di Stalin, spinti avanti dagli ufficiali. Una specie di energumeno urlante saltò in mezzo alla strada, diede degli ordini e gli uomini si schierarono come per sfilare in parata. Parata ben misera di straccioni intirizziti, terribilmente stanchi, irresoluti, confusionari. Per quattro, col fucile in pugno, il battaglione si mosse in vvanti. Ma quello non pareva un battaglione che andasse all’assalto; sembrava una colonna di forzati, in cammino verso l’esilio della Siberia, sotto l’implacabile guida di un feroce starosta.

Da parte dei finlandesi nessun segno di vita. I carri armati ripresero ad avanzare, seguiti dalle truppe che si trascinavano appena. Poi all’improvviso il cannone. Dai boschi, da certi cumuli di neve che altro non erano che piazzole di mitraaliatrici e cannoni anticarro, partivano nutritissime scriche, calme e precise. I finlandesi, invisibili, giuocavano al tiro a segno.

I carri avvamparono, i soldati russi si gettarono a terra, non sappiamo se per rispondere al fuoco, per riposarsi o per morire, mentre i finlandesi balzavano al contrattacco. Agilissimi, i diavoli bianchi saltavano fuori dalla neve, da dietro gli alberi, brandendo il loro terribile pugnale. Attaccavano decisamente i carri armati, infilavano tronchi d’albero fra i cingoli. Un gridare spaventoso saliva dalla valle, che si tingeva di sangue. Dal tetto di un carro d’asalto, un finlandese scaricava la sua pistola, attraverso le feritoie delle mitragliatrici. I russi cominciavano a ritirarsi. Quattro carri armati fuggirono per primi; poi i soldati russi si sbandarono come un gregge di pecore spaventate; e le pattuglie finlandesi si gettarono all’inseguimento. L’azione era stata rapidissima, una ventina di minuti in tutto.

Pochi istanti dopo eravamo sul campo di battaglia. Una decina di soldati finlandesi giacevano immobili sullu neve e i compagni feriti li chiamavano per nome.

— Kjosti, Kjosti, perchè noti rispondi? Ma fammi dunque sentire la tua voce!

Ma Kjosti non poteva far intendere la sua voce, perchè ormai il suo spirito vagava felice tra le stelle, dimentico di tutte le tristezze del mondo. E con lui tutti qli altri caduti, splendida legione di eroi, votata all’immortalità. In qualche casetta di legno sperduta nei boschi una madre, una sposa, un figlio, pregavano fiduciosamente Dio per la vita della patria e del loro caro e tutta questa loro ansia era già trasformata in silenzioso dolore.

Veikko è morto

Grigi e tetri, i cadaveri dei poveri mujik russi sbarravano la strada insanguinata. I cappotti sdrusciti lasciavano vedere le uniformi di povera stoffa. Le mani livide raschiavano con le unghie sudice il ghiaccio indifferente. Soldati senza piastrina, perchè il comando sovietico per impedire fughe o tradimenti non vuole che un soldato sappia a che divisione appartiene e possa documentare il proprio stato civile.

Un soldato finlandese, che aveva avuto una clavicola spezzata da una pallottola, comprese quello che ci passava per il capo e disse:

— Che senso! Era come tirare in una mandria di giumente!

I soldati finlandesi non odiano i loro nemici. Combattono eroicamente per la difesa della loro patria, della loro casa, della loro libertà, della loro vita serena e non sanno provare odio per i battaglioni di disgraziati, che sono comandati contro di loro. Qualche caduto sovietico non aveva neppure levato la sicura al proprio fucile. Giaceva morto nella neve, supino, con gli occhi sbarrati, pieni di doloroso stupore.

Nel bosco il combattimento continuava. Le stelle si accostavano rapidamente alla volta del cielo; le tenebre riprendevano il loro sopravvento sulla luce, la lucentezza azzurrina della neve si spegneva a poco a poco. I feriti più gravi, sdraiati sui loro stessi sci, venivano trasportati via dai compagni; quelli più lievi cercavano di arrangiarsi da soli. L’importante era di far presto, perchè il freddo è un terribile alleato della cancrena. E tutti sapevano con che terribile nemico dovevano lottare.

Giunse un gruppo di prigionieri, un branco di animali abbrutiti e silenziosi. Si trascinavano appena sui piedi gonfi e piagati, che si intravedevano dalle scarpe rotte, tenute assieme da pezzi di spago. Lo sguardo spento, la testa e il passo pesante e avviliti, i disgraziati attendevano il loro destino, assolutamente indifferenti, quale potesse essere. Ebbero del pane, del burro. Non ringraziarono neppure; solamente nei loro occhi balenava un senso di sorpresa.

Il campo di battaglia è ormai avvolto nelle più fitte tenebre quando ce ne andammo per ritornare in cerca della nostra pullka.

– Quattrocentoundici russi; sedici finlandesi – disse il maggiore V…

Lo guardai in volto ed egli comprese.

– Perché?

– E’ quello che vorrei poter spiegare a Ilma questa sera, quando dovrò dirle che Veikko è morto.

E sospirò profondamente, maledicendo non ho sentito bene chi.

* * *

Tratto da La Stampa del 26 dicembre 1939.

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Felice Bellotti è stato un giornalista italiano, autore di numerosi reportage di viaggio e di guerra e di una quindicina di libri. Alcune informazioni sulla sua vita si possono leggere sul blog Huginn e Muninn.
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