I cinquant’anni della “Grande Guerra” di Monicelli

“La Grande guerra” compie cinquant’anni. Uno dei film più noti della commedia all’italiana sceneggiato da Age, Scarpelli, Luciano Vincenzoni e Mario Monicelli che ne fu anche il regista, ha mezzo secolo di vita. Più o meno come la bambola Barbie e la rivoluzione cubana. E della prima e della seconda questo film sembra aver rubato quel qualcosa che tanto somiglia all’immortalità, al perenne bisogno di far parlare di se stesso. Come si trattasse appunto di un evento che ha segnato la storia recente della nostra vita e che ci accompagna dai tempi in cui l’Italia era una nazione piena di indefinibile speranza.

Proprio così. Si trattò di una pellicola che per molti versi sorprese pure gli stessi autori (fu Leone d’oro alla XX mostra del cinema di Venezia ex aequo col “Generale della Rovere” di Rossellini e candidato all’Oscar pochi mesi dopo), che fu apprezzata ma anche criticata ancor prima che uscisse nelle sale. Il perché è ovvio ed è presto detto. Si trattava di una commedia dunque di una presa in giro del nostro ’15-’18, vale a dire di un evento complessivamente sacro, e che più che sacro era stato ai tempi del fascismo quando la Grande guerra era stata vista come un presupposto per l’instaurazione di un nuovo corso ideale, militare e politico. Adesso però gli artefici del progetto affidavano le parti di protagonisti a due tipi strampalati (Oreste e Giovanni interpretati da Alberto Sordi e Vittorio Gassman), che rappresentavano il non plus ultra dell’italianità anarchica e furbarola, quella appunto che l’italica commedia amava prendere di petto con ispirata cattiveria.

Da un lato il sacro e dall’altro il profano. Da una parte i fucili e dall’altra i mandolini. Da un lato ancora le fondamenta luminose della patria – il suo esercito e la sue vittorie decisive – dall’altro l’opportunismo degli italiani pronti a scansare pericoli e fatiche, a trasformare il lutto in farsa e a svignarsela allo scrosciare del minimo, anzi impercettibile, pericolo. Sembravano, anzi erano, due mondi pienamente incompatibili.

La commedia inoltre era resa più cattiva dal fatto che i protagonisti fossero un milanese ed un romano, cioè due comuni rappresentati dell’intera Penisola, dal Nord padano al Sud mediterraneo l’uno (il milanese) furbo, vagamente bakuniniano, e risoluto, l’altro (il romano), furbo e fifone. In una parola sola: affatto italiani. L’ambientazione, poi, era fra le più scomode: le trincee della Grande guerra, il periodo grossomodo fra Caporetto e Vittorio Veneto. E tanto bastava.

A rivederla adesso però la pellicola, a riascoltare le registrazioni delle interviste rilasciate dai protagonisti dentro e fuori scena e soprattutto a rileggere quel libro che uscì ancora nel ‘59 curato da Franco Calderoni per i tipi della Cappelli, dal titolo “La Grande guerra” ed uscito anche per documentare le polemiche che scoppiarono già nei primi mesi del ’59 al solo annuncio dell’inizio delle riprese, l’impressione che ne vien fuori è un’altra, perché il difetto su cui poter discutere non è tanto il valore dei nostri soldati, quanto tutto ciò che si era costruito attorno all’ennesimo italico “ismo”.

Insomma quel film di cinquant’anni anni fa era nato per sostituire alla retorica dei grandi uomini senza macchia e senza paura (retorica da anni Venti-Trenta), quella più mite e neo-realista degli eroi – o antieroi – per caso (tipica dell’italico dopoguerra ed anche, intendiamoci, di certa sinistra). Nel frattempo – è appena il caso di dirlo – un’intera generazione, coi suoi gusti, i disgusti, i valori, gli antivalori e le esperienze e chi ne ha più ne metta, era passata sotto i ponti della nuova democrazia e si cominciavano a vedere le differenze.

Ma procediamo con ordine. In quegli anni Cinquanta, in Italia come altrove, nessuno avrebbe mai messo in discussione il probabile successo di un film sulla guerra compresi quelli di genere tutt’altro che guerrafondaio… Il produttore Dino De Laurentiiis aveva così cominciato a fiutare un affare d’oro appena dietro l’angolo di casa, ed aveva finito per parlarne a Mario Monicelli – fra i registi più rappresentativi e di successo – che peraltro (vedi il caso) sulla Prima guerra mondiale aveva già letto una sceneggiatura di Luciano Vincenzoni dal titolo “Due eroi?”.

Vincenzoni era quel che si diceva un appassionato conoscitore della letteratura di guerra, ed era stato a sua volta folgorato dal point of view kubrickiano nella pellicola “Orizzonti di gloria”. Così dunque si era formato il trio vincente che avrebbe provveduto a metter in piedi lo scheletro del film (anche se, in realtà, ai tre molto presto si sarebbero aggiunti come nuovi sceneggiatori Age e Scarpelli). A costituire le fonti letterarie sarebbero state invece le opere di Emilio Lussu (“Un anno sull’altipiano”), Carlo Salsa (“Trincee”), Bacchelli (“La città degli amanti”) e poi ancora di De Amicis, Comisso, Barbusse e altri ancora fino a Maupassant.

Giungiamo così all’inizio del 1959, al sorgere del dibattito. Il produttore De Laurentiis diffonde la notizia sulla nascita del progetto “Grande guerra”, un film tragicomico con Alberto Sordi e Vittorio Gassman, ma immediatamente scoppiano polemiche che nessuno poteva attendersi. La stampa (in particolare tre quotidiani “Stampa”, “Mattino” e “Giorno”), senza avere in mano alcunché di certo intenta un processo alle intenzioni su un qualcosa (un film appunto) che non esiste ancora. Il problema? La trama potrebbe offendere l’esercito italiano e la patria intera… ancora per molti versi due veri e propri tabù…

Ma il produttore non ci sta, anzi. Replica, scrive, discute, difende la sua creatura allo stato nascente… e soprattutto contrattacca. Fra botte, risposte, proteste degli stati maggiori dell’esercito e interventi sulla stampa, trascorre un mese intero, fino a quando, febbraio 1959, il dibattito si istituzionalizza. Il Msi, un partito com’è noto fortemente nazionalista, presenta un’interrogazione parlamentare a tutela dei valori della patria. Vuol sapere insomma se il Presidente del consiglio ed il Ministro della difesa «non intendano assicurare il Parlamento che ogni partecipazione e impiego delle Forze Armate italiane in film di produzione italiana, o non, sarà accordato soltanto qualora tale partecipazione e impiego abbia il fine di esaltare il valore della nazione – così come avviene in tutti i Paesi per i film ivi prodotti… se, in base a tale principio non intendano dare assicurazione al Parlamento che nel film La grande guerra, della ditta De Laurentiis, di prossima lavorazione, la partecipazione delle Forze Armate, sarà accordata solo se trattasi di film che glorifica il soldato italiano e il prestigio nazionale…». E così via discutendo. Basta così? No perché chi di politica ferisce di politica perisce…. Ed è a questo punto che il combattivo produttore chiede un colloquio proprio con il Ministro della difesa Giulio Andreotti.

Passano i giorni, è oramai primavera inoltrata quando il futuro “Belzebù”, che non trova il film per nulla scandaloso, si pronuncia in modo affatto positivo. Il lavoro dunque può andare avanti e la polemica è opportuno che, com’è nata, d’improvviso muoia. Punto.

Spenti i fuochi delle inutili, roventi polemiche, è abbastanza semplice trarre una morale sia da questa storia sia dalla pellicola che resta – nonostante qualche momento un po’ morto e l’andatura un po’ episodica – un gran bel prodotto e da un punto di vista squisitamente tecnico e da un punto di vista narrativo. La “Grande guerra” è semplicemente la storia di due eroi all’italiana che vengono fatti prigionieri dal nemico austriaco ma riescono a morire l’uno con uno scatto d’orgoglio, l’altro a modo suo da vigliacco ma, diremmo oggi, con la patria nel cuore e come reale ultimo pensiero. La loro morte sarà indispensabile affinché il nostro esercito prosegua nella lotta contro il nemico.

In fondo i soldati Sordi e Gassman, benché furbastri, sono due veri eroi perché predestinati fin dall’inizio all’utile sacrificio. A quello più importante.

Il punto nodale del film va dunque ricercato altrove e non nella negazione dell’eroismo né nella sottovalutazione delle Forse Armate come si temeva negli anni ‘50. Nel copione c’è una battuta molto bella recitata dal soldato Alberto Sordi, al momento di prendere in braccio un bambino: «Beato lui che è del 1916 così non farà mai guerre…». Ecco in questa affermazione che come sappiamo si rivelerà falsa si può trovare buona parte della verità del film di Monicelli. Una pellicola che non si fa beffe né della patria né della guerra, né degli eroi, bensì di una cultura che aveva fatto della prima, della seconda e soprattutto dei terzi un oggetto di culto; l’altra faccia, per molti aspetti nobile, di molte generazioni indotte ad adorare se stesse e i figli migliori attraverso i propri simboli, attraverso le gesta eclatanti e gli annunci verbosi. In due parole sole: del Fascismo.

A pochi mesi dagli anni Sessanta i tempi stavano mutando. Anzi erano già cambiati. È giusto dire che anche l’eclettica commedia monicelliana – quella del piangi-e-ridi – ci stava aiutando a riflettere.

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Marco Iacona, dottore di ricerca in “Pensiero politico e istituzioni nelle società mediterranee”, scrive tra l’altro per il bimestrale “Nuova storia contemporanea”, il quotidiano “Secolo d’Italia”, il trimestrale “La Destra delle libertà” e il semestrale “Letteratura-tradizione”. Per il “Secolo d’Italia” nel 2006 ha pubblicato una storia del Msi in dodici puntate. Ha curato saggi per le Edizioni di Ar e per Controcorrente edizioni. Per Solfanelli ha pubblicato: 1968. Le origini della contestazione globale (2008).

  1. Glauco De Horatiis
    | Rispondi

    Avevo tredici anni quando andai al cinema ad assistere alla Grande Guerra. Sono Romano di nascita e l`attrazione, (a dispetto delle voci che proclamavano il film come un capolavoro),fu il semplice fatto che Alberto Sordi era uno dei protagonisti. La trama del film, con le interpretazioni dei due caratteri principali mi lasciarono turbato e dispiaciuto; non credevo possibile che Oreste e Giovanni, con la loro lavativita`,ruffianeria e scansafatichismo,avrebbero potuto attirare tanta simpatia e ammirazione. Il fatto che nel finale si sacrifichino, non cambio` niente ai miei occhi. Ero appena un ragazzo e non sapevo come trovare quel messaggio o quel significato intellettuale, storico e sociale che possibilmente era nella pellicola di Monicelli….quello che veramente provai fu una grande amarezza e incredulita` quando la vigliaccheria dei due Italiani divento` il Leit Motif della serata e la cosa piu buffa ed apprezzata dal pubblico. Ero ancora un adolescente, ma le sensazioni provate erano genuine e spontanee. Non rividi piu La Grande Guerra di Mario Monicelli……

    Cordialmente, Glauco De Horatiis

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