Guerra e poesia

“Ci sono già dei vigliacchi che fanno incetta di acqua minerale, salumi, farina e petrolio; […] comincia così, con salami e petrolio nella dispensa […] come criceti pensano solo ad accumulare cibo per salvarsi la pelle […] Se l’Europa intera verrà distrutta, […] è forse morale che l’individuo cerchi di sopravvivere in mezzo agli stenti con una manciata di generi alimentari?” (1) Così, attraverso le parole sprezzanti di due personaggi minori di Válás Budán, il romanziere ungherese Sándor Márai registrava nel 1939 i primi effetti dell’inizio della guerra.

Si potrebbe ipotizzare, anche se non è necessario farlo, che Béla Hamvas, riflettendo alcuni anni più tardi sulla “grandiosità della guerra” e sulla “piccolezza dell’uomo”, abbia preso le mosse proprio da questa pagina del suo connazionale, svolgendo in termini filosofici un tema che era stato semplicemente abbozzato in un contesto narrativo.

In modo analogo, si potrebbe pensare a una ripresa di temi contenuti nell’opera di Ernst Jünger. La caratterizzazione hamvasiana dell’”uomo del panico”, che riduce il destino umano a fabbisogno alimentare e cerca la propria sicurezza in una dispensa ben fornita, non può non richiamare la rappresentazione jüngeriana del borghese minacciato dall’irruzione delle forze elementari: “Lo sforzo compiuto dal borghese per chiudere ermeticamente lo spazio vitale all’irruzione di ciò che è elementare è l’espressione, efficacemente riuscita, di una primordiale brama di sicurezza” (2).

Sicuramente, il linguaggio di Hamvas è meno astratto: se l’autore di Der Arbeiter individua nel tipo del borghese la forma della difesa, lo scrittore ungherese adopera termini improntati a un freddo sarcasmo e parla di una “Weltanschauung della cambusa”. Nei due tipi contrapposti del combattente e del civile, Hamvas vede due diversi modi di rapportarsi alla realtà, due diversi livelli esistenziali, due diversi gradi di conoscenza. Se il civile è prigioniero dell’irrealtà del mondo materiale, il combattente si trova invece nell’unica condizione reale dell’esistenza umana, che consiste nella decisione di fare della propria vita ciò che si vuole. Anzi, per Hamvas il combattente è il tipo stesso della decisione, poiché è solo la decisione, ossia la capacità di credere e di volere, a dare un senso alla vita.

Al pari di Hamvas, lo hanno capito le generazioni tedesche della Konservative Revolution. “Ci eravamo buttati – ha scritto Ernst von Salomon – sulla sola virtù che quell’epoca esigesse: la decisione, perché come la nostra epoca anche noi avevamo sete di decisione” (3). Trasferendo l’elemento della decisione sul piano giuridico e formulando la teoria del decisionismo, che segna la rottura col marcio parlamentarismo democratico di Weimar, Carl Schmitt ha stabilito che l’essenza del “politico” è nella decisione, sicché “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”; è proprio il caso di eccezione, per Schmitt, a rendere evidente “in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione” (4). Oswald Spengler, infine, ha intitolato Jahre der Entscheidung, “anni della decisione”, un libro uscito verso la fine del 1933 (un anno decisivo!), al termine di un periodo in cui l’autore aveva nutrito l’aspettativa di capi animati da risolutezza cesarea, capaci di sciogliere (scheiden) il nodo gordiano del dubbio e dell’indugio per passare all’azione.

Per Hamvas, “la decisione si manifesta come impegno totale dell’Io personale”, sicché il combattente è, per eccellenza, “la persona della decisione” (5). È così che “l’impegno dell’Io personale del combattente si contrappone al terrore del civile”. Di nuovo possiamo avvertire una coincidenza di vedute e di termini con Jünger: “il coraggio è l’impegno della propria persona fino alle più ferree conseguenze” (6).

Ma chi è propriamente “persona”? Prima di Hamvas e di Jünger, è stato Nietzsche a identificare la persona, l’uomo libero, nel combattente: “L’uomo divenuto libero, e tanto più lo spirito divenuto libero, calpesta la spregevole sorta di benessere di cui sognano i mercantucoli, i cristiani, le mucche, le femmine, gli Inglesi e gli altri democratici. L’uomo libero è guerriero” (7).

Hamvas, che non a caso evoca la figura di Alessandro Magno, il Decisore e Recisore di Gordio, contrappone all’”uomo del panico” la “persona della decisione”: mentre il primo crede che il mondo sia governato da elementi materiali o comunque matematicamente determinabili, il secondo sa che le cose sono risolte dall’intensità delle decisioni e dall’impegno personale. È in tal modo che Hamvas può riconoscere nella guerra i segni della grandezza e della realtà del mondo, così come De Maistre ha potuto proclamare la “divinità” della guerra, allorché ha scritto: “La guerra dunque è divina in se stessa, poiché è una legge del mondo. La guerra è divina, inoltre, a causa delle sue conseguenze di ordine soprannaturale […] La guerra è divina nella gloria misteriosa che la circonda e nel fascino inspiegabile che esercita. La guerra è divina nella protezione che accorda ai grandi condottieri, anche ai più audaci, che sono colpiti in guerra raramente […] La guerra è divina per il modo in cui è dichiarata […] La guerra è divina nei suoi risultati, che sfuggono totalmente alle speculazioni della ragione umana […] La guerra è divina per l’indefinibile forza che ne determina i successi” (8).

Il soldato, dice Hamvas, viene a contatto col sopraumano: “mentre il civile si tiene dal lato della materia, il soldato comincia a intravedere la realtà del mondo metafisico”.

Così come il poeta vero.

Il rapporto tra l’attività guerriera e la poesia veggente è ben noto alle culture tradizionali. “Presso i Celti, si poté affermare che il ‘bardo ed il guerriero sono prossimi tra loro’. I Germani designarono col nome di ódr questo stato di intensa esaltazione mistica, di trascendimento della coscienza ordinaria, nel quale emergono particolari facoltà quali la veggenza e l’invincibilità” (9), sicché “Odino è Padre della vittoria, Sigfödr, ma anche Padre dei poeti ed egli stesso Vate Possente, Fimbulthulr” (10).

L’odr dei Germani presenta una stretta analogia con il furor dei Latini, che è tanto l’ardore guerriero quanto l’entusiasmo dei poeti ispirati e dei profeti. Furor è infatti una delle divinità del corteo di Marte (11), ma è anche lo stato di incontenibile esaltazione che contraddistingue il poeta invasato: secondo Democrito “nessuno può essere grande poeta senza esaltazione furiosa” (12). È lo stesso furor che agita la Sibilla cumana (13) e che ispira le profezie delle donne di Camuloduno (14).

Anche presso i Greci è chiaramente attestata la relazione tra la furia del guerriero e lo stato di invasamento entusiastico del profeta e del poeta. Ad una medesima radice, quella del verbo maino (“infuriare”), si connettono menos (“vigore”, “coraggio”, “furore”) e mania (“frenesia”, “invasamento”). Tra i quattro tipi di mania, Platone annovera “la possessione e la mania che provengono dalle Muse” (15); per Aristotele “la poesia è propria di chi ha una naturale disposizione o di chi è ispirato (manikos)” (16).

Nello Ione, Socrate parla dell’ispirazione come di una potenza divina (theia dynamis) che invade il poeta: come la forza del magnete si trasmette a una serie di anelli di ferro collegati tra loro, così l’ispirazione divina proveniente dalla Musa si trasmette ad una catena di cantori e poeti “indiati” (entheoi). “Infatti tutti i poeti epici, quelli valenti, cantano tutti questi bei poemi non perché li creino con l’arte, ma perché sono pieni di spirito divino (entheoi) e posseduti, e così pure i buoni poeti melici” (17). Il poeta dunque somiglia a un sacerdote di Cibele o ad una baccante di Dioniso: “il poeta è un essere leggero, alato, sacro e non è capace di poetare se prima non sia entrato nella divinità (entheos) e non sia uscito di senno (ekfron) e più non vi sia in lui raziocinio” (18). “Se prima non sia rinato dal Dio che è in lui”: così traduce Coomaraswamy, il quale richiama analoghe espressioni platoniche indicanti la rinascita dalla divinità immanente, nonché altre che stabiliscono la superiorità della “follia che viene da Dio” rispetto al “senno di origine umana”, per concludere che “il sovralogico è superiore al logico, e il logico all’illogico” (19).

La concezione del poeta quale ricettacolo della potenza divina è espressa anche da Dante, il quale, all’inizio dell’ultima cantica del “poema sacro”, si rivolge al Musagete con queste parole: “O buono Apollo, all’ultimo lavoro – fammi del tuo valor sì fatto vaso, – come dimandi a dar l’amato alloro” (20).

In Poetica metaphysica non sono citati espressamente né Platone né Dante; né Ibn Arabî, che individua la fonte dell’ispirazione poetica in un grado divino da lui definito come il “mondo della Creazione delle Forme e della Bellezza” (21). Tuttavia non possiamo non pensare a questi maestri, quando Hamvas evoca l’unità di religione, scienza, filosofia e poesia. In particolare, non possiamo non pensare a Platone quando nel saggio hamvasiano leggiamo che “il poeta guarda il mondo ut deus, come se avesse perduto il senno”. Più in generale, dobbiamo pensare alla concezione tradizionale, quando leggiamo che la vera poesia tende ad una “esperienza unitaria della realtà intera” e che “il mondo della poesia è uno”.

In tal modo viene delineata una dottrina della poesia come veggenza: l’esperienza poetica “vede la realtà trascendentale ultima”, ripete Hamvas con Hamilton. Accanto al quale potremmo citare questo passo di Walter Otto: “I Greci sostenevano che il Dio sommo, dopo il mondo, avesse creato le Muse perché custodissero e celebrassero le meraviglie del creato. L’Essere del mondo è la parola stessa che ne dice l’incanto da cui hanno origine la poesia, il canto e la musica. La Musa è il riflesso divino su tutti gli esseri e gli eventi; prende possesso dell’uomo e, con la sua presenza, trasforma l’anima egoista in quello specchio divino per il quale l’anima si allontana da se stessa, dalle cure e dai bisogni terreni, diventando così parola di tutti i viventi, parola della Musa” (22).

Il poeta è dunque, per Hamvas come per Walter Otto, un evocatore: mette allo scoperto il mondo, presenta ogni cosa per ciò che essa realmente è. “Il poeta vede il volto eterno del mondo”, sicché “la poesia è l’apparire sensibile dell’invisibile e dell’eterno nell’attimo”. Siccome le cose si rivelano al poeta con una chiarezza totale, egli vive nell’aletheia, nella heideggeriana Unverborgenheit (“non latenza” o “disvelatezza”).

Né più né meno del soldato sul fronte della guerra.

* * *

(1) Sándor Márai, Divorzio a Buda, Adelphi, Milano 2002, p. 105.

(2) Ernst Jünger, L’Operaio. Dominio e forma, Guanda, Parma 1991, p. 44.

(3) Ernst von Salomon, I proscritti, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1979, p. 374.

(4) Carl Schmitt, Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna 1972, p. 39.

(5) Testualmente: az elhatározás személye. Se in italiano e in tedesco decisione ed Entscheidung rimandano a caedere (“tagliare”) e a scheiden (“separare”), il nomen actionis ungherese elhatározás deriva da un verbo che vale esattamente come “determinare”, poiché rinvia a határ, ossia “limite”, “confine”. Ma határ proviene a sua volta dal tema hat, “potere”, sicché la decisione è, in definitiva, un atto di potenza.

(6) Ernst Jünger, Der Kampf als inneres Erlebnis, in Werke, Ernst Klett Verlag, Stuttgart s.d., vol. I, p. 52).

(7) Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero Come si filosofa col martello, Adelphi, Milano 1983, p. 114.

(8) Joseph de Maistre, Le serate di Pietroburgo, Rusconi, Milano 1971, pp. 399-401.

(9) Mario Polia, “Furor”. Guerra poesia e profezia, Il Cerchio – Il Corallo, Padova 1983, p. 11.

(10) Ibidem.

(11) Verg., Aen., I, 294.

(12) “Negat sine furore quemquam poëtam magnum esse posse” (Cic., de divinatione, 1, 80).

(13) “Ut primum cessit furor” (Verg., Aen., VI, 102).

(14) “Et feminae in furorem turbatae adesse exitium canebant” (Tac., Ann., XIV, 32, 1).

(15) Platone, Fedro, 245 a.

(16) Aristotele, Poetica, 1455 A 32.

(17) Platone, Ione, 533 e.

(18) Platone, Ione, 534 b.

(19) Ananda K. Coomaraswamy, Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, Milano 1987, p. 35, n. 83.

(20) Dante, Paradiso, I, 13-15.

(21) Muhyiddîn Ibn Arabî, Le tappe divine nella via di perfezionamento del regno umano, “Rivista di Studi Tradizionali”, 24, luglio-settembre 1967, p. 174.

(22) Walter F. Otto, Die Bahn der Götter, in: Die Wirklichkeit der Götter: Von der Unzerstörbarkeit griechischer Weltsicht, Herausgeber Ernesto Grassi, Rowohlts Enzyklopädie, München 1963, p. 84 (trad. di A. Monti).

Questo saggio costituisce la Nota introduttiva del volume di B. Hamvas Guerra e Poesia (Edizioni all’Insegna del Veltro).

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *