Gli assiomi di Marc Zuckerberg

Si può facilmente immaginare che le recenti esternazioni di Marc Zuckerberg, il capo di una delle più influenti “reti sociali” d’attualità, avranno non poca eco presso il grande pubblico: ci riferiamo ad un messaggio, affidato ad una articolata lettera divulgata a reti unificate, in cui il giovane imprenditore afferma dipendere, il futuro dell’umanità, dalla capacità con la quale essa saprà opporre un secco «no» ad ogni genere di differenza, tanto da pervenire alla condanna senza appello di quelle forze politiche e umane che, come che sia, operino per ripristinare un sano «pathos della distanza» tra nazioni e nazioni, tra l’uno e l’altro modo di essere e di vivere, fra l’una e l’altra etnia, convergendo infine verso l’unico ideale ritenuto verosimile, necessario e positivo: la globalizzazione. Naturalmente, il mezzo immaginato dallo Zuckerberg sufficiente a che tutto ciò possa prender corpo è lo stesso social-network di cui egli è il fondatore, e se non si affacciasse seriamente il sospetto che tutta codesta messa in scena non abbia avuto in realtà la esplicita funzione di promuovere, in un momento di difficoltà, il suo abnorme apparato, vi sarebbe effettivamente di che preoccuparsi.

Ma noi qui vogliamo appunto provare a considerare il fatto in se stesso, nudamente, prescindendo dunque da ogni elemento di contingenza, e chiedendoci: che cosa vuole lo Zuckerberg?

La lettera, dal titolo espressivo Building Global Community, ossia «Forgiare una comunità globale», i giornalisti si sono affrettati a riconoscerla nei termini di una malcelata polemica verso le misure assunte di recente dalla nuova amministrazione americana e, in particolare, verso la persona del suo presidente: ma essa possiede in realtà un significato più interessante, potendo anzi vedervisi sia un «segno dei tempi», sia un effettivo «manifesto» e un crisma banditore di una precisa azione sovversiva, quale lo Zuckerberg la teorizza. Anzitutto cominceremo col riportare una frase sintomatica, alla quale faremo seguire delle riflessioni.

Quasi secondo il tono di una profezia, vien detto: “Progress now requires humanity coming together not just as cities or nations, but also as a global community”. Qui si annuncia subito il nerbo della veduta propria allo Zuckerberg; una veduta in perfetto accordo, appunto, con la ideologia internazionalistica che oggi, per l’affermarsi di nuovi, vertiginosi processi centrati nell’uso irresponsabile di una tecnica ad alto livello, ha violentemente ripreso slancio con l’unico obiettivo di suscitare inarrestabili dissoluzioni e diserzioni di contro a chi cerca, malgrado tutto, di reggersi in piedi e scampare alla corrente travolgitrice e divorante. Lo Zuckerberg, difatti, non si limita soltanto ad augurarsi che una umanità a parer suo più degna cessi di pensare e di organizzar la propria vita in ordine a principi e valori ben distinti, principi e valori incarnantisi in Stati o nazioni; egli un «progresso» lo intravvede invece nella possibilità di creazione di una unica, sconfinata «comunità globale»: espressione fin troppo elegante stante a celare le reali intenzioni dell’autore, il quale, secondo quanto già detto, auspicherebbe evidentemente la formazione di una sorta di “super-stato” a pretese sovranazionali. Ora, a voler credere in esso e in una sua plausibile realizzazione, in fatto di analogie storiche, non può non riaffiorare alla mente la realtà di quel regime a carattere collettivistico che, da una parte, il comunismo sovietico di ieri poté realizzare in guisa dispotica, dall’altra la Cina senza volto e senza tradizioni di oggi non ha fatto altro che rieditare up-to-date, presso ad un esiziale amalgama di comunismo e di capitalismo sospinti all’eccesso.

Così stando le cose, l’aspetto più interessante e, ad un tempo, inquietante della faccenda, è che, lo Zuckerberg essendo un americano, è lecito cogliere nelle sue affermazioni un punto di corrispondenza fra l’anzidetto tipo di concezione di segno collettivistico e ciò che intimamente si lega alla vera natura dello spirito americano. Occorre in primo luogo non farsi trarre in inganno dai termini. Quando lo Zuckerberg presente l’avvento di una “comunità globale”, quando fantastica un mondo in cui gli uomini non sapranno più di discriminazioni decisive, siano esse etniche o culturali, in quanto raccolti ognuno sotto l’egida liberatrice ed emancipatrice della tecnica, è ad un principio non di universalismo che egli fa appello, bensì di collettivismo e di uniformismo. È l’ultima pietra da collocare a coronamento dell’edificio egualitario, conformistico e, in ultima analisi, demonico che i manovratori e i managers della rivoluzione tecnocratica occidentale hanno inteso erigere lungo i secoli, e che ora si preparano a suggellare mediante il dominio e il servaggio di enormi masse bovine, a loro volta scaltramente e gradatamente coltivate in serra, dopo aver messo mano agli stessi dispositivi spersonalizzanti e pervertitori della tecnica e della «persuasione occulta».

Solo gli Stati Uniti, la terra ove fiorì e si dignificò la democrazia moderna propriamente detta coi suoi «lumi», la sua propaganda edonistica, col suo «ideale animale» e i suoi simboli di anti-tradizione, potevano del resto dar adito a questo fenomeno aberrante, avente nel binomio di tecnica ed etica in senso peggiorativo il proprio centro animatore e il proprio alimento. Se pertanto già un Carl Schmitt poté additare nelle due forme secolarizzate di un pathos – l’uno tecnico, l’altro etico – solidarizzanti e facenti mutuamente lega, l’elemento basilare di ogni società liberale moderna, nella quale la stessa guerra assume le sembianze di una nuova crociata, però ora al servigio dell’imperialismo umanitario, e dunque di interessi materialistici e meramente economici – non è qualcosa di troppo diverso che si affaccia nelle parole dello Zuckerberg. Quella che dallo stesso Schmitt è stata vista come l’epoca delle «neutralizzazioni», epoca presso alla quale tutto ciò che è politico e severamente inquadrato entro dialettiche di «amico» e «nemico», di «proprio» e di «straniero» viene meno, si sfalda al prevalere di dinamiche fatte di pura concorrenza, disciplinate da programmi tecnico-commerciali e da meccanismi che non vedono più uomini e uomini, ma una turba amorfa e senza volto di venditori e consumatori ammassarsi attorno al grande mercato collettivo – tale epoca sembra proprio aver l’esito naturale nelle seguenti espressioni: «Every year, the world got more connected and this was seen as a positive trend. Yet now, across the world there are people left behind by globalization, and movements for withdrawing from global connection». È ovvio che lo Zuckerberg, quando ci parla di persone, ha in vista ciò che in esse si riduce al puro umano – ma potremmo anche dire al puro biologico – sì da accordare un crisma di attualità a certe asserzioni profetiche circa la «fraternità universale» e invertita dei tempi ultimi, che da un autore, da Julien Benda, furono poste a compimento di un suo noto libro: «Si può pensare che una siffatta tendenza si affermerà sempre più e che per tal via si estingueranno le guerre tra gli uomini; si arriverà così ad una fraternità universale, che però, lungi dall’esser l’abolizione dello spirito di nazione con i suoi appetiti e i suoi orgogli, ne sarà invece la forma suprema, dove la nazione si chiama Uomo e il nemico Dio». E non a torto, per siffatta nuova umanità, si è usata l’immagine di una «grande fucina» e di un «immenso esercito» piegato ad interessi inferiori e ciechi.

Così starebbero le cose secondo lo Zuckerberg. Vige un progresso, quello della tecnologia virtuale a base «sociale», la cui marcia segue la stessa fredda necessità che vede il generarsi di una valanga o di una frana. Peraltro le connessioni, i movimenti di massa sempre più favoriti e galvanizzati dal loro non potersi più misurare nemmeno su scala fisica o in qualche modo tangibile, perché verificantisi ormai nell’ordine di distanze astratte, immateriali, secondo una incorporeità che però è quella del numero assoluto e della pura quantità – tutto ciò è all’origine dell’altro grande fenomeno che contrassegna la nostra epoca, e a cui lo Zuckerberg tacitamente allude: l’immigrazione di massa. Che immani schiere di schiavi (coloro che lo Zuckerberg definisce pateticamente gli «emarginati dalla globalizzazione») abbandonino i loro luoghi nativi, magari gravati da qualche vessazione materiale anch’essa determinata dalle potenze civilizzate, per andare a fomentare l’odio fra i popoli del resto del mondo e per accendervi processi agitatori e di disordine complessivo, è l’obiettivo a cui tende e ha sempre teso il grande capitalismo finanziario, cioè un sistema economico il quale, più di ogni altro, è caratterizzato dal non aver bisogno di limiti particolari a che possa svilupparsi, sentendo anzi le legittime misure di contenimento naturale, politico e anche più che politico – frontiere, confini, difese – come un mortale ostacolo alla propria arimanica espansione, come qualcosa che conseguentemente va rimosso. Così non è un caso che sia stato uno dei più seri studiosi del fenomeno capitalistico, il Sombart, ad aver coniato questa espressione latina, per compendiare la logica del processo in parola: Fiat productio, pereat homo – rilevando additivamente la misura in cui capitalismo e l’ideologia «immigrazionista» debbano di necessità coniugarsi onde trovare, in ultima analisi, sostegno l’uno nell’altro. Ciò è un fatto, e a tanto si è sempre arrivati in periodi nei quali tradizione, identità spirituale e realtà politica potettero ridursi a vuoto suono, a valori facilmente scalzabili dagli ideali e dalle parole d’ordine proprie soltanto agli strati borghesi e plebei della civiltà. Per giunta – lo rileviamo di passata – è fin troppo palese l’ignoranza e la malafede ostentata dalla stessa politica nostrana, allorché quel tipo di ideologia viene avallata col pretesto dell’«imperativo etico»: si chiama in causa il venir incontro a esigenze di «solidarietà» verso chi espatria, spesso trovandosi a varcar mari e terre in condizioni critiche e mettendo in giuoco la propria vita. La realtà è che tali poderosi movimenti di folle anonime costituiscono la linfa affinché il «gigante scatenato» proceda indisturbato nell’azione, e non abbia ad arrestarsi nella sua marcia di morte: ché se si volesse far davvero valere un crisma di «solidarietà» (la quale implica anche un certo amore per le distanze, volontà di misura e fedeltà alla propria natura), se davvero vi fosse l’intenzione di soccorrere sì, ma virilmente e in modo non obliquo, verrebbe trovato senz’altro un modo di circoscrivere all’esordio gli esodi e, aderendo in essenza ad un principio di realismo politico e di pragmatismo, forse ci si potrebbe portare finanche a invalidarne le cause scatenanti.

Ma ciò che veramente si vuole, è altro; ciò che si vuole – lo si deve dire senza mezzi termini – è la morte dei popoli europei e, di là da essi, la liquidazione di coloro i quali posseggono ancora una personalità e una dignità, la quale non può esser né venduta né prostituita. Col presentare la globalizzazione – che, ancora una volta, lo ripetiamo, non è che un assorbimento nell’informe e nel collettivo – dietro le mentite spoglie di una salda – ma pur sempre illusoria – conquista del benessere fisico, lo Zuckerberg mente sapendo di mentire, non fa che operare una mistificazione che è dovere di ognuno, che voglia dirsi ancora sano, smascherare. Del resto, non risulta già lesivo di una essenziale libertà, il dar per scontato questo tipo di «progressi», come fa lo Zuckerberg, quasi che tutti lo gradissero e nulla avessero da obiettare? Per tal via si vede come quella che dovrebbe essere la libertà al suo massimo grado, si palesi per il suo divenir di fatto la più odiosa delle coercizioni. In egual misura, accusiamo come una imprescrivibile violenza, quella di deprecare – con fare quasi intimidatorio – che sussistano ancora resistenze e fronti politici che non intendono abbandonare le posizioni e che esigono di difendere le proprie tradizioni opponendosi con intransigenza all’avanzata della «comunità globale» e ai suoi sortilegi.

Senonché conviene non farsi troppe illusioni. Come si è detto, in un tempo in cui mercato e finalità economiche e squallidamente praticistiche riescono ad aver la meglio e a dettar legge, per tutto il resto rimane ben poco spazio. Si assiste, in genere e sotto ogni profilo, ad un silenzioso ma incontenibile crollar di argini. Dovunque prendono vita e si moltiplicano fermenti e correnti corrosive, sì che stesse forze della sovversione possano aver le vie spianate o imbattersi in resistenze quasi nulle, presso la gran parte degli individui. È la forza temibile e perversa del mercato, il quale, nel punto in cui non trovi innanzi a sé energie temprate e ferme nella loro volontà, mette a frutto ogni espediente pur di corrompere, sradicare, stroncare. Di diverso, dai tempi trascorsi, vi è tuttavia che ciò che ieri poté ad esempio esser movimento di mercato pur sempre inquadrabile o, comunque, arginabile solo che una vera istanza politica l’avesse preteso, oggi è giunto ad un punto di saturazione tale, da non consentire più un intervento ricorrendo a mezzi non riducibili all’economia o al criterio del trend e del trust. Tutto pare essersi infine appiattito su tale ordine di problemi. La presunta «politica europea», la quale, in realtà, nulla ha a che spartire con ciò che fu vera civiltà europea, ci offre sistematicamente degli esempi rivelatori a tal proposito. D’altronde è la politica in genere – narcotizzata com’è dal democraticismo ovunque imperante e divenuta incapace di esercitare il proprio ruolo di organo esecutivo o, più in alto, di rivendicare una sovranità – che, con la complicità della Chiesa, sembra ormai aver abdicato. E a chi conservi ancora un margine di lucidità e una sensibilità verso ciò che è normale e semplice buon senso, non potrà che apparire nei termini di un tradimento e di una indegnità l’atteggiamento di remissione che l’attuale classe dirigente – niente più che una poltiglia – osserva innanzi alle oligarchie plutocratiche aggiogandosi al carro degli interessi di ogni genere di pseudo-élite internazionalistica.

In ogni caso, una breve analisi delle «posizioni» e della «visione del mondo» per come ce la offre lo Zuckerberg non deve considerarsi aspetto peregrino o legato alla contingenza. In fondo, le sue vedute rappresentano un vivo segno dei tempi, incarnano qualcosa che ognuno dovrebbe avvertire come una minaccia da tenere in serio conto. Circa lo Zuckerberg, forse dando eccessivo peso emotivo ai contenuti della lettera qui in questione, si è addirittura ventilata l’eventualità di una sua candidatura a prossime elezioni del suo Paese; ma ciò sembra esser stato già sconfessato dallo stesso personaggio. Sia veritiera o no tale voce, già il fatto che qualcosa del genere possa verificarsi, dovrebbe lanciare un chiaro allarme (già raccolto, fortunatamente, da alcuni giornali), e destare reazioni in senso unanime e non attenuato da compromessi di sorta.

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2 Responses

  1. lorenzo
    | Rispondi

    Ai miNimis termini, Z tira l’acqua al Suo mulino ma pur se la mia acqua non c’é né ci sarà mai, Lui ne raccoglierà un eq.
    L’onda umana é montata e sappiamo come impossibile sia fermare l’acqua con le mani.
    Me ne frego di questa considerazione, me ne frego di Z e penso che la stessa onda lo sommergera’.

  2. lorenzo
    | Rispondi

    Ai minimi termini: Z tira l’acqua al Suo mulino ma pur se la mia acqua non c’é né ci sarà mai lui ne raccoglierà un eq.
    L’onda umana é montata e sappiamo come impossibile sia fermare l’acqua con le mani.
    Me ne frego di questa considerazione, me ne frego di Z e penso che la stessa onda Lo sommergera’.

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