Giuliano e la Mater Deorum

Che la religione solare avesse uno stretto rapporto con il mito di Cibele e Attis e con il rituale corrispondente, lo dimostra l’esistenza di altari dedicati alla Madre degli dèi da parte di pontefici di Helios (1).

Questo rapporto è ben evidente nell’opera di Giuliano: molti elementi in comune con l’Inno al Re Helios si trovano nell’Inno alla Madre degli dèi (2), che l’Augusto scrisse a Costantinopoli in una sola notte, tra il 22 e il 25 marzo 362, ossia nel periodo dell’equinozio di primavera, quando una festa annuale riattualizzava il mito di Cibele e Attis. Variamente attestate da Erodoto, Pausania e Luciano (3), esistono di questo mito due versioni fondamentali, “che possiamo chiamare lidia e frigia dai paesi che sono teatro del mito stesso” (4); ma qui sarà opportuno riassumere il mito con le parole di Salustio: “Si dice che la Madre degli dèi, avendo visto Attis coricato presso il fiume Gallo, se ne innamorò e, preso il suo pileo adorno di stelle, glielo mise in capo, e in seguito lo tenne con sé; ma egli, innamoratosi d’una ninfa, lasciata la Madre degli dèi, si unì alla ninfa. Ed è per questo che la Madre degli dèi fa sì che Attis impazzisca e, tagliatisi i genitali, li lasci presso la ninfa, poi ritorni di nuovo a convivere con lei” (5).

Gore Vidal, Giuliano Le feste della Gran Madre cominciavano alle Idi di Marzo, con la processione dei cannofori che si dirigevano al tempio di Cibele per depositarvi le canne del fiume Gallo. Seguiva poi, per alcuni giorni, un digiuno di purificazione che comportava l’astinenza dal pane, dal maiale, dal pesce e dal vino. Il 22 marzo la confraternita dei dendrofori si recava nel bosco di Cibele per abbattere il pino consacrato ad Attis; spogliato quasi completamente dei rami, avvolto in bende di lana, ornato degli oggetti pastorali di Attis (vincastro, siringa, cembali) e delle violette nate dal suo sangue, il tronco veniva trasportato nel santuario, dove era esposto alla venerazione pubblica, come un cadavere prima della sepoltura. Le manifestazioni di lutto (lamentazioni, percussione del petto ecc.) giungevano al culmine il 24 marzo (giornata del sangue). All’interno del recinto sacro venivano eseguite musiche frenetiche, danze vorticose e flagellazioni, finché, all’acme dell’estasi, aveva luogo l’autoevirazione dei sacerdoti del culto, i Galli. (Nel mondo greco-romano l’evirazione dei Galli venne sostituita da quella di un toro o di un ariete). Aveva luogo poi la sepoltura del pino, che rimaneva nei sotterranei del tempio per un anno intero, fino al taglio del nuovo pino. Al calar delle tenebre aveva inizio la veglia. Ad un certo momento, un sacerdote introduceva un lume nel santuario, ungeva le gole dei lamentatori e pronunciava queste parole: “Confidate, o iniziati: il dio è salvo; e a noi dalle pene verrà salvezza” (6). Il 25 marzo, giorno che si riteneva coincidesse con l’equinozio di primavera, si celebravano le Ilarie, festa del Sole e dell’inizio del ciclo annuale; in quel giorno avveniva la resurrezione di Attis, che rappresentava la liberazione delle anime dal ciclo della generazione. Con una processione solenne veniva esaltata la ierogamia di Cibele ed Attis: in mezzo allo strepito dei flauti, dei cembali e dei tamburini, la Gran Madre avanzava su di una quadriga con Attis al proprio fianco. Dopo un giorno di pausa e una cerimonia di purificazione, il 27 marzo le feste giungevano al termine: tra canti e danze, la dea ritornava nel suo santuario.

L’Inno alla Madre degli dèi esordisce dichiarando il carattere di primordialità che contraddistingue questo culto, praticato in origine dagli “antichissimi Frigi” per essere successivamente accolto dai Greci. A quanto risulta, una dea chiamata Kubaba (nome corrispondente al greco Kybébe, poi Kybéle) era adorata “già nell’età del bronzo fino a Ugarit come pure tra gli Ittiti; ella appare con i tardi Ittiti di Cilicia e giunge fino a Sardi al tempo di Creso, dove il suo nome, scritto in lidio, è Kuvav; Kybébe è la trascrizione in dialetto ionico” (7). In ogni caso, “l’influsso decisivo della dea sui Greci non avvenne tramite i Lidi, ma tramite i Frigi, che avevano dominato l’Asia Minore occidentale prima dei Cimmeri e del sorgere del regno di Lidia” (8); fra l’VIII e il VII secolo, nella Troade, i Greci adottarono il culto della Dea Madre, che essi continuarono a chiamare la “Dea Frigia”, identificandola con una figura di “madre divina” (màter theia) già presente fin dal periodo miceneo.

Il culto fu quindi introdotto anche a Roma, nel 204, in un momento estremamente critico delle guerre puniche. Fu in tale circostanza che si verificò l’episodio prodigioso della vergine Claudia, “che Giuliano ci racconta con la genuina semplicità di un vero poeta” (9) e, possiamo aggiungere, di un vero homo religiosus. Egli infatti rimprovera i suoi avversari “per la loro eccessiva sottigliezza critica, che finisce col trasformarsi in incapacità di ‘vedere'” (10) ed accetta l’autenticità del prodigio perché è conscio della superiorità del potere divino e perché bisogna prestar fede alle tradizioni delle città.

Le pubbliche cerimonie della Madre degli dèi avevano già attratto l’interesse di poeti quali Lucrezio (11) e Catullo (12), per via del loro carattere drammatico; più recentemente, avevano richiamato l’attenzione di Porfirio (13). Nel caso di Giuliano, sono soprattutto l’antichità del mito e la diffusione del culto a costituire una ragione sufficiente della scelta di questo tema per un testo destinato a sostenere la restaurazione della tradizione antica. Infatti, “nella prospettiva di una riunificazione religiosa dell’Impero, questo culto si presentava sì come una religio asiatica, ma comune all’Oriente più remoto, alla più antica tradizione ateniese, alla religione romanafin dalla seconda guerra punica” (14).

Giuliano Flavio Imperatore, Alla madre degli dei Dall’esegesi giulianea del mito in questione risulta che nomi quali Cibele, Rhea, Demetra, Deo ed epiteti quali Magna Mater deum Idea designano un principio che è simultaneamente Origine degli “dèi intellettuali” e Provvidenza che conserva tutti gli esseri soggetti a nascita e morte. Quanto ad Attis, si tratta della causa demiurgica di tali esseri, sicché il protagonista maschile del mito, in ultima analisi, non rappresenta altro che il Logos; in quanto tale, Attis è identificabile con il Sole (15). Nel terzo personaggio, la ninfa, abbiamo invece una personificazione del lato oscuro e ingannevole della Madre, perché attrae Attis verso la generazione nella materia. Il fiume Gallo, che separa il mondo della Madre da quello della ninfa, segna il confine, come la Via Lattea, fra l’Intelletto eterno e l’Anima mutevole. Nel mito troviamo dunque simboleggiato il processo per cui il Logos, dopo essere disceso nella materia, ritorna alla sua essenza primitiva.

Nell’ultima parte dell’orazione possiamo vedere le implicazioni pratiche derivanti dalla dottrina contenuta nel mito. Oltre che sui riti catartici, Giuliano si sofferma sulle interdizioni alimentari, riprendendo così un argomento che è già stato trattato da Plutarco, da Porfirio e da Giamblico e sul quale ritornerà egli stesso nei Discorsi contro i galilei, rinfacciando ai cristiani il fatto di cibarsi di tutto, compresa la carne “escrementizia” del maiale. Infine, anche l’Inno alla Madre degli dèi si conclude con una fervida preghiera, nella quale, oltre a domandare per sé la conoscenza delle cose divine, la perfezione teurgica e morale, una morte gloriosa e una ascesa tra gli dèi celesti, Giuliano formula una richiesta che riguarda l’Impero, auspicando che la Madre degli dèi voglia concedere il successo politico e militare e la liberazione dalla peste dell’empietà.

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1. Ad esempio: Corpus Inscriptionum Latinarum, Berlin 1863 sgg., VI, 501; Inscriptiones Graecae, Berlin 1890 sgg., XIV, 1020.
2. L’esistenza di un Inno omerico alla “Madre di tutti gli dèi e di tutti gli uomini” (Omero, Alla Madre degli dèi, 1), omonimo dell’Inno giulianeo, testimonia dell’antichità del culto della Magna Mater. Dal breve frammento che ci rimane dell’Inno omerico, apprendiamo che alla dea “piacciono il suono dei crotali e dei tamburi, nonché il fremito dei flauti, e l’urlo dei lupi e dei fulvi leoni, e le montagne sonore e le valli selvose” (vv. 3-5).
3. Erodoto, 1, 34-45; 4, 76. Pausania, 7, 17, 9-12. Luciano, Sulla dea sira, 15.
4. Nicola Turchi, Le religioni misteriosofiche del mondo antico, I Dioscuri, Genova 1987, p. 132.
5. Salustio, Sugli dèi e il mondo, Edizioni di Ar, Padova 1993, p. 25.
6. Firmico Materno, L’erreur des religions païennes, texte établi, traduit et commenté par Robert Turcan, Les Belles Lettres, Paris 1982, p. 129.
7. Walter Burkert, Mito e rituale in Grecia, Laterza, Bari 1987, pp. 162-163.
8. W. Burkert, op. cit., p. 163.
9. Gaetano Negri, L’imperatore Giuliano l’Apostata, Fratelli Melita, La Spezia 1990, p. 201.
10. Vittorio Fazzo, La giustificazione delle immagini religiose. La tarda antichità, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1977, p. 285.
11. Lucrezio, II, 581-660.
12. Catullo, LXIII.
13. Porfirio di Tiro (232-301) aveva composto un’opera (perduta) Sulle allegorie teologiche dei Greci e degli Egiziani, che Giuliano però dichiara di non avere mai letta.
14. J. Fontaine, Introduzione a: Giuliano Imperatore, Alla Madre degli dèi e altri discorsi, Fondazione Lorenzo Valla, Mondatori, Milano 1990, p. xlvi.
15. ” Quando nominiamo Attis, – dice – intendiamo e diciamo il Sole” (Arnobio, Contro le nazioni, V, 42). “Il Sole sotto il nome di Attis” (Macrobio, Saturnali, I, 21, 9).

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