Ganesha, il signore della conoscenza

«Tu sei costituito di parola, tu sei costituito di pensiero,

tu sei costituito di beatitudine,

tu sei costituito di Brahman.

Tu sei l’unico,

o tu che sei costituito di essere, pensiero e beatitudine.

Tu sei il Brahman reso visibile.

Tu sei costituito di conoscenza [assoluta],

sei costituito di conoscenza distintiva».

Ganapati Upanisad, 4 (1).

E’ stato giustamente osservato che «la storia del culto di Ga­nesha è ancora da scriversi» (²); non è nostra intenzione il farlo in queste pagine, ma vorremmo fornire un quadro il più esau­riente possibile di questa divinità la cui forma bizzarra confonde ed inganna i profani, sia occidentali che orientali.

GaneshaIl nome Ganesha (³) deriva dalla radice gan (schiere, seguaci) e dalla radice esh-isha (signore) ed egli è il «Signore dei Ga­na», gruppo di Dei minori seguaci di Shiva, quindi capo delle truppe celesti, ma gana ha anche un altro significato (categorie) per cui è il Signore delle Categorie (cioè dello scibile, ovvero del­la conoscenza) (4); notoriamente è anche chiamato, ribadendo gli stessi significati, Ganapati.

I miti relativi a questa divinità sono molti e spesso contrad­dittori, cominciando da quelli concernenti la sua nascita ed all’ori­gine della sua testa elefantina.

Lo Shiva Purana narra che Parvati, la dea delle montagne, sen­tendosi offesa nel pudore per una visita improvvisa – mentre si stava lavando – di suo marito Shiva (benefico, propizio), dopo che egli se ne fu andato, con un po’ di pelle secca creò Ganesha, il suo figlio primogenito e lo mise di guardia alla porta. Al suo ritorno Shiva vide questo sconosciuto e gli scatenò contro delle forze di distruzione che lo decapitarono. Parvati accortasi dell’accaduto pianse pensando di aver perduto il figlio, allora il dio ta­gliò la testa al primo essere vivente che incontrò – era un ele­fante – e la rimpiazzò sul collo del figlio (5).

Nel Brahmavaivarta Purana fu lo sguardo del dio Sani (il Sa­turno dello zodiaco indiano) che ridusse in cenere la testa origi­naria di Ganesha. Parvati stessa, secondo il mito, aveva chiesto in un attimo di distrazione a Sani di splendere sul neonato (6).

Un’esauriente descrizione del fanciullo divino ce la dà la Ganapati Upanisad:

«Ha una sola zanna, ha quattro braccia, porta nelle ma­ni il laccio, ha il pungolo, fa il gesto di allontanare la paura, con la quarta il gesto di donare, ha un topo sul suo vessillo, ha il ventre rosso e prominente, le orecchie come dei ventilabri, rossa è la veste, cosparsi di rosso sandalo i suoi arti…» (7).

Ed il Maudgalya Purana aggiunge «che ha (…) tre occhi, eli­mina la paura, bada ai serpenti (…) il loto ai suoi piedi (8) apporta la fortuna» (9).

Shri GaneshaGuénon indica nell’antico simbolo dello svastika uno degli at­tributi di Ganesha (10) e, come ci ricorda Evola, «lo svastika si lascia anche interpretare come il monogramma costituito dalle lettere che compongono la formula augurale su-ast. Il contenuto di tale formula indo-ariana equivale ad un dipresso a quello del la­tino bene est od anche quod bonum faustumque sit – vale a di­re: ‘ciò che buono e fausto sia’» (11).

Come per l’origine della testa elefantina, così del perché pos­siede una sola zanna esistono varie versioni. Qui ci piace ricor­dare quella (12) che giustifica anche la sua cavalcatura preferita, il topo Akhu, che iconograficamente, quando non appare nel ves­sillo del dio, appare ai suoi piedi (13). Akhu era un gigante a cui gli Dei avevano concesso l’immortalità, ma avendo abusato dei suoi poteri gli uomini chiesero aiuto a Ganesha il quale scagliò una sua zanna contro lo stomaco del gigante e lo atterrò; questi si trasformò in un topo grosso come una montagna e assalì il dio, allora Ganesha gli saltò sulla schiena dicendo: «D’or in avanti tu sarai la mia cavalcatura»; e così fu (14).

«Capo guerriero, egli è anche, e forse soprattutto, il dio che presiede alle imprese di ogni sorta, tra cui anche le attività esoteriche» (15).

Nomi e culto

Come suo padre Shiva anche Ganesha possiede molti nomi (16): Dvaimatura, Dvideha, Gajadhipa, Gajanana, Ganadhipa, Ganama, il già visto Ganapati, Lombodara, Vighnesvara, Vighnaraja, Vi­gnesha (17). «In Giappone viene chiamato Binayaka ed è adorato in un modo estremamente esoterico. Lo si rappresenta in genere mentre si unisce a una dea. Le sculture giapponesi che lo raffi­gurano non devono essere alte più di 18 cm. e vengono accurata­mente nascoste al pubblico. Binayaka e la sua compagna sono chiamati con un solo nome, Shoten, e si crede rappresentino il realizzarsi dell’illuminazione» (18).

Il culto di Ganesha è molto vivo e diffuso ancor oggi in India, soprattutto nel Maharastra, grazie anche all’azio

ne del Lokamaya B. G. Tilak (19), che seppe rinvigorirlo in un periodo in cui –  per colpa anche di quegli indù formati al pensiero moderno, scettico ed evoluzionista (20) – cominciava ad essere trascurato (21) e che sotto la sua protezione mise il movimento di liberazione (22).

Pio Filippani Ronconi, Canone buddhista. Discorsi breviNormalmente viene considerato un culto relativamente recen­te che ha avuto particolare fioritura nel X secolo dell’era volgare. La Ganapati Upanisad, benché sia detta comunemente anche Atharvasirsa Up. («testa dell’Atharvaveda», cioè da recitarsi pri­ma dell’Atharvaveda), solitamente non viene inserita tra le Upanisad vediche, ma compresa con quelle settarie (23). La setta dei ganapatya (24) è molto antica (precedente il VI secolo) ed indi­vidua in Ganesha il Dio supremo:

«OM! Onore a te, che sei Ganapati! Tu sei [la formu­la] ‘Questo sei tu’ resa visibile. Tu solo sei il creatore. Tu solo sei il conservatore. Tu solo sei il distruttore. Tu solo sei [la formula] ‘Tutto questo universo è Brahman’. Tu sei l’Atman reso visibile, per sempre! ».

«[Dicendo ciò,] io esalto l’ordine cosmico, io esalto la verità» (25).

Ma, il culto di Ganesha non si è mai limitato alle devozioni settarie, egli è sempre stato una delle divinità più conosciute e venerate, essendo la sua benevolenza requisito indispensabile per intraprendere qualunque azione, e non ha conosciuto neanche li­miti geografici essendosi diffuso in molti paesi dell’Asia orienta­le (26). Nel VI secolo si stabilizza il culto domestico quotidiano della puja (rito che ricorda quello romano dedicato ai lari fami­liari) rivolto a cinque divinità: Vishnu, Shiva, Surya (il Sole), Parvati, Ganesha (27).

Molto verosimilmente è in Brhaspati o Brahmanaspati (28) (cioè il ‘Signore del brahman‘, della parola o formula sacra, piena di magica potenza, preghiera o incantesimo operante sugli dèi e su ogni essere) (29), il dio vedico della saggezza, che va identificato Ganesha – anche se non avente attributi elefantini – essendo stato il primo indicato con la qualifica di ganapati in un inno del Rg-veda (30).

GaneshaSimbolismo

Come abbiamo visto, il culto di Ganesha è diffuso in tutta l’Asia sud-orientale, soprattutto perché è il dio che rimuove o di­strugge gli ostacoli.

«Onore al figlio di Shiva, a colui che è l’immagine della gra­zia!»(31). Questa affermazione può sembrare dapprima grotte­sca, ma in realtà così non è: infatti Ganesha rappresenta l’unità tra il microcosmo – il corpo umano – ed il macrocosmo – la te­sta elefantina (32). La sua figura intera «è la personificazione del­l’unione Cielo-Terra, cioè l’Androgino» (33), rappresentando ov­viamente una riconciliazione degli opposti (polarità), che viene sottolineata «dal fatto che egli associa alla sua persona due ani­mali mortalmente nemici: il topo (34) (suo veicolo) ed il serpen­te (uno buttato sul petto e l’altro che gli cinge la vita)» (35).

Ganesha personifica il Saggio perfetto (il filius philosophorum o l’homo major della tradizione alchemica) «in quanto somma del principio maschile della consapevolezza ctonia (Shiva) e del principio femminile della consapevolezza ctonia (Parvati)» (36). Egli ha due mogli: Siddhi (successo) e Buddhi (intelligenza) (37). Si tenga presente che non si tratta di una stessa shakti che assume nomi diversi a seconda dei miti e/o del variare dei nomi di Ganesha stesso, ma proprio di bigamia: le due distinte mogli vengono contemporaneamente rappresentate ai lati del ‘Grande Dio’ (38); infatti esse ne sottolineano alcune caratteristiche (39).

Giano e Ganesha

Ganesha è stato spesso avvicinato al romano Giano (40): am­bedue sono invocati per primi nei riti delle rispettive religioni. Ancora oggi nelle cerimonie per le costruzioni di nuove case o per l’inaugurazione di nuovi negozi o all’inizio di ogni lavoro, ma sa­rebbe più giusto dire all’inizio di ogni impresa, il pio indù invoca Ganesha. Anche i libri solitamente cominciano con un’invocazio­ne di saluto a Ganesha, sia perché rimuove gli ostacoli, sia perché è maestro dell’ispirazione letteraria (si dice che fu lui a dettare a Vyasa il Mahabharata) (41).

Swami Sivananda, La bhagavad gita. Traduzione integrale dal sanscrito e commentoAmbedue le divinità hanno un legame rituale con i dolci (42).

Riferendosi alla bifrontalità di Giano è stato giustamente evi­denziato «che anche presso popoli dalle diverse sedi e dai diversi tipi o stili di civiltà il non completo antropomorfismo è sempre stato segno di primordialità» (43); parallelamente per il volto di Ganesha è da tenere presente che «nella terminologia brahmani­ca, la parola gaia (elefante) viene interpretata come ‘conoscenza delle origini’ » (44).

Il terzo volto, quello nascosto di Giano, simbolicamente corri­sponde al terzo occhio, frontale ed invisibile, di Ganesha.

Ganesha, Skanda (e Guénon)

Scarsissimi sono i rapporti tra Ganesha e Skanda (o Kartti­keya) e si limitano al periodo della loro gioventù: alcune raffigu­razioni popolari dei fratelli celesti in preghiera (45); una scherzo­sa sfida voluta da Shiva per verificare chi fosse il più veloce a girare attorno alla Terra (46). Nonostante ciò, Guénon avvalora la sua discutibilissima tesi (47) della dipendenza degli Kshatriyas dai Brahmani affermando che questa è rappresentata «con la figura di Skanda, il Signore della guerra, che protegge la medita­zione di Ganesha, il Signore della conoscenza» (48), il quale ol­tretutto di detta protezione non ha assolutamente bisogno.

Come abbiamo visto, Ganesha riunisce in sé caratteristiche sia regali-guerriere che sacerdotali-contemplative e ciò – per usare un’espressione del Dumézil (49) – riflettendo uno stato di cose che doveva essere quello della preistoria arya.

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Articolo pubblicato in «Arthos», XV, 30, pp. 246-253.

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Note

(1) Ganapati Upanisad, in Upanisad a cura di C. della Casa, UTET, Torino 1976, p. 521.

(2) WISTERNITZ nel suo studio sul Mahabharata cit. da A. MORRETTA, Gli Dei dell’India, Longanesi & C., Milano 1966, p. 200.

(3) Anche Ganesa ovvero Ganesh a seconda della trascrizione (abbiamo uniformato per chiarezza le trascrizioni – anche per le altre divinità – compreso nei brani riportati per estenso).

(4) Cfr. V.G. VITSAXIS, Hindu Epics, Myths and Legends in Popular Illu­strations, Oxford University Press, Dolhi 1977, p. 84; A. SCHWARZ, Icone indù. Illuminazione uranica e consapevolezza ctonia, in « Conoscenza Religiosa », 2, 1981, p. 167.

(5) Cfr. A. ELIOT, in: M. ELIADE, J. CAMPBELL e A. FLIOT, L’universo fantastico dei miti, Mondadori, Milano 1977, p. 196; V.G. VITSAXIS, op. cit., p. 84; con leggere varianti R. FOUGÈRE, Racconti e leggende dell’India, S.A.I.E., Torino 1954, pp. 145-146.

(6) Cfr. A.K. COOMARASWAMY, in: SUORA NIVEDITA e A. KUMARASVAMI, Miti dell’India e del Buddhismo, Laterza, Bari 1927, p. 238; A. ELIOT, op. cit., p. 196.

(7) Ganapati Up., 9 (versione nostra).

(8) «Il motivo delle foglie di loto appare spessissimo come piedistallo o tro­no delle immagini e, in questi casi (…) ha lo scopo di indicare la purezza e l’origine divina del soggetto rappresentato. (…) Inoltre il loto è un simbolo solare, a causa del suo intimo legame con il sole, al cui sorgere si apre per rinchiudere di nuovo i petali al tramonto» (K.B. IYER, Arte indiana, Mondadori, Milano 1964, p. 48).

(9) Trad. in A. MORRETTA, op. cit., p. 292.

Ganesha

(10) R. GUÉNON, Lo spirito dell’India, in Studi sull’induismo, Basaia, Roma 1983, p. 15.

(11) J. EVOLA, La croce uncinata, in Simboli della tradizione occidentale, Arthos, Carmagnola 1976, p. 102.

(12) Per le altre cfr. A. ELIOT, op. cit., pp. 196-199; R. FOUGÈRE, op. cit., pp. 147-148.

(13) Cfr. V.G. VITSAXIS, op. cit., pp. 84-87 ed ill. 42.

(14) Cfr. G. RONCHETTI, Dizionario illustrato dei simboli, Hoepli, Milano 1922, vol. 1, p. 437.

(15) A.-M. ESNOUL, L’induismo, in: H.-Ch. PUECH, Storia delle religioni, Laterza, Roma-Bari 1977, vol. IV, p. 82.

(16) «… i nomi sono molteplici come le vie cui si riferiscono» (R. GUÉNON, Atmá-Gita, in «Arthos», IX, 21, p. 15).

(17) Cfr. A. BALLINI, Le religioni dell’India, in P. TACCHI VENTURI, Storia delle Religioni, UTET, Torino 1936, vol. 11, p. 132; A. ELIOT, op. cit., p. 199; A. MORELLI, Dei e miti, E.L.I., Torino s. d., p. 251; A. MORRETTA, op. cit., p. 199; A. SCHWARZ, art. cit., p. 167.

(18) A. ELIOT, op. cit., p. 199.

(19) Del quale finalmente è stata pubblicata la traduzione in italiano della fondamentale opera La dimora artica nei Veda (trad. di M.F. Bellisai, ECIG, Ge­nova 1986).

(20) Espressione usata da A.K. COOMARASWAMY in Induismo e Buddismo, Rusconi, Milano 1973, pp. 13-14.

(21) Cfr. R. DEL PONTE, Cenni bio bibliografici su B. Gangadhar Tilak, in «Arthos», XII-XIII, 27-28 (La Tradizione Artica), p. 27; J. VARENNE, L’induismo contemporaneo, in: H.-Ch. PUECH, Storia delle religioni, cit., vol. IV, p. 185.

(22) Cfr. J. GONDA, Le religioni dell’India, in Storia delle religioni, UTET Torino 19716, vol. V, p. 424.

(23) Cfr.  C. DELLA CASA, Introduzione a Ganapati Upanisad, cit., p. 519.

(24) I ganapatya come segno distintivo si disegnavano un cerchio di color rosso sulla fronte. Ad essi era consentito l’uso del vino (cfr. A.-M. ESNOUL, op. cit., p. 134).

(25) Ganapati Up., 1-2, trad. C. della Casa.

(26) Cfr. K.B. IYER, op. cit., p. 69.

(27) Cfr. A.-M. ESNOUL, op. cit., p. 103.

(28) «Il primo dei due nomi occorre circa 120 volte, il secondo circa 50. Il dio ha 11 inni» (V. PAPESSO, Introduzione a Inni del Rgveda, Ubaldini, Roma 1979, p. 53 n. 91).

(29) V. PAPESSO, op. cit., p. 53.

(30) Cfr. A.-M. ESNOUL, op. cit., p. 133. L’inno dovrebbe essere il 23 del II ci­clo, che nella trad. del Papesco (cit. p. 115) così recita: «Te caposchiera delle schiere…».

(31) Ganapati Up., 10, trad. cit.

(32) Cfr. V.G. VITSAXIS, op. cit., p. 84; A. ELIOT, op. cit., p. 199.

(33) A. SCHWARZ, art. cit., p. 168.

(34) «Perché il dio cavalcava un topo? In sanscrito la parola musa, che si­gnifica topo, proviene dalla radice mus, che significa rubare. Il topo ruba ciò che piace alla gente, senza curarsi del fatto che possa essere buono o cattivo. In questo modo egli assomiglia all’elemento inesplicabile e inconoscibile che è in ciascuno di noi e che risiede in quello che chiamiamo ‘intelletto’. Da noi si sprigiona, senza farsi notare, una segreta forza mentale, che assimila l’essenza della nostra propria esperienza. Secondo i dotti commentatori, questo essere simile a un topo altri non è che l’aspetto divino di ciascun essere umano» (A. ELIOT, op. cit., p. 199).

(35) A. SCHWARZ, art. cit., p. 168; Cfr. A. ELIOT, op. cit., p. 199.

(36) A. SCHWARZ, art. cit., p. 167; vedi V.G. VITSAXIS, op. cit., ill. 41, p. 85.

(37) Cfr. V.G. VITSAXIS, op. cit., p. 87; A. MORELLI, op. cit., p. 251.

(38) Cfr. V.G. VITSAXIS, op. cit., ill. 42, p. 86.

(39) «Siddhi. Compimento, realizzazione. Le siddhi sono anche i poteri magici». «Buddhi. Potere individuante ma ancora libero da ogni particolare deter­minazione o individuazione. Forza intellettuale determinatrice superindividuale» (J. EVOLA, Lo yoga della potenza, Mediterranee, Roma 1968, glossario, pp. 282 e 278).

(40) Anche Guénon accenna in alcuni scritti ad un rapporto fra Giano e Ga­nesha (cfr. Alcuni aspetti del simbolismo di Giano ed Il geroglifico del Cancro nella raccolta: Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, pp. 122, 123; Il Re del mondo, Atanor, Roma s. d., pp. 24-25), ma quando deve collegare alcuni aspetti di Giano con la tradizione indù deve scomodare Shiva anche quando po­trebbe riferirsi a Ganesha (cfr. Alcuni aspetti…, cit. e Il simbolismo solstiziale di Giano, in Simboli…, cit., pp. 119, 212).

(41) Cfr. A. BALLINI, op. cit., p. 132; R. FOUGÈRE, op. cit., p. 146; W. JO­NES, The Concept of Gods in Ancient World, Eastern Book Linkers, Delhi 1983, pp. 21-24; A. MORRETTA, op. cit., p. 198; V.G. VITSAXIS, op. cit., p. 87.

(42) Per Giano cfr. M.E. MIGLIORI, Il calendario romano dalle Origini al Pontificato di Augusto, estratto da «Arthos» (IX-X, 22-24), Genova 1981, p. 20; per Ganesha cfr. A. ELIOT, op. cit., p. 196 e R. FOUGÈRE, op. cit., p. 147.

(43) R. DEL PONTE, Dei e miti italici, ECIG, Genova 1985, p. 56.

(44) A. MORRETTA, op. cit., p. 200.

(45) Cfr. V.G. VITSAXIS, op. cit., p. 87.

(46) «Skanda partì subito velocissimo. Il giovane guerriero si allontanò. Ganapati invece lemme lemme e allegramente camminò attorno ai genitori; camminare attorno ai propri genitori, spiegò, è come camminare attorno alla stessa Terra. Skanda arrivò veloce come il fulmine, ansante e sudato; ma il grassoccio Ganapati era già stato proclamato vincitore» (A. ELIOT, op. cit., p. 200).

(47) «La contemplazione è un simbolo specificamente religioso-sacerdotale, mentre l’azione è il simbolo del guerriero e del re».

«Detto questo, dobbiamo rifarci ad un insegnamento che Guénon stesso riferisce in più di una occasione, cioè che questa dualità di dignità non esisteva all’inizio: i due poteri erano assorbiti in un vertice che era ad un tempo regale e sacerdotale. L’antica Cina, il primo periodo ariano indù, l’Iran, la Grecia ar­caica, l’Egitto, la Roma delle origini e poi la Roma imperiale, il Califfato, e così via, tutte civiltà che parlano di ciò. E’ come risultato di regressione e degenera­zione che le due dignità si separarono e furono spesso perfino in lotta, come effetto di un reciproco disconoscimento. Ma stando così le cose, nessuna delle due direzioni può reclamare l’assoluta priorità sull’altra. Tutta e due sono sorte nella stessa maniera e tutte e due si sono allontanate molto dall’ideale originale e dallo stato tradizionale: e se noi avessimo come proposito la restaurazione, sotto qualche forma di questo vertice, ognuno dei due elementi, quello sacerdotale-contempia­tivo, o quello guerriero-attivo, potrebbe essere preso come pietra di fondamento e punto di partenza. In tal caso l’azione non dovrebbe essere certo interpretata in senso moderno, ma in senso tradizionale, quello della Bhagavad-Gita, o nello Jihad islamico, o negli ordini ascetici di cavalleria del Medio Evo occidentale. L’ ‘equazione personale’ di Guénon gli ha impedito di dare un adeguato ricono­scimento di tutto ciò, e lo ha condotto ad attribuire un’importanza esclusiva al punto di vista dell’azione subordinata alla contemplazione. E questa visione uni­laterale non è senza conseguenze per il problema della possibile ricostruzione dell’Occidente» (J. EVOLA, René Guénon, Oriente e Occidente, in Oriente e Oc­cidente (Saggi vari), La Queste, s. 1. 1984, p. 55).

(48) R. GUÉNON, Lo spirito dell’India, in Studi sull’induismo, cit., p. 14, ov­vero in La metafisica orientale, All’insegna del Veltro, Parma 1986 (ennesima ri­stampa anastatica di quella di Napoli 1950), p. 44.

[Quando questo nostro scritto era già pronto, ci è capitato di leggere che lo studio di Guénon qui indicato viene considerato «fondamentale» (E. CASTORE, recensione a R. Guénon, La metafisica orientale, in «Orion», IV, 30, marzo 1987, p. 197). Siccome non ci risulta che anche questa nuova edizione, come al solito, sia stata arricchita da qualche apparato critico, ogni ulteriore commento rimane superfluo].

(49) Usata in riferimento a Brhaspati in Mito e epopea. La terra alleviata, Einaudi, Torino 1982, p. 183.

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Nato a Prato nel 1953. Collabora alle seguenti riviste di studi storici e tradizionali: Arthos; La Cittadella; Vie della Tradizione; ha collaborato a Convivium ed a Mos Maiorum. Socio della Società Pratese di Storia Patria; dell'Istituto Internazionale di Studi Liguri e del Centro Camuno di Studi Preistorici. E' stato tra i Fondatori del Gruppo Archeologico Carmignanese.

2 Responses

  1. daniela
    | Rispondi

    per me è un mito molto strano.

    Però condivido il desiderio di Parvati

  2. […] Come suo padre Shiva anche Ganesha possiede molti nomi: Dvaimatura, Dvideha, Gajadhipa, Gajanana, Ganadhipa, Ganama, Ganapati, Lombodara, Vighnesvara, Vighnaraja, Vi­gnesha. In Giappone viene chiamato Binayaka ed è adorato in un modo estremamente esoterico. Lo si rappresenta in genere mentre si unisce a una dea. Le sculture giapponesi che lo raffi­gurano non devono essere alte più di 18 cm. e vengono accurata­mente nascoste al pubblico. Binayaka e la sua compagna sono chiamati con un solo nome, Shoten, e si crede rappresentino il realizzarsi dell’illuminazione. Il culto di Ganesha è diffuso in tutta l’ Asia sud-orientale, soprattutto perché è il dio che rimuove o di­strugge gli ostacoli. tratto da: https://www.centrostudilaruna.it/ganesha-il-signore-della-conoscenza.html […]

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