Parsifal in Toscana: a San Galgano rivive la leggenda del cavaliere

san-galganoLa famosa abbazia gotica in rovina, col cielo per tetto e il prato verde per pavimento: sembra uno spaccato di Bretagna rifatto in terra di Toscana. A San Galgano si rivive la leggenda del cavaliere eremita, le ombre di Parsifal e Lancillotto incombono col loro fascino mitico, re Artù galoppa a metà strada fra Siena e Grosseto. La valle del Merse, incuneata in una zona selvosa, ai piedi delle colline Metallifere, circondata dal poggio Fogari e dalle alture di Monticiano, di Chiusdino, di Montieri, tutti luoghi di antico incastellamento, nasconde come meglio non potrebbe un potente brano di tradizione europea.

È la storia di Galgano di Guidotto da Chiusdino, nato nel 1148 e morto nel 1181. Un archetipo: giovane dapprima amante delle cose del mondo, alla classica svolta dei trent’anni è segnato dal duplice sogno fatale. Nella prima visione è San Michele, il santo guerriero, che lo sprona a indossare la cintola e la spada da cavaliere. Nella seconda, più tarda di anni, lo stesso San Michele guida il giovane in un vero viaggio iniziatico: c’è da superare il ponte periglioso sopra abissi di acque mulinanti, ci sono il prato delle delizie e più oltre la caverna da attraversare e, infine, l’apparire del mistico edificio rotondo, in cui i dodici apostoli mostrano a Galgano il libro di tutte le sapienze e di poi la luce abbagliante del divino. Fu solo dopo i due sogni che Galgano, mutati i panni del cavaliere in quelli del cavaliere di Cristo, si fece eremita, vinse gli assalti del demonio, si stabilì tra le selve del Monte Siepi vivendo di fede e di erbe selvatiche. E per santificare il luogo prodigiosamente scelto dal suo cavallo, fece della spada una croce, conficcandola nella roccia, «la quale insino al dì d’oggi così è ne la pietra fitta», commenta un testo trecentesco della leggenda.

Effettivamente, ancora oggi, chi sale al Monte Siepi, a poca distanza dall’abbazia, vede la spada di Galgano miracolosamente piantata nella roccia. Sono più di otto secoli che questa vicenda segna la zona. Dapprima fu un’epopea eremitica. Dopo la precoce morte di Galgano, subito un nucleo di anacoreti suoi devoti si installò tra quelle inospiti plaghe. Poi la cosa si fece seria, le voci sulla santa figura di Galgano presero a dilagare, cominciarono i miracoli, la gente accorreva, prendeva corpo l’affare, la faccenda si fece politica: c’erano di mezzo donativi, elargizioni, elemosine. Si sa, in mani adatte, questi culti in un lampo diventano business da gestire. Già nel 1185 c’è un’inchiesta pontificia, nel 1206 Innocenzo III pone il cenobio sotto protezione papale: dalla devozione popolare si passa a una questione di potere. Gli eremiti, divenuti ingombranti, furono prontamente allontanati e la cosa passò in mani più ferme e concrete.

moiraghi-san-galganoCi pensò il tempestivo stanziamento in loco dei Cistercensi, il potente ordine monastico particolarmente versato nell’imprenditoria che, sbaragliando la concorrenza degli Agostiniani, divenne in breve il gestore della figura pubblica di Galgano. A garanzia arriva un diploma imperiale nel 1191, poi il “privilegio” papale nel 1216, quindi la costruzione della cappella di Monte Siepi e la “spartizione” delle reliquie (la testa del sant’uomo fu alla fine assegnata al potere civile di Siena). A seguire abbiamo la costruzione dell’abbazia gotica a partire dal 1220, stesso anno in cui viene vergata da Rolando da Pisa la prima “Vita” ufficiale del santo. Quindi, in rapide tappe, si hanno l’elevazione di Galgano al culto ufficiale della Repubblica senese dopo averlo strappato a Volterra e, di lì, l’erezione del santo agli altari, al calendario ecclesiastico, al rango di patrono della città insieme ad Ansano. Insomma, potremmo dire: come da un’immaginetta devozionale ti costruisco un culto politico.

Ma non è questo che a noi più interessa. Ci interessa, invece, verificare che tra le pieghe della leggenda toscana di Galgano si muova un topos universale della tradizione indoeuropea, che comprende i cicli provenzali, quelli arturiani e carolingi, il catarismo, ma – ancora più indietro – la favolistica longobarda e addirittura quella legata ai miti mazdei presenti nell’Avesta. Un eccezionale corpus di antropologia culturale che ci parla essenzialmente di una simbologia unitaria. L’esperienza di Galgano, ad esempio, si lascia confrontare da vicino con quella del re longobardo Guntramno, la cui leggenda è riportata da Paolo Diacono: e anche qui ci sono il sogno, il ponte, il fiume, la caverna. Ma poi la stessa assonanza tra Galgano e Galvano – uno dei protagonisti della saga del Graal e nipote di re Artù – ci porta diritti verso quei mondi. Molte le similitudini: Parsifal è figlio di un cavaliere, e Galgano è figlio di un devoto a San Michele, il patrono dei cavalieri: e in entrambi i casi è presente la madre, come figura dalla quale operare il distacco. Di Lancillotto, inoltre, ci sono lo stato di sonno, di nuovo il ponte, le acque, la spada.

copertina-santo-cavaliere-635x635Ma c’è di più. Franco Cardini anni fa ha ricordato il collegamento tra i romanzi del Graal e la tradizione del mazdeismo iranico. Come già altri studiosi avevano notato, egli ha riconosciuto nel tema del passaggio del ponte pericoloso – centrale nella visione iniziatica – un nesso sostanziale con l’Avesta zoroastriana e con eguali simbologie della “prova”, quali, ad esempio, quelle di cui parla Dumézil nel Libro degli eroi a proposito del viaggio dell’eroe nel Paese dei Morti. Tema quanto mai diffuso nella nostra cultura, da Orfeo a Enea e fino a Dante. Presente nei romanzi cavallereschi e diffuso in Italia dai Cistercensi, nel cui ambito erano stati composti come tema narrativo legato alla “santa milizia”.

La storia di San Galgano non è affabulazione casuale e neppure imprestito forestiero. Essa è giunta in Toscana dopo un ampio arco di progressione millenaria, all’interno di una sempre omogenea koiné etnica e culturale, transitando dall’Iran arcaico alle pianure sarmatiche, dove ancora nell’Alto Medioevo vivevano i popoli bianchi delle steppe, fino all’idea romana di nobiltà cavalleresca e al mondo franco-germanico e provenzale che rielaborò questa materia con tardi sigilli cristianizzati. Quello della cerca del cavaliere, della sua gloria insieme terrena e spirituale, è, dunque, tema non semplicemente celtico e non semplicemente cristiano, ma che rimonta alle viscere indoeuropee della nostra civiltà: l’idea che la lotta del guerriero è lotta mistica, che la sua spada è una spada di giustizia.

Infine, quando il mito si localizza la leggenda esaurisce il proprio viaggio, l’archetipo produce un ultimo simbolo: la fede dell’eroe si radica nella roccia, la terra immutabile su cui vive.

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Tratto da Linea dell’11 luglio 2006.

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