Il gergo erotico filosofico del «Convivio» rivelato da Dante

La tradizione vastissima della personificazione della Sapienza in donna giunge evidentemente a Dante, che l’accoglie in pieno nella Divina Commedia. Pensi chi vuole che abbia inventato lui nella sua età matura questa simbolizzazione; con i precedenti che conosciamo dobbiamo ritenere che questa tradizione gli fosse tutt’altro che ignota fin da quando egli era giovane e che essa non sia giunta alla Divina Commedia saltando sopra la Vita Nuova (che si pretende realistica), ma che sia arrivata alla Commedia attraverso la Vita Nuova, poiché Dante volutamente e chiaramente afferma l’unità e l’identità della Beatrice della Commedia con la Beatrice della Vita Nuova e perché la Vita Nuova trabocca d’indizi del suo carattere mistico.

La tradizione dunque della Sapienza personificata arriva dai tempi anteriori a Dante alla Divina Commedia ed è logico pensare che investa anche la Vita Nuova.

Ma c’è di più. La tradizione del gergo amatorio convenzionale investe evidentemente il Convivio.

Abbiamo ricordato i mistici persiani nei quali l’amore, la donna, gli occhi della donna, la bocca della donna, i capelli della donna sono convenzionalmente immagini mistiche; abbiamo ricordato il Fiore, nel quale l’amore significa evidentemente l’amore della Sapienza santa e dove il «Fiore» significa questa Sapienza, l’«amico» significa l’iniziatore, «Gelosia» significa la Chiesa, «Malabocca» l’inquisitore, «Falsosembiante» la simulazione necessaria per vincere l’Inquisizione, ecc.

La tradizione del linguaggio segreto e la convinzione di doverlo usare arriva, dunque, a quel poeta che si chiama Durante e che scrisse il Fiore, il quale personaggio, posto che non sia Dante stesso, è un fiorentino vicinissimo a lui. Ma possiamo pensare che Dante ignorasse questa tradizione o che rimanesse estraneo a essa, quando nel Convivio adopera apertamente e confessa e svela un gergo erotico, che viceversa nel suo pensiero è (badate bene) non veramente mistico bensì filosofico?

Ricordo che Dante nel Convivio dice chiaramente che:

– La Donna Gentile significa la Filosofia (II 15 12).

– Gli occhi della donna significano le dimostrazioni della Sapienza (III 15 12).

– Il riso della donna significa le persuasioni della Sapienza (1) (id.).

– I drudi della donna significano i Filosofi (II 15 4).

– L’amore per la donna significa lo studio (2) (III 12 2).

Domando. È questo o non è un gergo erotico convenzionale? E le poesie del Convivio sono o non sono scritte in questo gergo?

Ma qui io, che conosco l’ingenuità della critica «positiva», sento già farmi questa obiezione: ma non vedete che qui, dove il gergo esiste, Dante lo spiega? Evidentemente dunque, dove Dante non lo spiega, non esiste. Proprio ragionando in questo modo la critica «positiva» ha compiuto il miracolo di non capir nulla in tutta questa poesia dopo sei secoli di studio!

Chiunque non sia un critico «positivo» intende subito che, finché Dante parlava di Filosofia, cosa che non dava fastidio a nessuno, che non provocava la Chiesa, che non entrava nel campo della religione, e finché perseguiva realmente una Sapienza più o meno razionalistica, egli poteva perfettamente svelare il suo gergo.

Non altrimenti Dino Compagni quando presentò la sua misteriosa donna in forma nettamente filosofica come «l’amorosa Madonnna Intelligenza» poté parlare con un così aperto simbolismo da non lasciar nessun dubbio su quello che voleva intendere.

La necessità del segreto, la necessità di non svelare il gergo e di lasciar credere che si trattasse di donna vera sorgeva non per il linguaggio erotico-filosofico, ma per il linguaggio erotico-mistico, perché lì si parlava di argomenti che potevano direttamente portare al rogo.

Pertanto è perfettamente naturale che in un’opera filosofica e razionalista come il Convivio il gergo erotico-filosofico fosse chiarito e rivelato, mentre è altrettanto naturale che in un’opera mistica come la Vita Nuova il gergo erotico-mistico non fosse rivelato e si lasciassero la «gente grossa» e gl’inquisitori a credere che si parlava di una donna vera, ed è naturalissimo che uno zelante «Fedele d’Amore» appiccicasse a questa donna, sia pure dopo ottant’anni dalla morte di lei, un cognome, a confusione e dannazione di tutta la critica «positiva» che doveva venir dopo.

Ma questa semplice constatazione dell’esistenza del gergo mistico-filosofico del Convivio (constatazione contro la quale non credo che si possa in alcun modo sofisticare) ci conduce a due importanti deduzioni.

1. Che la critica «positiva» può ritirare un argomento sciocchissimo e rettorico che ha portato contro il Rossetti: Dante non era uomo da giuocare sul gergo. Dante era uomo del trecento, di un secolo cioè nel quale si adoprava il gergo, si scriveva oscuramente per simboli e si salvava per mezzo di Falsosembiante la propria idea e per mezzo di esso si sperava di scannare Malabocca. Dante era uomo che ha adoperato indiscutibilmente il gergo nel Convivio, non solo, ma in esso ha con mirabile arte e con sottile intendimento giustificato e glorificato la dissimulazione.

Rileggiamo quello che dice a proposito della dissimulazione, e se i vecchi pregiudizi non ci hanno accecato, sentiremo riaffermare da lui l’utilità, la bellezza, la necessità di dissimulare il proprio pensiero. «E questa cotale figura in rettorica è molto laudabile, e anco necessaria, cioè quando le parole sono a una persona e la ‘ntenzione è a un’altra… questa figura è bellissima, utilissima e puotesi chiamare “dissimulazione”. Ed è simigliante a l’opera di quello savio guerrero che combatte lo castello da un lato per levare la difesa da l’altro, che non vanno ad una parte la ‘ntenzione de l’aiutorio e la battaglia (3)». È chiaro?

Dante si riserba il diritto della dissimulazione, loda e ammira questa bellissima, utilissima, necessaria figura rettorica, la usa per la sua confessione come un guerriero savio che, volendo assalire un castello, si volge da una parte per levare la difesa dall’altro.

Ma che cosa volete di più? Che vi spieghi tutto il gergo?

E si osservi che quando vuol dare un esempio dell’utilità e necessità della dissimulazione, prende un esempio che ricorda esattamente la sua posizione di laico e figlio della Chiesa che ammoniva e biasimava la Chiesa, spiegando che conviene la dissimulazione quando: «Lo figlio è conoscente del vizio del padre, e quando lo suddito è conoscente del vizio del segnore, e quando l’amico conosce che vergogna crescerebbe al suo amico quello ammonendo o menomerebbe suo onore, o conosce l’amico suo non paziente ma iracundo a l’ammonizione».

Dante, gira gira, finisce per dire tutto quello che vuole: «Usiamo la “dissimulazione” utile e necessaria, perché dobbiamo, noi laici, purificare e ammonire la Chiesa nostra Madre e Signora, perché non vogliamo diffondere tra la plebe la sua vergogna e il suo errore e perché la Chiesa (come l’amico iracundo all’ammonizione) non tollera di essere criticata, ammonita, purificata da noi, ma ci scaraventa addosso l’Inquisizione!»

Ma c’è un’altra considerazione. Il gergo erotico usato in materia di pura filosofia è semplicemente vezzo o arte (sia pure di cattivo gusto) e non è una necessità come è nella lotta contro la Chiesa. Il fatto che Dante lo abbia adoperato nel Convivio fa gravemente sospettare che egli lo abbia fatto proprio per forza di abitudine, cioè perché era tanto diffusa l’usanza di parlare d’amore con un «verace intendimento», di esprimere le idee alte e profonde sotto il velame della poesia amorosa, che Dante ha continuato nel Convivio in terni e in trattazioni razionalistiche, questa tradizione che egli aveva seguito nel campo mistico, e che in altri termini abbia continuato a vestire di forme erotiche le idee filosofiche perché era abituato a vestire di forme erotiche le idee mistiche. Ma il gergo amatorio usato nel Convivio depone per il gergo amatorio usato nella Vita Nuova anche per un’altra ragione. Le due opere sono strettamente connesse. Il Convivio, come dice Dante, non vuole derogare alla «Vita Nuova» anzi a quella maggiormente giovare. Ciò vuol dire evidentemente che la celebrazione della filosofia fatta nel Convivio non deve derogare alla celebrazione della Sapienza mistico-iniziatica fatta nella Vita Nuova e infatti la Donna Gentile, che si sostituisce alla Gentilissima, come Scienza a Sapienza, ha con la prima innumerevoli punti comuni e non esclude affatto la prima.

Orbene, se le due opere sono così ricollegate, se le due donne che in esse si celebrano sono così affini da poter contrastare l’una con l’altra, possiamo veramente credere senza offendere il senso comune che la prima sia, come certo è, un’opera simbolica, dove l’amore è gergo, e l’altra un’opera realistica dove l’amore è la vera attrazione verso la femmina?

Dobbiamo credere, non solo che quel tragico conflitto tra la Gentile e la Gentilissima fosse il conflitto tra la Filosofia e… la moglie morta di Simone de’ Bardi, alla quale non si concepisce che fastidio potesse dare la filosofia, ma che un’opera simbolica in gergo amatorio non dovesse derogare, ma dovesse giovare a un’opera realistica scritta in parole aperte e che raccontava soltanto alcuni episodi abbastanza insipidi, monchi e confusi di un amore giovanile? E dovremo crederlo quando in una terza opera, nella Commedia, quella prima pretesa donna vera ci si ripresenta sul carro tirato da Cristo nella indubitabile figura della Sapienza santa? E dovremo crederlo quando la Vita Nuova, questo preteso, ingenuo racconto degli amori di Dante, ci si presenta come un groviglio di visioni, di sogni, di sottintesi, di preterizioni, di dichiarazioni di dir cose comprensibili soltanto ad alcuni, di non volersi far intendere da troppi, un groviglio di calcoli cabalistici, di frasi incomprensibili e assurde, come quella secondo la quale Dante, parlando della morte di Beatrice, sarebbe stato «laudatore di se medesimo»?

E via! Finiamola con questa grossolana ingenuità che dura da troppo tempo e che poggia esclusivamente (lo vedremo meglio in seguito) come una piramide rovesciata, su quella burla di Giovanni Boccaccio, il quale raccontò quale fosse il cognome di Beatrice.

* * *

Note

1) «E qui si conviene sapere che li occhi della Sapienza sono le sue demonstrazioni con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue persuasioni».

2) «Per amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l’amore di questa donna».

3) Convivio, III, X, 6-8.

Questo brano costituisce la terza parte del capitolo 6 di Luigi Valli, Il linguaggio segreto di Dante e dei «Fedeli d’Amore».

Condividi:
Segui Luigi Valli:
Luigi Valli (1879 – 1930) è stato un critico letterario, docente universitario italiano. Prima discepolo poi amico fraterno di Giovanni Pascoli, si distingue come filosofo e poeta e studioso di Dante Alighieri. A lui sono dedicate tre scuole: una a Narni, un liceo a Barcellona Pozzo di Gotto e una scuola primaria a Bergamo, facente parte dell'Istituto Comprensivo Edmondo De Amicis. Tra le sue opere: * Il linguaggio segreto di Dante e dei "Fedeli d’Amore", Roma 1928 * La chiave della divina commedia, Zanichelli, Bologna, 1925 * Il segreto della Croce e dell’Aquila, nella Divina Commedia Bologna, 1922. * L'allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Bologna, 1922

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *