Fascismo e Stato nuovo

monumento-bolzanoLa distanza tra la percezione popolare del Fascismo e l’alta ricerca storiografica tende continuamente ad aumentare. In questa forbice, da un lato si ha una pubblicistica divulgativa che ancora si attarda sugli aspetti propagandistici: il Fascismo come dittatura violenta, di basso contenuto teorico, discriminazionista, etc.: un polpettone datato e reazionario, che tiene in piedi le varie vulgate mass-mediatiche ad uso delle plebi disinformate; dall’altro lato si ha il fiorire di una ricerca sempre più seria e onesta, che tende a liberarsi dei vecchi condizionamenti e a fare storia sui fatti e non sui pregiudizi. A questa seconda categoria – ancora relegata nei meandri dello specialismo, ma che alla lunga dovrà per forza sfondare il muro dell’ignoranza – appartiene il recente libro di Loreto Di Nucci Nel cantiere dello Stato fascista (Carocci), in cui senza complessi si analizza lo sforzo epocale sostenuto dal Fascismo per pervenire a un’autentica rivoluzione. Povera di rifondazioni politiche serie, la storia italiana conosce col Fascismo l’unico caso di un organico tentativo di rimodellare il carattere storico del popolo e di porre mano a un’architettura statale e sociale del tutto nuova. Innovazione e modernità, accanto alla protezione dei retaggi culturali e bio-storici, furono gli obiettivi che si dette quel Regime, storicamente fallito non per interne contraddizioni o debolezze, ma semplicemente perchè distrutto militarmente, dopo un assedio di cinque anni portatogli dalle maggiori potenze imperialistiche del pianeta.

Di Nucci si muove con libera coscienza e con sbrigliata consapevolezza di storico. Senza pagare l’abituale, avvilente debito alle retoriche decrepite dell’antifascismo professionale, lo studioso afferma con chiarezza che il progetto fascista ebbe la dimensione di una rivoluzione dello Stato, della burocrazia, delle categorie politiche, della partecipazione sociale, e infine persino dei caratteri antropologici del popolo italiano: lo Stato fascista era «un edificio totalitario in costruzione, in cui si sperimentarono nuovi assetti istituzionali, nuove forme di organizzazione della società e nuove tecniche di mobilitazione politica». Un insieme di realizzazioni che «dimostrano come la pedagogia rivoluzionaria e totalitaria del fascismo incominciasse a dare i suoi frutti». L’autore si concentra su alcuni aspetti del decisionismo fascista, individuando nell’ingegneria istituzionale un fulcro di innovazione. La creazione della figura del podestà, in particolare, generalmente poco studiata, si presenta come l’esempio di una volontà politica in netta controtendenza rispetto alle pratiche elettoralistiche del liberalismo. Per evitare la corruzione e i frazionismi legati al metodo elettorale, per impedire il crearsi delle lobby di potere privato tipiche del liberalismo, il Fascismo – che aveva in mente l’antico concetto romano di potestas – pensò di affidare il comando politico locale al podestà, ufficio non retribuito, un ruolo sganciato dalle tradizionali camarille territoriali e invece in rapporto diretto col centro politico, al fine di realizzare quell’omogeneità istituzionale mai avutasi in Italia.

Si trattava, come scrive Di Nucci, di «mettere in pratica una nuova concezione della rappresentanza, basata non più sull’idea del mandato del popolo sovrano, ma sul principio della designazione di capacità». La competenza, dunque, e non la demagogia, come sistema per far funzionare lo Stato in periferia. Il potere nella pienezza dei suoi mezzi, senza la retorica ingannevole del “popolo sovrano”. L’assunzione di responsabilità, e non l’intrigo clientelare. La ripresa di un antico istituto medievale come quello del podestà – instaurato con una legge del 1925 -, responsabile verso l’alto e verso il basso, rappresentava la messa in valore della qualità politica: al contrario del sindaco che esce da una votazione “democratica”, e rimane eternamente prigioniero dei gruppi di potere che lo hanno sostenuto, il podestà si presentava come una figura libera da condizionamenti, in grado di guardare al bene generale e non solo a quello della propria parte politica: «un pubblico ufficiale superiore alle passioni di parte», giudicato unicamente in base alla sua efficienza e ai risultati ottenuti.

Del pari rivoluzionaria fu la creazione del Governatorato di Roma. Anche qui, l’accentramento sul governatore di tutti i poteri un tempo assegnati al sindaco, alla giunta e al consiglio comunale, lasciava intendere la volontà di creare un ruolo a forte intensità decisionista. Di Nucci, molto a proposito, ricorda che questi istituti non erano meri centri di potere autoritario, del tipo dello Stato assoluto che domina dispoticamente, ma erano rappresentativi della società civile politicizzata. Ad esempio, nel caso della “consulta”, l’organo che collaborava col Governatore di Roma, si sottolinea che i suoi membri venivano scelti su designazioni avanzate da enti culturali, ordini professionali e corporazioni: «non è senza significato che su 65 membri scelti su designazioni fatte dagli enti, ben 28 spettassero alla Confederazione delle corporazioni sindacali fasciste». Come dire, il Governatore è sì un organo dello Stato, ma espresso anche dai ranghi del lavoro. Gerarchia di popolo, come si diceva. Era questa «una nuova concezione della rappresentanza», qualcosa che venne chiamato «democrazia totalitaria», volendo intendere che la sovranità del popolo risiedeva non nella possibilità di andare a votare ogni tanto, ma nella totale identificazione col potere politico. E con uno Stato che, mirando all’unità del popolo, non poteva concepire che sul proprio territorio funzionassero paradossali poteri “anti-nazionali”, come erano certi “comuni rossi” dell’epoca pre-fascista. Certo, si trattava di un sistema completamente diverso da quello di democrazia parlamentare all’inglese, qualcosa di inconcepibile per chi ragiona alla maniera liberale.

Con iniziative come la creazione del podestà – che ripeteva sul piano locale il protagonismo del Capo del Governo, avente prerogative legislative ed esecutive – si volle ad un tempo abbattere la vecchia Italia frazionata e campanilista, e ricreare lo spirito rinascimentale delle signorie comunali, quando l’antico podestà aveva tutti i titoli di un vero leader popolare. Si diceva infatti che la legge sul podestà era «rivoluzionaria e restauratrice al tempo stesso». Rivoluzionaria, perchè attuava un nuovo modo di rappresentanza, opposto a quello liberaldemocratico; e restauratrice perchè operava la «restaurazione della nazione», realizzando ciò che in Italia era sempre mancato: l’unità di Stato e Nazione.

La costruzione di un sistema politico basato sull’autorità al centro e in periferia ha permesso per lungo tempo che si definisse propagandisticamente il Fascismo come autoritarismo di Stato o addirittura dispotismo. Un equivoco sul quale ha avuto buon gioco la storiografia antifascista. Ma oggi gli studi consentono di mettere a posto le cose. Il rafforzamento del potere centrale e di quello periferico non portò alla crisi delle realtà locali, ma, al contrario, funzionò da impulso per la tutela della territorialità. L’autorità degli enti autarchici, gli enti locali, ebbe il pregio di vivificare anche quelle “piccole patrie” regionali che convissero con l’idea di Stato centralizzato forte. Inoltre, lungi dall’essere un sistema chiuso e ottusamente verticistico, il Fascismo è stato giudicato anche col criterio della “policrazia”. Nel metodo gerarchico agivano poteri in equilibrio tra di loro. È quanto rimarca, ad esempio, Fabio Bertini in Il Fascismo dalle assicurazioni per i lavoratori allo Stato sociale, contenuto nel libro curato da Marco Palla Lo Stato fascista (La Nuova Italia), in cui si afferma che nel Fascismo esisteva una «dialettica decisionale» (quindi non una dittatura) e che si operava un continuo confronto tra poteri in sinergia tra di loro: «La costruzione dei grandi enti dello Stato sociale fu anch’esso un terreno per questo confronto e, più che creare autonomamente una classe di tecnocrati avulsi dalla politica, definì tante tessere di sintesi di quegli stessi equilibri sociali ed economici da far confluire nel mosaico generale». È una frase importante. In essa si dice che nello Stato fascista si realizzava il confronto armonico tra le sue componenti, dando vita a una competenza tecnica politicizzata al servizio della sicurezza sociale, e che tutto questo non andava per conto suo, ma veniva unito in una sintesi politica. È proprio quanto il Fascismo stesso diceva di voler fare attraverso l’idea corporativa: attuare l’autorità politica per il benessere sociale, operando la sintesi di tutti i poteri in una più alta autorità. Invano si cercherebbe – da Toqueville a Chomsky – un equivalente elogio dello Stato liberale… A questo aggiungiamo che, secondo il recente studio di Didier Musiedlak Lo Stato fascista e la sua classe politica (Il Mulino), il sistema corporativo portò precisamente al contrario di un’oligarchia, cioè all’«apertura sociale».

La capillare analisi della composizione delle Camere in epoca fascista, e ancor più lo studio della provenienza sociale dei membri della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, fondata nel 1939, portano lo studioso a concludere – all’opposto di quanto sempre affermato dalla vecchia storiografia di parte – che il Fascismo fu un Regime che attinse la competenza dal popolo e non dalle classi privilegiate. Esso ad esempio demolì lo strapotere del ceto degli avvocati (tipico della leadership liberale: pensiamo agli USA ancora oggi) e dei possidenti, per premiare la provenienza interclassista e la capacità tecnica. Parlando della Camera dei Fasci, Musiedlak scrive che «l’ultima assemblea del regime non era più l’espressione del mondo dei notabili, ma quella dei gruppi delle classi medie e di un contingente non trascurabile di elementi popolari». Certo il Fascismo non portò al potere i sanculotti. Dell’idea di popolo aveva una nozione più alta e aristocratica che non certi populismi plebei. Chiamò invece i migliori dal punto di vista della preparazione e della competenza, e da qualunque parte sociale provenissero: «durante il periodo fascista il mondo della proprietà tradizionale cessò di rappresentare la base della classe politica». Giovani ingegneri, dirigenti tecnici, quadri intermedi e impiegati di moderna preparazione: questa la spina dorsale delle organizzazioni sindacali e corporative che popolavano la Camera dei Fasci. Sintesi: «il regime sembrò essere riuscito ad adattare la classe politica alla sua nuova finalità, quella di una Camera a carattere tecnico». E questo nel mentre, ancora nel gennaio 1943, si dava vita all’Istituto nazionale fascista per l’assistenza malattia, che «estendeva l’assicurazione obbligatoria a una casistica fino ad allora rimasta scoperta», completando così l’edificio dello Stato sociale. Poi dice che il Fascismo non aveva compreso la modernità, che era reazionario… gli storici oggi dimostrano che fece ciò che il liberalismo non è per sua struttura in grado di fare: erigere uno Stato efficiente e competente, e garantire al popolo la sicurezza sociale.

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Tratto da Linea del 6 marzo 2009.

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