Suggestioni fantastiche e utopiche dell’architettura futurista

Ogni movimento o corrente culturale si nutre delle immagini del proprio tempo, ancorché ad esso si contrapponga frontalmente e profondamente. È qualcosa d’inevitabile, non soltanto oggi che viviamo in una società basata sulle immagini trasmesse da un sempre maggior reticolo di mass media entrati in modo definitivo nella realtà collettiva e soprattutto personale, ma anche ieri, diciamo un secolo fa, allorché la comunicazione e la conoscenza delle immagini avveniva esclusivamente attraverso la stampa (libri, riviste illustrate, giornali) e cominciava a diffondersi anche mediante la fotografia e il cinema. E questo per il fatto che l’immagine ha per sua stessa costituzione – vale a dire oltre l’aspetto esteriore – pure un suo profondo senso simbolico, tale da catturare un’attenzione non solo superficiale, cioè meramente visiva, ma anche interiore, imprimendosi così nella nostra coscienza, magari del tutto inavvertitamente.

Sicché le correnti e i movimenti artistici e culturali che si sono opposti a quello che usualmente si definisce l’establishment del momento storico nel quale si sono sviluppati, sono rimasti quindi – se pur inavvertitamente – influenzati dalle immagini che circolavano o avevano circolato, comunque era diffuse nel loro tempo, magari anche semplicemente a livello “popolare”, non aulico. Lo fu indubbiamente il futurismo, soprattutto nella figura di Marinetti, la cui prosa esotica e visionaria attinse senza sosta a quello che si usa chiamare con termine assai efficace l’Immaginario Collettivo della sua epoca, gli anni Dieci e Venti del Novecento, per criticare e respingere da un lato, proporre ed esaltare dall’altro. Il cercare di individuare – qui forse per la prima volta e quindi con grande approssimazione – alcune fonti dell’immaginario futurista, specie in architettura, dimostra come l’esistenza di determinati autori, di certe loro opere (scritte e disegnate) abbia influenzato lo strato più profondo della fantasia di Marinetti e, attraverso lui, di altri teorici del primo e secondo futurismo, senza assolutamente togliere nulla alla loro originalità progettuale e quindi, in un senso generale e non specifico, “utopica”.

Si tratta, con ogni evidenza, di una ricognizione di quelle che si possono ritenere – per semplice deduzione più che per riferimenti precisi, che credo quasi non esistano – alcune delle fonti indirette delle visioni futuristiche (qui il termine è in senso lato: vale a dire avveniristiche) del movimento che nacque con il Manifesto pubblicato il 20 febbraio 1909 su Le Figaro. Indirette nel senso che si è spiegato prima: fonti inconsce: si deve ritenere che letti verosimilmente alcuni libri, visti alcuni disegni, le immagini prodotte da essi si siano poi fissate nella fantasia marinettiana, abbiano sedimentato, siano fermentate, abbiano ribollito e alla fine siano venute in superficie rielaborate e sistematizzate in un ché di organico.

Che autori, allora, prendere in considerazione per capire da dove possono essere giunte certe immagini del futurismo soprattutto architettonico? Si deve procedere, come già accennato, per induzione e deduzione.

Come è ben noto, Marinetti considerava il francese la sua madrelingua: scrisse i primi versi in francese e si fece conoscere come poeta franco-italiano nel 1898, a 22 anni, vincendo in quell’anno un premio letterario con il poemetto Les Vieux Marins, e quindi pubblicando a Parigi i suoi primi libri: nel 1902 La conquête des étoiles, nel 1904 Destruction, nel 1905 Le Roi Bombance, nel 1908 Les Dieux s’en vont, d’Annunzio reste e La ville charnelle, nel 1909 – l’anno della pubblicazione del Manifesto – infine, Poupées électriques e Mafarka le futuriste. Tutte opere solo in seguito tradotte in italiano. Conosceva bene la cultura e la letteratura francesi. Dovrebbe aver conosciuto – è logico supporlo – anche la letteratura “popolare”, attivissima nel periodo 1890-1910 nel produrre opere di un avvenirismo non solo pseudo-scientifico, ma sfrenato e barocco. Pensiamo soprattutto a due nomi: Jules Verne (1828-1905) e Albert Robida (1848-1926), il primo ancor oggi notissimo, il secondo quasi sconosciuto, almeno in Italia.

Potrebbe essere stato influenzato – subliminalmente si potrebbe dire – Marinetti nelle sue visioni futuristiche, soprattutto architettoniche e genericamente avveniristiche, da questi due autori? Lasciamo per il momento da parte l’aspetto “macchinistico”, l’esaltazione dell’automobile e dell’aeroplano – tipico del futurismo – e concentriamoci sul tema specifico che qui ci interessa. Ebbene, stranamente in Verne non ci sono molti agganci, se non in senso negativo rispetto alle concezioni marinettiane. Infatti, lo scrittore francese affrontò il problema urbanistico-architettonico soltanto in due romanzi, peraltro a sua firma ma non attribuibili a lui, in parte il primo, del tutto il secondo (ma questo all’epoca certo non lo si sapeva): Les cinq cent millions de la Bégun del 1879 (pubblicato in italiano quello stesso anno dalla Libreria Editrice Lombarda) e il postumo L’étonnant aventure de la Mission Barsac uscito a puntate nel 1914 e in volume nel 1919 (tradotto presso l’editore milanese Cioffi nel 1921). Nel primo, i due ereditieri dell’immenso patrimonio della Begun costruiscono altrettante città “utopiche”: il tedesco Schultze la città-fabbrica di Stahlstadt, il francese Sarrazin la città-aerea di France-Ville (evidenti gli echi dello scontro fra Germania e Francia di pochi anni prima). Nel secondo, una spedizione francese in Niger scopre la città segreta di Blackland, costruita dall’americano William Ferney che si fa chiamare Sua Maestà Harry Killer, dove all’insaputa del mondo si sviluppano stupefacenti invenzioni, ma a fin di male: non per il bene dell’umanità ma per conquistarla. Stahlstadt e Blackland non sono certo le città “verticali” di stile futurista, ma ricalcano in negativo gli opifici, le fabbriche, i falansteri, le carceri, per struttura e organizzazione.

Del tutto diverso il caso di Albert Robida, un vero e proprio genio dell’invenzione grafica satirica e grottesca e della fantasticheria pseudo-scientifica. Di questo autore si ricorderanno almeno Les Voyages très extraordinaires de Saturnin Farandoul dans le 5 ou 6 parties du monde et dans tous les pays connus et mˆme inconnus de Monsieur Jules Verne, uscito in cento dispense nel 1879 e tradotto in volume come I viaggi di Saturnino Farandola da Sonzogno nel 1890. Ma dal nostro punto di vista son ben più importanti altri tre testi, illustratissimi come il precedente, ed è questo l’elemento importante: Le vingtième siècle (in 50 dispense nel 1882) e il suo seguito, La vie électrique (a puntate su La Science illustrée nel 1891-2, in volume nel 1893); quindi, un album del 1887 dal titolo La guerre au vingtième siècle che riprendeva ed ampliava testi e disegni già apparsi con questo stesso titolo nel fascicolo de La Caricature del 27 ottobre 1883. Sempre Sonzogno pubblicherà Il XX secolo nel 1885 e poi nel 1898, mentre degli altri due non sembra sia uscita una traduzione italiana e sono così da considerare ancora inediti.

Claudia Salaris, nel suo Dizionario del futurismo scrive: “Il grattacielo, o ‘grattanuvole’ (come all’epoca viene chiamato), una vera sfida alle leggi di gravità, è il simbolo stesso della scalata al cielo tentata dall’uomo nell’era moderna. Gli illustratori che disegnano o sognano i grattacieli newyorkesi alimentano l’immaginario degli europei con la visione della metropoli moderna, dotata di sopraelevate che s’innalzano a diversi metri dal suolo e di metropolitane sprofondate nel ventre della città”[1].

Cosa descriveva, soprattutto con i suoi disegni più che con il testo Robida? Proprio tutto questo, certo in un senso ironico e caricaturale, ma le sue illustrazioni sono fitte di enormi e altissimi grattacieli punteggiati di finestre, ornati di antenne, collegati da ponteggi e viadotti, con piattaforme e terrazzi sporgenti, con la gente che praticamente vive e compie le sue faccende quotidiane all’esterno, per aria: portieri con le loro garitte, venditori ambulanti e fiorai e ristoratori che in sostanza lavorano nel vuoto, signore vestite ancora secondo la moda ottocentesca con grandi cappelli e larghe gonne, che chiacchierano a bordo di singolari velivoli, addirittura ladri e relative guardie. Non per nulla il sottotitolo de Il ventesimo secolo è “la conquista delle regioni aeree”. Infatti, il cielo di questa città pinnacolare formicola di aeromobili di ogni tipo: da quelli collettivi a quelli individuali, privati e pubblici, con signori in tuba e marsina e signore con crinoline e merletti al vento. Si potrebbe addirittura pensare che il regista francese Luc Besson nel suo Il quinto elemento (1997) si sia ispirato alle città di Robida per visualizzare la New York del futuro (realizzata al computer) con il suo pazzesco traffico aereo a più livelli verticali ed i venditori di hambuger e panini che offrono la loro mercanzia all’altezza delle finestre con carretti volanti! E se l’ipotesi è verosimile per Besson perché non potrebbe esserlo per Marinetti e per tutti gli altri futuristi che Marinetti influenzò?

Nella sua visionarietà barocca, così scriveva nel 1909 su Le Figaro: “Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere e dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta”[2].

Esiste un testo di Marinetti, però, che può far sorgere il legittimo dubbio di qualcosa di più, di un’influenza maggiormente diretta. Infatti, lo scrittore italiano pubblica all’interno della sua raccolta di testi Guerra sola igiene del mondo (Edizioni futuriste di “Poesia”, Milano 1915) anche La guerra elettrica, scritto nel 1910 e compreso nel volume in francese Le Futurisme (Sansot, Parigi s.d. [1911]), che sembra proprio far riferimento al Robida de La guerre au vingtième siècle e de La vie électrique.

Già il titolo marinettiano pare la fusione dei due titoli robidiani, ma è il testo che è sorprendente, forse il più avveniristico dello scrittore. Il sottotitolo recita: “visione-ipotesi futurista” e inizia così: “Oh! come invidio gli uomini che nasceranno fra un secolo nella mia bella penisola, interamente vivificata, scossa e imbrigliata dalle nuove forze elettriche”[3]. Infatti, nell’Italia del futuro tutto sarà governato grazie all’elettricità che nasce da quella che oggi noi chiamiamo “energia dolce”, venti e maree, “elettricità atmosferica” ed “elettricità tellurica”[4] che viene usata per l’agricoltura completamente automatizzata e sorvegliata dall’alto dagli uomini in “monoplano”, dato che ormai non si vive più al suolo: “l’uomo, divenuto aereo, vi posa il piede solo di tanto in tanto!”[5]. La guerra non è scomparsa, ma, come dice il titolo, è divenuta elettrica: lungo in confini delle nazioni belligeranti sono schierate “macchine pneumatiche – elefanti d’acciaio irti di proboscidi scintillanti puntate sul nemico”[6] che, prima rendono “rarefatta l’atmosfera” dell’avversario, quindi subentrano “locomotive armate di batterie elettriche (…) che lanciano fra le dighe di un nuovo cielo irrespirabile e vuotato di ogni materia, grandi grovigli di fulmini irritati (…) Venti esplosioni elettriche nel cielo, smisurato tubo di vetro pneumaticamente vuoto, hanno riassunti gli spasimi coraggiosi di due popoli rivali, coll’ampiezza e lo splendore delle formidabili scariche elettriche interplanetari”[7]. Sembra proprio di vedere le locomotive armate, le “locomotive-fortezze” come le chiama Robida, che si affrontano nelle sue tavole visionarie… È dunque l’elettricità che vivifica la terra, il cielo ed anche l’uomo in sé: il breve testo marinettiano sembra quasi una risposta al romanzo Le meraviglie del 2000 uscito tre anni prima, nel 1907, in cui al contrario gli sfortunati eroi di Emilio Salgari che si risvegliano nel XXI secolo – proprio come quelli di Bellamy e Wells, di cui in seguito si dirà – soccombono a causa dell’elettrificazione dell’aria cui non sono abituati! Però, non è detto che il “padre” del futurismo non sia stato influenzato anche dal “padre” del romanzo avventuroso italiano, come si vedrà più avanti.

Cinque anni dopo la pubblicazione del manifesto futurista, nel 1914, il giovane architetto Antonio Sant’Elia espone nella mostra “Nuove Tendenze” alla Famiglia Artistica di Milano un gruppo di tavole dedicate alla “Città Nuova” e nel catalogo presenta la sua posizione teorica: con correzioni ed aggiunte di Marinetti essa diventerà il manifesto L’architettura futurista (11 luglio 1914). Dove tra l’altro si legge: “Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchito la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce. Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose, dei rettifili, degli sventramenti colossali. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante, agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile a una macchina gigantesca. Gli ascensori non devono rincantucciarsi come vermi solitari nei vani delle scale: ma le scale divenute inutili, devono essere abolite e gli ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro, lungo le facciate. La casa di cemento, di vetro, di ferro (…) deve sorgere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada, la quale non si stenderà più come un soppedaneo al livello delle portinerie, ma si sprofonderà nella terra per parecchi piani, che accoglieranno il traffico metropolitano e saranno congiunti, per i transiti necessari, da passerelle metalliche e da velocissimi tapis roulant”[8].

Alla descrizione teorica di Sant’Elia si deve avvicinare la rappresentazione visiva, cioè i suoi progetti e disegni e schizzi: case a gradinate, ascensori esterni, stazioni aeree e ferroviarie sistemate su più piani stradali. Dopo aver letto il suo testo e visto le sue immagini, il pensiero corre subito ad un film-culto dei nostri tempi, quel Blade Runner di Ridley Scott (1982) che mostra una città del futuro caratterizzata proprio dalle case a gradoni e dagli ascensori esterni, evidenziati nelle scene più significative. Il gusto futurista, come si vede, può ritrovarsi dove meno se lo aspetti…

Le case a gradinate, le centrali elettriche, le stazioni per aerei e treni di Sant’Elia del 1913-1914, ma anche i ponti disegnati da Mario Chiattone nel 1914, le fabbriche di Virgilio Marchi del 1919, i grattacieli “a radiatore” di Guido Fiorini del 1930-1, la metropoli immaginata da Quirino De Giorgio per Raum di Vàsari nel 1932[9], rimandano irresistibilmente alle figurazioni di Robida di trent’anni prima, indipendentemente se fossero o meno state conosciute in modo diretto. Certo, negli architetti futuristi c’era la reinvenzione fantastica della grandiosità delle metropoli americane (il riferimento esplicito ai grattacieli lo prova), ma c’era anche lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, che influiva sulle loro realizzazioni, l’Immaginario Collettivo cui non erano estranei.

Potrebbe esserci stato qualche altro scrittore ad aver influenzato la fantasia futurista? Potrebbe. Ad esempio Herbert George Wells, i cui romanzi cominciarono ad essere tradotti in italiano nel 1901. In particolare, When the Sleeper Wakes del 1899 apparve per Treves nel 1907 col titolo Quando il dormiente si sveglierà. Perché ricordiamo questa particolare opera dello scrittore inglese e non, ad esempio, i più noti e famosi La macchina del tempo, La guerra dei mondi o I primi uomini sulla luna? Perché è una visione sociopolitica del futuro in cui Wells descrive maggiormente l’urbanistica e l’architettura delle città a venire che, a detta di uno specialista francese di queste cose, Pierre Versins, influenzerà il Fritz Lang di Metropolis (1926)[10]. E allora perché non anche le visioni futuriste? Forse non è un caso che, come ricorda Luciano De Maria[11], recensendo nel 1922 il romanzo marinettiano Gli Indomabili, Silvio Benco fece proprio il nome di Wells…

Si vedano queste descrizioni tratte appunto da Il risveglio del dormiente (titolo della edizione 1910 del romanzo) in cui Wells narra la storia di un uomo che si sveglia nella Londra del 2100 e scopre di esserne diventato il Padrone: “La sua prima impressione fu d’essere sopraffatto da quell’architettura. Il luogo che si offriva alla sua vista era la navata di un edificio titanico, che si stendeva in una curva immensa tanto a destra che a sinistra. Sopra la sua testa possenti contrafforti si slanciavano e si ricongiungevano attraverso l’enorme vastità dell’arcata e un immenso traforo di cavi di una materia traslucida impediva la vista del cielo. Globi giganteschi che spandevano una luce fredda e bianca oscuravano i pallidi raggi del sole che filtravano dall’alto attraverso l’intelaiatura delle travi e dei cavi. Qua e là dei lievi ponti aerei sospesi nello spazio, sui quali si vedevano camminare persone, come minuscoli puntini, erano gettati sull’abisso mentre cavi sottili tessevano nell’aria una colossale tela di ragno. Dando un’occhiata in alto Graham si accorse che l’edificio, sulla facciata del quale si trovava, continuava ad elevarsi a picco sopra di lui; l’altra facciata, di fronte, era grigia e oscura, interrotta da grandi arcate, da aperture circolari, da ampie terrazze, da contrafforti, da torrette sporgenti, da una miriade di enormi finestre e da un intrico confuso di rilievi architettonici”[12]. A parte il barocchismo di questi “rilievi architettonici”, sembra una città così come l’immaginavano i futuristi, in particolare ecco cosa scrive ne 1921 Virgilio Marchi: “E se vogliamo essere ancora più accondiscendenti con l’epoca a venire, chiediamo pure all’architettura la vertigine delle altezze, la bizzarria del meandro, la voluttà scherzosa del pericolo. Torri e tourniquets percorse da tappeti movibili come nei tabbogans delle spianate estive. Architettura dai panorami bizzarri che intravederemo cinematograficamente sboccando da gallerie scintillanti in piazze soleggiate fermandoci a riprendere la corsa verso lontananze favolose”[13].

Come immagine corrispondente a quanto appena riportato, eccone un’altra di Wells, che fa seguito alla descrizione precedente: “Alcuni cavi di notevole spessore erano fissati qua e là alla volta e descrivendo una rapida curva andavano a perdersi in aperture circolari dalla parte opposta. Nel momento stesso in cui l’attenzione di Graham si soffermava su questi particolari, fu improvvisamente distolta dalla lontana apparizione della minuscola figura di un uomo vestito di azzurro pallido. Quella piccola figura umana si protendeva dalla sporgenza della costruzione e maneggiava delle funi quasi invisibili collegate al cavo principale. Poi, d’improvviso, con un balzo che fece dare un tuffo al cuore di Graham, scivolò velocissimo lungo la curva, infilandosi in una apertura rotonda praticata nella parete di fronte”[14]. E subito dopo: “La strada ch’egli vedeva era larga un centinaio di metri, ed era mobile, ad eccezione della parte inferiore e centrale. Per un attimo quel movimento lo lasciò stupefatto e perplesso; poi capì. Sotto il balcone quella strada veramente straordinaria s’allontanava rapida alla destra di Graham, a somiglianza di un fiume infinito e precipitoso, o come un treno espresso del XIX secolo. Era una corsia interminabile, costituita da strette sbarre trasversali sovrapposte, con brevi spazi intermedi che consentivano di seguire le curve del percorso”[15].

E ancora: “La scena che si presentò agli occhi di Graham era fantastica e impressionante. La neve aveva quasi cessato di cadere e solo ogni tanto si vedeva qualche raro fiocco. Davanti a loro si stendeva una superficie di un bianco spettrale, interrotta soltanto da masse gigantesche e da forme in movimento, e da lunghe strisce di oscurità impenetrabile, che assomigliavano a immensi e sgraziati Titani. Tutto intorno a loro s’intersecavano gigantesche costruzioni metalliche, travi di ferro di dimensioni sovrannaturali, mentre le ali dei mulini quasi immobili nella calma che seguiva la tempesta passavano descrivendo immani curve scintillanti, salendo lentamente fino a perdersi in un alone luminoso”[16]. È la sensazione di titanismo macchinistico che qui domina, come domina nelle descrizioni e nelle immagini architettoniche del futurismo e nei loro romanzi, soprattutto alcuni di Marinetti come si dirà.

Ancora: “Gli scali di volo di Londra erano riuniti in una mezzaluna irregolare sulla riva sud del fiume (…). Erano delle strutture uniformi, che si elevavano al di sopra dell’altezza media dei tetti; ciascuna aveva una lunghezza di quattromila metri ed un’altezza di mille, ed erano costruite in quella lega di alluminio e ferro che nell’architettura aveva preso il posto del ferro stesso. I piani più alti formavano dei tralicci attraverso i quali salivano scale e ascensori. La superficie superiore era costituita da una piattaforma piana, parte della quale – le piste di partenza – era sollevabile e su tali piste si poteva agevolmente correre fino all’estremità della piattaforma su rotaie leggermente inclinate”[17]. Tutto ciò non ricorda forse lo Scalo di macchine aeree e Aeroporto stazione-Aeroporto urbano disegnati da Tillio Crali nel 1931[18]? Oppure alcuni passaggi del Manifesto Futurista dell’architettura aerea del 1° febbraio 1934 firmato da Marinetti, Mazzoni e Somenzi, là dove si parla della “grande Città unica a linee continue da ammirare in volo, slancio parallelo di Aerostrade e Aerocanali larghi cinquanta metri”, o dove si proclama: “Aboliremo la notte mediante enormi proiettori o soli artificiali volanti o immobili per ottenere la continuità del giorno e la distribuzione scientifica del sonno”[19]?

Nel citato romanzo marinettiano Gli Indomabili (Edizioni futuriste di “Poesia”, Piacenza 1922) più che la descrizione della città dei Cartacei che è quasi immateriale, fatta com’è di fumo, aria, colori e luci, è la descrizione dei lavoratori sotterranei che colpisce: “Dieci. Venti. Trenta. Gli Indomabili li contavano, ma quegli strani soli si moltiplicavano a centinaia, splendenti sempre più. Finalmente rivelarono la loro natura. Erano i mozzi splendidi e giranti di immense ruote perpendicolari! Quella ruota lì a destra, ha per lo meno cento metri di diametro! (…) Inoltrandosi sempre più nell’atmosfera qua e là torturata di luci e tutta intrecciatissima di fumi, gli Indomabili compresero che quelle ruote giranti si ingranavano una all’altra, velocissime. Intorno a ogni ruota formicolava il travaglio minuzioso di una complicata orologeria di piccole ruote ognuna delle quali aveva l’altezza di un uomo e portava sospeso alla sua manovella uno straccio convulso e nero. Gli Indomabili si fermarono muti, colpiti da stupore. Quegli stracci sembravano affannosi. Erano esseri viventi. Molli, come disossati, trascinati dalla ruota stessa, mentre in realtà partiva da loro la forza rotante. A quando a quando, uno di quegli uomini flosci e serpentini rallentava il suo moto convulso. Lo si sentiva ansimare e gemere di fatica, mentre le ruote intorno, tutte ingranate, rallentavano i loro giri, e la gigantesca ruota perpendicolare, diminuendo anch’essa la sua velocità, rivelava il suo orlo dentato di luminose seghe d’argento. Subito un sibilo trapanava l’atmosfera caldissima. – Con forza! Al lavoro! Velocità! velocità! Guai a chi si ferma! Lavoro o morte! Velocità o morte!”[20].

Ora, se When the Sleeper Wakes può aver influenzato Metropolis, una descrizione del genere può far pensare di certo al romanzo di Wells e, a posteriori, al successivo film di Lang, ma anche a Tempi moderni di Charlie Chaplin, che è del 1936, due lustri dopo.

Naturalmente, negli anni a cavallo dell’Ottocento e del Novecento erano stati tradotti in italiano altri romanzi di lingua inglese che comunemente s’inseriscono nella categoria delle “utopie”, alcuni dei quali famosissimi, ad esempio Looking Backward (1888) dell’americano Edward Bellamy, apparso come Nell’anno 2000 (Treves, Milano 1890), e News from Nowhere (1891) dell’inglese William Morris, tradotto come La terra promessa (Kantorowicz, Milano 1895). Ma nessuno dei due, pur immaginando le città di domani, è troppo in sintonia con i futuristi: la Boston del 2000 di Bellamy è il contrario esatto delle città verticali di Wells e dei Manifesti di Marinetti, Sant’Elia e Mazzoni, in quanto si stende orizzontalmente come una specie di città-giardino, e lo stesso si può dire di Morris il cui anti-industrialismo quasi luddista e l’anti-macchinismo gli facevano immaginare insediamenti artigiani di stile medievale.

E gli autori italiani? Può esservi stato uno scrittore abbastanza popolare e diffuso le cui opere possono essere entrate nell’Immaginario Collettivo dell’epoca e quindi aver colpito anche i futuristi? L’unico che abbia queste caratteristiche è senza dubbio Emilio Salgari, suicidatosi come si sa a Torino nel 1911. Quattro anni prima, come in precedenza si è accennato, aveva pubblicato per Bemporad un romanzo per lui atipico, scritto probabilmente intorno al 1903, Le meraviglie del duemila, che per il modo in cui i suoi protagonisti giungono nel futuro (un sonno di cento anni), ma soprattutto per il suo pessimismo anti-modernista e anti-socialista sembrerebbe quasi una risposta all’ottimismo socialista di un Bellamy (anche il titolo riecheggia quello dato in Italia al romanzo dello scrittore americano). Le meraviglie del duemila abbonda peraltro di anticipazioni scientifiche, soprattutto nella vita di ogni giorno e in politica, ma non si diffonde troppo sull’aspetto architettonico e urbanistico se non per quegli spunti che, anche qui, sembrano risentire delle illustrazioni di Robida e che comunque ritroviamo nell’immaginario architettonico futurista.

Ad esempio: “Vie immense apparivano sotto gli aeronauti, se così si potevano chiamare, fiancheggiate da palazzi mostruosi di venti, venticinque e perfino trenta piani, che dovevano contenere migliaia di famiglie ciascuno, la popolazione di un villaggio. Mille fragori salivano fino agli orecchi dei due resuscitati, prodotti da chissà quali macchine gigantesche: fischi, colpi formidabili, detonazioni, scoppi, e si vedevano, lungo le pareti e sulla cima di colonne di ferro, roteare con velocità straordinaria dei volanti di dimensioni mai più viste”[21]. E più avanti: “I palazzoni enormi come a New York, contenenti centinaia di famiglie si succedevano senza interruzione e anche nelle vie dell’antico sobborgo della capitale dello stato regnava un’animazione straordinaria, febbrile”[22]. Nel cielo un turbinio di macchine volanti: piattaforme di metallo con ali ed eliche: “Toby e il suo compagno guardavano con stupore quel congegno straordinario che si alzava ed abbassava e girava e rigirava come fosse un vero uccello. Altri consimili ne volavano in gran numero sopra i tetti dei palazzi, gareggiando in velocità, per la maggior parte montati da signore che ridevano allegramente e da fanciulli schiamazzanti. Ve n’erano di tutte le dimensioni: di grandissimi che portavano perfino venti persone, e di piccolissimi, appena sufficienti per due, e altri formati da sole due ali somiglianti a quelle dei pipistrelli, che reggevano una poltroncina montata da una sola persona e che pure manovravano con non minore precisione e rapidità degli altri”[23].

Sostituite le piattaforme con palloni e dirigibili ed avrete “la conquista delle regioni aeree” di Robida, comprese signore e ragazzini: il tutto, poi, se riportato a livello terrestre non è altro che la descrizione del traffico urbano che noi tutti conosciamo benissimo… Ma, come si è già detto, a differenza dei futuristi e del Marinetti de La guerra elettrica e de Gli Indomabili, che esaltavano l’elettricità e l’elettrificazione della vita, i due eroi di Salgari soccombono, loro non abituati, alla tensione accumulata nell’aria che li conduce sino alla follia. Però, come non collegare gli immensi volani presenti nelle città del futuro salgariano a quelli della città sotterranea descritta da Marinetti?

La cultura italiana del tempo non era dunque priva di spunti avveniristici, sia a livello di letteratura per giovani o popolare (Verne e Wells), sia considerata impegnata e per adulti (Bellamy, Morris). Inoltre, all’epoca vi erano italiani che si ispiravano a tutti questi autori stranieri, e ad altri sia francesi che angloamericani, e pubblicavano racconti e feuilleton sulle riviste popolari o in volume. Testate come La Tribuna Illustrata (1890) o La Domenica del Corriere (1899), ovvero la prima rivista del genere in assoluto, cioè Il Giornale Illustrato dei Viaggi (1878) e gli altri settimanali usciti a sua imitazione come Per terra e per mare diretto da Emilio Salgari (1904), Viaggi e avventure di terra e di mare diretto da Anton Giulio Quattrini (1905) o L’Oceano diretto da Luigi Motta (1906), sono zeppi di storie a imitazione di Verne, Wells e Poe, ma anche di francesi minori ma all’epoca ben noti come Boussenard , de la Hire e Le Rouge. E romanzi di ispirazione “interplanetaria” o “futuribile” ne apparivano più di quanti oggi si pensi: c’erano già stati un Da Firenze alle stelle (1885) di Ulisse Grifoni e Dalla Terra a Marte (1895) di un certo F. Bianchi, ma bisogna anche ricordare le satire verniane di Yambo (Enrico Novelli) Gli esploratori dell’infinito (1906) e La colonia lunare (1908): poi Gli erranti del firmamento (1908) di Giacchino Astarita e L’Impero del Cielo (1918) di G. P. Cerretti, che merita una citazione: infatti dovrebbe essere il primo romanzo italiano che descrive un intervento degli extraterrestri sulla Terra: il Popolo Azzurro infatti interviene sul Kaiser per costringerlo all’armistizio[24].

Insomma, quel che s’intende dire è che, a differenza di quanto in genere si ritiene, tra i due secoli non era troppo fuor del comune, anzi era abbastanza diffusa, quella che potremmo definire una sensibilità avveniristica. E che Marinetti pensò al futurismo raccogliendo l’atmosfera del tempo che serpeggiava in una miriade di pubblicazioni, condensò e significò su un piano più culturalmente elevato un clima non estraneo – ma disperso – dell’epoca, soprattutto a livello di una narrativa che, con parole odierne, si potrebbe definire “di massa” o “di consumo”, recependone, come si è detto inizialmente, a mo’ di suggestione innumerevoli immagini. Tra esse quelle architettoniche e urbanistiche. Ma non solo quelle, è ovvio, se si considera come l’aeroplano, ma poi anche il razzo e il volo interplanetario, l’uomo meccanico o artificiale, furono al centro di molti romanzi dei futuristi, dallo stesso Marinetti (Mafarka, 1909; Gli Indomabili, 1922) a Buzzi (L’ellissi e la spirale, 1915), da Corra (Sam Dunn è morto, 1915) a Volt (La fine del mondo, 1921), da Vasari (L’angoscia delle macchine, 1925; Raum, 1932) a Benedetto (Viaggio al pianeta Marte, 1930), da Sanzin (Infinito, 1933) a Marchi (Allucinazioni della città nuova, 1933). Non per nulla, il Manifesto del 1909 si chiudeva con queste parole:

Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo,

una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!…

Note

[1]Claudia Salaris, Dizionario del futurismo, Editori Riuniti, Roma, 1996, pp. 9-10.

[2]Luigi Scrivo, Sintesi del futurismo, Bulzoni, Roma, 1968, n. 2.

[3]F. T. Marinetti, La guerra elettrica, in Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Mondadori, Milano 1968, p. 273.

[4]F. T. Marinetti, La guerra elettrica cit., p. 275.

[5]F. T. Marinetti, La guerra elettrica cit., p. 275.

[6]F. T. Marinetti, La guerra elettrica cit., p. 277.

[7]F. T. Marinetti, La guerra elettrica cit., p. 277.

[8]Luigi Scrivo, Sintesi del futurismo cit., n. 41; La metropoli futurista, Officine del Novecento, Firenze 1999, p. 83.

[9]Tutti riprodotti nel citato La metropoli futurista, pp. 24-48, 54-55, 65, catalogo della mostra multimediale sull’architettura futurista alla Galleria degli Uffizi, Firenze, 2 ottobre-14 novembre 1999, a cura di Ezio Godoli e Vincenzo Capalbo.

[10]Pierre Versins, Encyclopédie de l’utopie, des voyages extraordinaries et de la science fiction, L’Age d’Homme, Lousanne, 1972, voce Urbanisme, p.911.

[11]Luciano De Maria, Introduzione a F. T. Marinetti, Teoria cit., p. LX.

[12]H. G. Wells, Il risveglio del dormiente e altre avventure di fantascienza, Mursia, Milano 1980, p. 29.

[13]Virgilio Marchi, Scenografia futurista, in Cronache d’attualità, n. 9-11, Roma, agosto-ottobre 1921; poi in Architettura futurista, Campitelli, Foligno 1924; ora in La metropoli futurista cit., p. 87.

[14]H. G. Wells, Il risveglio del dormiente cit. p. 29.

[15]H. G. Wells, Il risveglio del dormiente cit., pp. 29-30.

[16]H. G. Wells, Il risveglio del dormiente cit., p. 53.

[17]H. G. Wells, Il risveglio del dormiente cit., p. 105.

[18]La metropoli futurista cit., pp. 59, 62.

[19]La metropoli futurista cit., pp. 91-93.

[20]F. T. Marinetti, Gli Indomabili, in Teoria e invenzione futurista cit., p. 901.

[21]Emilio Salgari, Le meraviglie del duemila, Viglongo, Torino 1995, p. 51.

[22]Emilio Salgari, Le meraviglie del duemila cit., p. 61.

[23]Emilio Salgari, Le meraviglie del duemila cit., p. 48.

[24]Su questo periodo, ancora assai poco indagato, vedi Gianfranco de Turris, Introduzione a Luigi Capuana, Quattro viaggi straordinari, Solfanelli, Chieti 1992; Verso la terra incognita della proto-fantascienza italiana, in Gli Eredi del Capitano Nemo, catalogo dello Studio Bibliografico Little Nemo, Torino 1993: Il futuro ha un cuore antico, in Leggere, Milano, giugno 1995; Il futuro è cominciato ieri, in Fantascienza. Ritorno alla Terra, a cura di Roberto Festi, Stampalith, Trento 1999, catalogo della mostra “Il fumetto e la grafica di fantascienza come anticipatori di visioni” al Centro Servizi Culturali S. Chiara, Trento, 31 marzo-9 maggio 1999; e soprattutto Quando la bandiera italiana sventolò su Venere, introduzione alla antologia Le aeronavi dei Savoia, Protofantascienza italiana 1892-1952, Nord, Milano, 2001.

Tratto da Avanguardia n. 22 del 2003 (anno 8°), pp. 79-92.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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