Evola trent’anni dopo

Gianfranco de Turris, Come sopravvivere alla modernità. Evola - Jünger - Mishima. Manualetto di autodifesa per il 2000 e oltre Nel primo pomeriggio dell’11 giugno 1974, sentendo di essere giunto al momento decisivo, Julius Evola si faceva portare alla sedia del suo tavolo di lavoro, di fronte alla finestra che dava su Corso Vittorio Emanuele con in lontananza il Gianicolo, e lì concluse il suo cammino terreno a 76 anni. Aveva vissuto da stoico quasi metà della vita, paralizzato agli arti inferiori dopo essere stato coinvolto in uno dei bombardamenti che Vienna subì all’inizio di aprile 1945, e da stoico morì. Volle essere cremato e dispose che le sue ceneri fossero deposte sul Monte Rosa, che aveva scalato in gioventù. Gli articoli che i giornali di sinistra scrissero per l’occasione raggiunsero rare vette di ignobiltà.

 

Nel 1974 l’Italia, dopo la «contestazione», era arrivata alle soglie degli «anni di piombo» con i loro centinaia di morti e migliaia di feriti, avrebbe vissuto poi gli «anni del riflusso» e quindi quelli della «rivoluzione di tangentopoli», per approdare infine alla meno peggio nel XXI secolo macinando e travolgendo uomini e partiti, glorie effimere e ideologie che sembravano immarcescibili, creando nuovi conformismi non meno ridicoli di quelli che li avevano preceduti. La storia in sostanza si ripete e Julius Evola nella sua trentina di libri e nelle sue migliaia di articoli aveva previsto tutto o quasi, da sempre denunciando i limiti sociali, morali, ideali e politici di una società – quella occidentale – che da tempo si era autoproclamata culmine del progresso dell’umanità. Posizione ovviamente scomoda e minoritaria, la sua, ma non per questo priva di fondamento, visti gli esiti odierni.

 

Julius Evola, Rivolta contro il mondo moderno Da questo punto di vista Evola, come tanti altri importanti nomi del secolo scorso, è stato un «profeta della decadenza» e, leggendo i suoi libri, si potrebbe capire molto di quel che oggi sta avvenendo sotto i nostri occhi. Ma la sua figura è assai più complessa. È stato il maggior esponente del dadaismo italiano: pittore, poeta e teorico (Arte astratta, 1920), è stato filosofo trans-idealista (Teoria dell’Individuo assoluto, 1927), originale interprete dell’alchimia (La tradizione ermetica, 1931), uno dei primi se non il primo a denunciare l’involuzione della religiosità (Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, 1932), analizzatore della crisi contemporanea cui ha contrapposto l’idea di Tradizione (Rivolta contro il mondo moderno, 1934), indagatore di miti (Il mistero del Graal, 1937), studioso di dottrine orientali (La dottrina del risveglio, 1943) e di un nuovo modo di intendere l’eros (Metafisica del sesso, 1958), autore di un testo di metapolitica per la Destra italiana (Gli uomini e le rovine, 1953) e di un vero e proprio manuale di sopravvivenza nel mondo desacralizzato e tecnologizzato (Cavalcare la tigre, 1961).

 

Oggi, a trent’anni dalla morte, molti di questi aspetti della sua opera sono riscoperti con meno astio del passato, anche se qualcuno, a destra come a sinistra, vuol far dimenticare la sua importanza complessiva, ma soprattutto come pensatore di una destra aristocratica e spirituale, ricordando solo i suoi quattro libri sulla questione razziale (1936-1941). Se per altri autori (Pound e Céline, ad esempio) razzismo e antisemitismo ormai non oscurano più la loro importanza culturale, perché non dovrebbe valere anche per Evola?

 

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Tratto da Il Tempo del 5 giugno 2004.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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