Diritto di suolo e assalto all’Europa

Esiste uno “spazio di rispetto” nelle cose del mondo fisico, che riguarda molto da vicino il comportamento umano, sia quello individuale che quello collettivo. La prossemica ci spiega dal punto di vista scientifico ciò che ogni persona equilibrata conosce da sola, per istinto biologico naturale. Ogni corpo fisico in natura, e quindi anche il corpo fisico dell’uomo, è circondato da un’aura di spazio che gli compete per semplice volume di massa e soprattutto per diritto d’esistenza. In una stanza vuota, due persone amiche si parleranno ad un metro o due di distanza. Due innamorati, che si conoscono benissimo, staranno più vicini tra loro. Due estranei, invece, siederanno ad una distanza maggiore, come automatico istinto di rispetto reciproco. Solo in ascensore o in tram nelle ore di punta la vicinanza coatta restringe lo spazio e costringe a contatti forzati, di cui tutti registrano con naturale automatismo la sgradevolezza.

Panfilo Gentile, Democrazie mafiose e altri scritti. Come i partiti hanno trasformato le moderne democrazie in regimi dominati da ristretti gruppi di potere Lo spazio regola la vita dei popoli non meno di quella degli individui. Si parla di amore per il prossimo, per l’appunto riferendosi a chi è “prossimo”, vicino, per abitudine, localizzazione tradizionale, cultura, inserimento in un contesto di organica comunanza di vita quotidiana confermata dallo scorrere del tempo, dalle generazioni, dalle esperienze storicamente acquisite stando insieme. Il Cristo spronava ad amare il prossimo come se stessi: con questo, evidentemente, dava per scontata l’implicita nozione pregressa che l’uomo deve amare in primis se stesso, altrimenti non si vede come potrebbe amare gli altri. Infatti non si dice: “disprezza te stesso ma ama il prossimo”. Inoltre, parlava appunto di “prossimo”, che è un concetto diverso, forse addirittura opposto, a quello di “tutti”. Distingueva, delimitava, parlava a uomini non ideologizzati, ma uomini.

Di fronte alla coazione a considerare “prossimo” il lontano che si avvicina, non individualmente ma attraverso infiltrazioni di massa, entrano in azione miriadi di conseguenze psicologiche, culturali, comportamentali, oltre che sociali ed economiche, che, debitamente ignorate con l’aggressività e l’ignoranza tipiche di chi propaganda gli universalismi utopistici, sconvolgono l’eredità biologica, territoriale, spirituale e culturale di quanti subiscono la violenza di un’imposizione presentata coi toni della sobillazione filantropica. Si ìstiga in modo intimidatorio a concedere un’offerta umanitaria forzosa, che si risolve in una sorta di auto-lesionismo che potrà essere in tempi medio-lunghi di portata incalcolabile. A quanti si vedono privati della naturale propensione alla tutela dei propri spazi nei tradizionali circuiti della convivenza, si somministra il doppio piatto avvelenato della costrizione a subire passivamente un sopruso e, in alternativa, a vedersi minacciati di grave colpa sociale nel caso di una qualche resistenza: chi ama se stesso e i propri nuclei di spazialità vitale si vede minacciato di una colpevolizzazione ingiuriosa e socialmente infamante, nel nome di una socialità universalista che non è mai esistita in alcun gruppo umano, che anzi è sempre stata avvertita come pericoloso preludio alla perdita dell’identità propria, che storicamente è stato dimostrato essere il bene comunitariamente sentito come il più prezioso. Perso il quale, viene a mancare anche la solidità dell’auto-stima e dell’auto-considerazione familiare ed individuale, su cui si basa ogni associazione umana.

Quando un estraneo – buono o cattivo che sia – ci si avvicina, la naturale propensione dell’uomo, scientificamente spiegata nei termini noti dell’autodifesa psicologica e dell’istinto di conservazione, è precisamente quella del ritrarsi. Millenni di esperienza hanno confermato questa legge di natura, strettamente connessa con la protezione della vita: che è il primo diritto umano. Che oggi un pugno di interessati demagoghi voglia sovvertire questa legge vitale concreta in nome di fantasie cosmopolitiche, nel frattempo dichiarate fallite da tutti gli esperimenti sotto tutti i regimi, è il segno che siamo entrati in un ciclo non più di decadenza, ma di rovina del senso dell’Io e del Noi.

Un popolo sano difende il suo spazio. Un popolo sano ha il dovere di difendere il suo spazio. Lo spazio non è solo terra, è memoria, è identità psico-culturale, è un tutt’uno con l’uomo. Questo patrimonio deve essere protetto. Ogni patrimonio spazio-temporale deve essere protetto. Questa è una legge primordiale di vita, che vale oggi come ai tempi dell’orda. Un padre di famiglia che di notte lascia la porta di casa aperta, non è uno spirito illuminato, ma un criminale, che espone i figli al pericolo certo, solo per soddisfare qualche sua deviata monomanìa mentale.

La tutela del territorio che ci hanno lasciato i nostri padri dovrebbe essere il primo dei doveri di una classe politica. Ma oggi non esiste alcuna classe politica. Esiste un manipolo di avventurieri che agisce al servizio dell’utopia e del concreto interesse che si nasconde dietro l’abbattimento delle identità nazionali. Le nostre come le altrui: entrambe rovinate da quella macchina infernale che è la recente immigrazione, certo non fenomeno spontaneo, ma sapientemente telecomandato. Questa indegna oligarchia lavora giorno e notte contro il popolo che rappresenta, si ingegna instancabilmente e in ogni modo per minarne le basi esistenziali. E trova sempre nuovi adepti, certi di lucrare sul rimescolamento e sulla disperazione altrui. Dalla Bibbia – poderoso esempio di fanatico attaccamento alle leggi di vita della tribù etnica – fino alle recenti e tragiche guerre etniche sul nostro stesso suolo europeo (provocate, per altro, proprio dalla sciagurata politica titina di fondere e confondere i popoli in nome del rinnegamento ideologico del valore-nazione), non si era mai visto un tale metodico disegno di smantellamento dei fondamenti su cui ogni popolo sano si aspetta di veder riconosciuti i suoi diritti alla vita.

Renato del Ponte, La città degli dei. La tradizione di Roma e la sua continuità A Roma, la cittadinanza non era un coccio da mettere in mano a chicchessia, a casaccio. Era un titolo di appartenenza rigidamente regolato da severe leggi che durarono secoli e che per secoli garantirono che per “Roma” si intendesse qualcosa di preciso e non altro. A Roma, per avere il diritto di suffragium bisognava essere almeno figli di padre romano (diversamente da Atene, dove Pericle impose la necessità di essere figli di entrambi i genitori ateniesi), oppure facenti parte della comunità di diritto dei popoli latini, quei popoli, cioè, che “appartenevano ad una sola stirpe nazionale”. Lo ius sanguinis e lo ius soli sancivano la corrispondenza tra popolo e suolo, la terra su cui quello stesso popolo da sempre nasce, vive e lavora. Secondo la costituzione di Servio Tullio, di durata secolare, si era cittadini romani solo se iscritti in una delle cinque classi in cui era suddiviso il popolo, e si potevano portare le armi (il diritto più alto del cittadino) solo se si possedeva terra: esemplificazione di come, allora, si intendesse non eliminabile il contatto tra la cittadinanza, i suoi doveri di auto-difesa e il radicamento al suolo.

Andrea Carandini, Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani (775/750 - 700/675 a.C. circa) Inoltre, il diritto di connubium era ristretto ai cittadini di Roma, a quelli delle colonie latine e delle altre città italiche federate. La riforma di Tiberio Gracco rinsaldò ulteriormente questo legame tra la cittadinanza e la terra. Con Augusto la cittadinanza fu estesa a tutti gli italici indistintamente. E con ciò si raggiunse il tetto massimo. Fu il riconoscimento romano dell’idea moderna di nazionalità. Ci volle un Caracalla, passato alla storia certo non per le sue doti di geniale statista, unito alla mal concepita idea di universalismo (che è cosa ben diversa dalla universalità di Roma e che, allora come oggi, nascondeva interessi economici molto concreti: il rastrellamento di soggetti tassabili), perché l’Impero ricevesse una spinta decisiva verso il crollo e il caos finali, attraverso l’introduzione della cittadinanza a tutti i sudditi senza distinzione. Oggi di Caracalla non ce n’è uno solo. Ce ne sono molti. Un’intera oligarchia di Caracalla. Manca invece un Macrino. E intanto l’Impero, l’Europa in cui viviamo da duemilacinquecento anni, affonda velocemente nel fango degli astratti diritti universali.

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Tratto da Linea del Lunedì del 5 gennaio 2004.

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