Dioniso o le beatitudini ritrovate

Epifanie ed occultamenti di un dio “nato due volte”

Fidia, Dioniso. Figura D del frontone est del Partenone (ca. 447-433 a.C.)
Fidia, Dioniso. Figura D del frontone est del Partenone (ca. 447-433 a.C.)

Dopo più di un secolo di ricerche, Dioniso resta ancora un enigma. Per l’origine, la sua natura, e il tipo di esperienza religiosa cui dà l’avvio, si distingue dagli altri grandi dèi greci. Secondo il mito, è figlio di Zeus e di una principessa, Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe. Mossa dalla gelosia, Era le tende un tranello e Semele chiede a Zeus di poterlo contemplare nella sua vera forma di dio celeste. L’incauta viene incenerita, avendo partorito prima del tempo. Ma Zeus cuce il bambino nella sua coscia, e dopo qualche mese Dioniso viene al mondo. È proprio ‘nato due volte’. Molti miti delle origini fanno derivare i fondatori di famiglie reali dall’unione tra dèi e donne mortali. Ma Dioniso è nato la seconda volta da Zeus, perciò lui è solo dio [1].

P. Kretschmer ha cercato di spiegare il nome di Semele con il termine traco-frigio Semelo, che indica la dea Terra, e questa etimologia è stata accettata da studiosi di chiara fama come Nilsson e Wilamowitz. Ma tale etimologia, sia o non sia corretta, non aiuta affatto nella comprensione del mito. Innanzitutto è difficile concepire uno hieros gamos tra il dio celeste e la Terra Madre che si concluda con la combustione di quest’ultima. D’altra parte, e questo è il punto essenziale, le più antiche tradizioni mitologiche insistono sul fatto che Semele, mortale [2], abbia generato un dio. Era proprio questa dualità paradossale di Dioniso a interessare i greci, perché essa sola poteva spiegare il paradosso della sua natura.

Nato da una mortale, Dioniso non apparteneva di diritto al pantheon degli dèi olimpici; ma riuscì, nonostante questo, a farvisi accettare e alla fine ad introdurvi anche sua madre Semele. Omero lo conosceva, come dimostrano molti accenni nelle sue opere, ma né il rapsodo né il suo pubblico s’interessavano a questo dio ‘straniero’, così diverso dagli Olimpî. È stato tuttavia proprio Omero a trasmetteci la testimonianza più antica su Dioniso. Nell’Iliade (VI, 128-140) si riporta un celebre episodio: l’eroe tracio Licurgo insegue le nutrici di Dioniso, «e tutte insieme gettarono a terra gli strumenti del loro culto», mentre il dio «assalito da spavento, balzò nei flutti del mare e Teti lo ricevette nel suo seno tremante: un brivido terribile l’aveva colto alle urla del guerriero». Ma Licurgo «si attirò la collera degli dèi»: Zeus «lo rese cieco», ed egli non visse più a lungo «perché si era inimicato tutti gli dèi immortali».

Possiamo scorgere in questo episodio, in cui si parla di un inseguimento da parte di un ‘uomo lupo’ e di un tuffo nel mare, il ricordo di un antico sfondo iniziatico [3]. Tuttavia all’epoca in cui Omero lo cita, il senso e lo scopo del mito sono diversi. Esso ci rivela uno dei tratti specifici del destino di Dioniso, la sua ‘persecuzione’ da parte di personaggi antagonisti. Ma il mito testimonia anche che Dioniso è riconosciuto come membro della famiglia divina, perché non solo Zeus, suo padre, ma anche tutti gli altri dèi si sentirono lesi dal gesto di Licurgo.

La ‘persecuzione’ esprime in modo drammatico la resistenza contro la natura e il messaggio religioso del dio. Perseo si rivolse con il suo esercito contro Dioniso e contro le ‘donne del mare’ che l’accompagnavano; secondo un’altra tradizione, egli gettò il dio in fondo al lago di Lerna (Plutarco, De Iside, 35); e lo stesso tema della persecuzione si ritrova nelle Baccanti di Euripide. Si è tentato di interpretare tali episodi come ricordi mitizzati dall’opposizione incontrata dal culto dionisiaco. La teoria che ne sta alla base presuppone che Dioniso sia arrivato molto tardi in Grecia e che, implicitamente, sia un dio ‘straniero’. Dopo Erwin Rohde, la maggioranza degli studiosi considera Dioniso come un dio tracio introdotto in Grecia o direttamente dalla Tracia, oppure dalla Frigia. Walter Otto ha però insistito sul carattere arcaico e pan-ellenico di Dioniso, e il fatto che il suo nome -di-wo-nu-so-jo- si ritrovi in un’iscrizione micenea [4] sembra dargli ragione. D’altra parte non è meno vero che Erodoto (II, 49) considerava Dioniso come un dio «introdotto tardivamente»; e nelle Baccanti (v. 219) Penteo parlava di «quel dio venuto più tardi, chiunque esso sia».

Qualunque sia la storia della penetrazione del culto dionisiaco in Grecia, i miti e i frammenti mitologici che alludono all’opposizione da esso incontrata hanno un significato più profondo: ci ragguagliano allo stesso tempo sull’esperienza religiosa dionisiaca e sulla struttura specifica del dio. Dioniso doveva incontrare resistenza e persecuzioni, perché l’esperienza religiosa da lui propugnata minacciava tutto uno stile d’esistenza e un universo di valori. Si trattava certo della supremazia insidiata della religione olimpica e delle sue istituzioni, ma l’opposizione tradiva anche un dramma più intimo, e che è del resto ampiamente attestato nella storia delle religioni: la resistenza contro ogni forma di esperienza religiosa assoluta, che si può effettuare solo negando il resto (qualunque nome gli si dia: equilibrio, personalità, coscienza, ragione, ecc.).

Walter Otto ha colto molto bene la correlazione tra il tema della ‘persecuzione’ di Dioniso e la tipologia delle sue diverse epifanie. Dioniso è un dio che si mostra improvvisamente e che scompare poi in modo misterioso. Alle feste Agrionie di Cheronea, le donne lo cercavano invano, e ritornavano con la notizia che il dio era presso le Muse, che l’avevano nascosto (Otto, Dionysos, p. 79). Scompariva tuffandosi nel lago di Lerna o nel mare, e riappariva -come nella festa delle Antesterie- in una barca sui flutti. Le allusioni al suo ‘risveglio’ in culla (ibidem, p. 82 ss) indicano il medesimo tema mitico. Queste epifanie e questi occultamenti periodici collocano Dioniso tra gli dèi della vegetazione [5]. In effetti egli mostra una certa affinità con la vita delle piante; l’edera e il pino sono quasi diventati suoi attributi, e le sue feste più popolari s’inseriscono nel calendario agricolo. Ma Dioniso è in rapporto con la totalità della vita, come mostrano le sue relazioni con l’acqua e i germi, il sangue o lo sperma, gli eccessi di vitalità che si manifestano nelle sue epifanie animali (toro, leone, capro) [6]. Le sue comparse e scomparse inattese riflettono in certo qual modo l’apparizione e l’occultamento della vita e della morte e, in ultima analisi, la loro unità. Non si tratta però di un’osservazione ‘obiettiva’ di questo fenomeno cosmico la cui banalità non poteva suscitare nessuna idea religiosa, né produrre alcun mito. Attraverso le sue epifanie e le sue occultazioni, Dioniso rivela il mistero e la sacralità dell’unione tra la vita e la morte. Rivelazione di natura religiosa, perché si realizza grazie alla presenza stessa del dio. Infatti queste apparizioni e scomparse non sono sempre in relazione con le stagioni: Dioniso si mostra durante l’inverno, e scompare nella stessa festività primaverile in cui si realizza la sua epifania più trionfale.

‘Scomparsa’ e ‘occultamento’ sono espressioni mitologiche della discesa agl’Inferi, dunque della ‘morte’. In effetti a Delfi si mostrava la tomba di Dioniso e anche ad Argo si parlava della sua morte. D’altronde, quando nel rituale argolico Dioniso è richiamato dal fondo del mare (Plutarco, De Iside, 35), riemerge proprio dal paese dei morti. Secondo un inno orfico (n. LIII), quando Dioniso è assente si ritiene ch’egli si trovi presso Persefone. Ed infine il mito di Zagreus-Dioniso -di cui ci occuperemo tra poco- narra della morte violenta del dio; ucciso, smembrato e divorato dai Titani.

Tali aspetti, multipli, ma complementari di Dioniso, sono ancora percepibili nei suoi rituali pubblici, malgrado le inevitabili ‘purificazioni’ e reinterpretazioni.

L’arcaicità di alcune feste pubbliche

A partire da Pisistrato, si celebravano ad Atene quattro feste in onore di Dioniso [7]. Le ‘Dionisie campestri’, che si svolgevano in dicembre, erano feste dei villaggi e consistevano nel portare in processione un fallo di grandi dimensioni con accompagnamento di canti. Cerimonia tipicamente arcaica e ampiamente diffusa in tutto il mondo, la falloforia ha certamente preceduto il culto di Dioniso. Altri divertimenti rituali prevedevano gare e contese, e soprattutto sfilate di maschere o di personaggi travestiti da animali. Anche qui i riti hanno preceduto Dioniso, ma si può intuire come il dio del vino sia giunto a mettersi alla testa del corteo di maschere.

Molto di meno sappiamo invece sulle feste lenee, che si svolgevano in pieno inverno. Una citazione di Eraclito precisa che la parola Lenai e il verbo ‘far le Lenai’ venivano usati come equivalenti di ‘baccanti’ e di ‘fare la baccante’. Il dio era evocato mediante il daduchos. Secondo una glossa di un verso di Aristofane, il sacerdote eleusino, «con una torcia in mano, esclama: Chiamate il dio! e gli astanti gridano: Figlio di Semele, Iacchos [8], dispensatore di ricchezze!».

Le Antesterie erano celebrate approssimativamente in febbraio-marzo, e le ‘Grandi Dionisie’, d’istituzione più recente, in marzo-aprile. Tucidide (II, 15, 4) considerava le Antesterie la più antica festa in onore di Dioniso. Era anche la più importante. Il primo giorno si chiamava Pithoigia, apertura dei vasi d’argilla (pithoi) nei quali si conservava il vino dopo il raccolto autunnale. Si portavano i vasi al santuario di ‘Dioniso della palude’ per compiere le libagioni al dio, e in seguito si gustava il vino nuovo. Nel secondo giorno (Choes, le brocche) si svolgeva una gara di bevitori: erano forniti di una brocca che veniva riempita di vino e, al segnale, ne trangugiavano il contenuto il più velocemente possibile. Proprio come certe gare delle ‘Dionisie campestri’ (per esempio l’askoliasmos, in cui i giovani cercavano di mantenersi il più a lungo possibile in equilibrio su di un otre previamente oliato), anche questa competizione si articola nello scenario ben noto delle gare e dei giochi di ogni specie (sportivi, oratorî, ecc.) che tende al rinnovamento della vita [9]. Ma l’euforia e l’ebbrezza anticipano in un certo qual modo la vita di un aldilà che non assomiglia più al triste mondo omerico.

Lo stesso giorno delle Choes si formava un corteo che raffigurava l’arrivo del dio nella città. Poiché si riteneva venisse dal mare, il corteo comprendeva una barca trasportata su quattro ruote di carro, in cui si trovava Dioniso con un grappolo d’uva in mano e due satiri nudi che suonavano il flauto. La processione comprendeva parecchi personaggi probabilmente mascherati, e un toro sacrificale preceduto da un suonatore di flauto e da portatori di ghirlande che si dirigevano verso l’unico santuario aperto quel giorno, l’antico Limnaion. Là si svolgevano diverse cerimonie, a cui partecipavano la Basilimna, la ‘Regina’ cioè la moglie dell’Arconte-Re, e quattro dame di alto rango. A partire da questo momento, la Basilimna, erede delle antiche regine della città, era considerata la sposa di Dioniso. Saliva accanto a lui nel carro e un nuovo corteo, di tipo nuziale, si dirigeva verso il Boukoleion, l’antica residenza reale. Aristotele precisa (Cost. di Atene, 3, 5) che la ierogamia tra il dio e la regina si consumava nel Boukoleion (lett. ‘stalla del bue’) e la scelta di questo luogo indica che l’epifania taurina di Dioniso era ancora ben nota.

Si è cercato di interpretare quest’unione in senso simbolico, o supponendo che il dio venisse personificato dall’Arconte. Ma W. Otto sottolinea giustamente l’importanza della testimonianza di Aristotele [10]. La Basilinna riceve il dio nella casa del suo sposo, l’erede dei re – e Dioniso si rivela in quanto re. È probabile che questa unione simboleggi il matrimonio del dio con la città nel suo complesso, con le conseguenze faste che si possono immaginare. Ma è un atto caratteristico di Dioniso, divinità dalle epifanie brutali, che richiede la proclamazione pubblica della sua supremazia. Non si conosce nessun altro culto greco in cui si ritiene che un dio si unisca con la regina.

I tre giorni delle Antesterie, soprattutto il secondo, quello del trionfo di Dioniso, sono però giorni nefasti, perché segnati dal ritorno delle anime dei morti, e insieme a loro dei keres, portatori di influenze malefiche del mondo infero.

A loro era consacrato l’ultimo giorno delle Antesterie. Si pregava per i morti, si preparavano le panspermie, poltiglie di diversi grani cereali che dovevano essere consumate prima del cader della notte. E, arrivata la notte, si gridava: «Fuori i keres/ Finite le Antesterie!». Lo sfondo rituale è ben noto, ed è attestato un po’ ovunque nelle civiltà agricole. I morti e le potenze dell’oltretomba governano la fertilità e le ricchezze, e ne sono i dispensatori. «Dai morti -è scritto in un trattato ippocratico- ci vengono nutrimento, crescita e germe». In tutte le cerimonie a lui dedicate, Dioniso si rivela al tempo stesso il dio della fertilità e della morte. Eraclito (fr. 15) diceva già che «Ade e Dioniso […] sono un’unica e medesima persona».

Abbiamo già ricordato il rapporto di Dioniso con le acque, l’umidità e la linfa vegetale. E dobbiamo anche segnalare i ‘miracoli’ che accompagnano le sue epifanie, o le annunciano: l’acqua che sgorga dalla roccia, i fiumi che si colmano di latte e miele. A Teos, nel giorno della sua festa, una sorgente fa sgorgare vino in abbondanza (Diodoro Siculo, III, 66, 2). A Elide, tre scodelle vuote, lasciate durante la notte in una camera sigillata, all’indomani vengono ritrovate piene di vino (Pausania, VI, 2, 6, 1-2). ‘Miracoli’ di questo tipo sono attestati anche altrove; il più famoso tra questi era quello delle ‘vigne di un giorno’, che fiorivano e producevano uva in poche ore, ‘miracolo’ che avveniva in diversi luoghi, perché ne parlano parecchi autori [11].

Euripide e le orge dionisiache

Simili ‘miracoli’ sono specifici del culto sfrenato ed estatico di Dioniso che riflette l’elemento più originale, e probabilmente più antico, del dio. Nelle Baccanti di Euripide troviamo una testimonianza inestimabile di ciò che ha potuto rappresentare l’incontro tra il genio greco e il fenomeno delle orge dionisiache. Lo stesso Dioniso è il protagonista delle Baccanti, fatto senza precedenti nell’antico teatro greco. Offeso perché il suo culto era ancora ignorato in Grecia, Dioniso arriva dall’Asia con un gruppo di Menadi e si ferma a Tebe, città natale di sua madre. Le tre figlie del re Cadmo negano che la loro sorella, Semele, sia stata amata da Zeus e che abbia generato un Dio. Dioniso le rende ‘folli’ e le sue zie, con le altre donne di Tebe, corrono verso la montagna a celebrarvi riti orgiastici. Penteo, che era succeduto al trono a suo nonno Cadmo, aveva proibito il culto e, malgrado gli avvertimenti ricevuti, si ostinava nella sua intransigenza. Travestito da officiante del proprio culto, Dioniso è catturato e imprigionato da Penteo. Ma riesce miracolosamente a fuggire e persino a persuadere Penteo ad andare a spiare le donne durante le loro cerimonie orgiastiche. Le Menadi scoprono così Penteo e lo fanno a pezzi: sua madre Agave ne porta in trionfo la testa, credendo che si tratti della testa di un leone [12].

Qualunque fosse l’intento di Euripide nello scrivere le Baccanti, questo capolavoro della tragedia greca costituisce nello stesso tempo anche il documento più importante del culto dionisiaco, in cui il tema «resistenza, persecuzione e trionfo» trova la sua illustrazione più evidente [13]. Penteo si oppone a Dioniso perché è uno «straniero, un predicatore, un mago […] dai bei boccoli biondi e profumati, guance di rosa, con negli occhi la grazia di Afrodite. Con il pretesto di insegnare le dolci e seducenti pratiche dell’evoé, corrompe le fanciulle» (233 ss). Le donne vengono incitate ad abbandonare la loro casa e a correre, la notte, per i monti, danzando al suono dei timpani e dei flauti. E Penteo teme soprattutto l’influenza del vino, perché «con le donne, se il liquor d’uva figura sulla mensa, non promette nulla di buono in queste devozioni» (260-262).

Tuttavia non è il vino a provocare l’estasi delle baccanti. Un servo di Penteo, che le aveva sorprese all’alba sul Citerone, le descrive vestite di pelli di cerbiatto, coronate d’edera, cinte di serpenti, che recavano in braccio, allattandoli, cerbiatti o lupacchiotti selvatici (695 ss.). Abbondano i ‘miracoli’ tipicamente dionisiaci: le baccanti toccano la roccia con i loro tirsi e subito ne scaturisce l’acqua o ne sgorga il vino; grattano la terra e trovano polle di latte, mentre i tirsi cinti d’edera stillano gocce di miele (703 ss.) «Certo -continua il servo- se tu fossi stato là, questo dio che tu disprezzi, ti saresti convertito a lui, rivolgendogli le tue preghiere, dopo un tale spettacolo» (712-714).

Sorpreso da Agave, poco mancò che il servo e i suoi compagni venissero dilaniati. Le baccanti si gettarono allora sugli animali che pascolano nel prato e, «senza nessun ferro in mano» li fanno a brani. «Sotto l’opera delle mille mani delle fanciulle», tori minacciosi sono dilaniati in un batter d’occhio. Le Menadi si abbattono in seguito sulla pianura. «Vanno a strappar via i bambini dalle case. Tutto ciò che si caricano sulle spalle, pur senza esservi attaccato, vi aderisce senza cadere nel fango; anche il bronzo, anche il ferro. Sui loro boccoli il fuoco trascorre senza bruciare. Infuriati per essere stati assaliti dalle baccanti, si corre alle armi. Ed ecco il prodigio che tu, Signore, avresti dovuto vedere: le frecce che si lanciavano contro di loro non facevano sgorgare sangue, ed esse, scagliando il loro tirso, li ferivano…» (754-763).

Inutile sottolineare la differenza tra questi riti notturni, sfrenati e selvaggi, e le feste dionisiache pubbliche, di cui abbiamo parlato prima. Euripide ci presenta un culto segreto, specifico dei Misteri. «Che cosa sono, secondo te, questi Misteri?» s’informa Penteo. E Dioniso risponde: «La loro segretezza vieta di comunicarli a coloro che non sono baccanti». «Qual è la loro utilità per coloro che li celebrano?» – «Non ti è lecito apprenderlo, ma sono cose degne di essere conosciute» (470-474).

Il Mistero era costituito dalla partecipazione delle baccanti all’epifania totale di Dioniso. I riti vengono celebrati di notte, lontano dalla città, sui monti e nelle foreste. Attraverso il sacrificio della vittima per squartamento (sparagmos) e la consumazione della carne cruda (omofagia) si realizza la comunione con il dio, perché gli animali fatti a brani e divorati sono epifanie, o incarnazioni, di Dioniso. Tutte le altre esperienze -la forza fisica eccezionale, l’invulnerabilità al fuoco e alle armi, i ‘prodigi’ (l’acqua, il vino, il latte che scaturiscono dal suolo), la ‘dimestichezza’ con i serpenti e i piccoli delle bestie feroci- sono resi possibili dall’entusiasmo, dall’identificazione con il dio. L’estasi dionisiaca significa anzitutto il superamento della condizione umana, la scoperta della liberazione totale, il raggiungimento di una libertà e di una spontaneità inaccessibili ai mortali. Che tra queste libertà ci sia stata anche la liberazione dalle proibizioni, dalle regole e dalle convenzioni di tipo etico e sociale, sembra essere certo; e questo spiega in parte l’adesione massiccia delle donne [14]. L’esperienza dionisiaca però raggiungeva livelli più profondi. Le baccanti che divoravano le carni crude ritornavano a un coportamento rimosso da decine di migliaia di anni; sfrenatezze di questo tipo rivelavano una comunione con le forze vitali e cosmiche che si poteva interpretare soltanto come una possessione divina. E non stupisce che la possessione sia stata confusa con la ‘follia’, la mania. Dioniso stesso aveva conosciuto la ‘follia’, e la baccante si limitava a condividere le prove e la passione del dio, e questo era, in definitiva, uno dei mezzi più sicuri per comunicare con lui.

I Greci conoscevano altri casi di mania provocata da una divinità. Nella tragedia Eracle di Euripide, la follia dell’eroe è opera di Era: nell’Aiace di Sofocle è Atena a produrre lo sconvolgimento psichico. Il ‘coribantismo’, che gli antichi del resto accostavano alle orge dionisiache, era una mania provocata dalla possessione dei Coribanti, e tale esperienza sfociava in una vera e propria iniziazione. Ciò che tuttavia contraddistingue Dioniso e il suo culto non sono le crisi psicopatiche, ma il fatto che esse fossero valorizzate in quanto esperienza religiosa: sia come una punizione sia come una grazia del dio [15]. In ultima analisi, l’interesse di un confronto tra riti e movimenti collettivi apparentemente similari -per esempio certe danze sfrenate del Medioevo o l’omofagia rituale degli Aissaua, una confraternita mistica dell’Africa del Nord [16]- sta nel fatto che esso fa emergere l’originalità del dionisismo.

È raro che un dio giunga all’epoca storica pregno di un’eredità così arcaica; riti con maschere teromorfiche, falloforia, sparagmos, omofagia, antropofagia, mania, enthousiasmos. Il fatto più notevole è che, pur conservando quest’eredità, residuo della preistoria, il culto di Dioniso, dopo essersi integrato nell’universo spirituale dei Greci, non ha cessato di creare nuovi valori religiosi. Certo, la frenesia provocata dalla possessione divina -la ‘follia’- dava da pensare a molti autori, e spesso incoraggiava l’ironia e la derisione. Erodoto (IV, 78-80) riferisce l’avventura di un re scita, Skylas, che si era fatto «iniziare ai riti di Dioniso Baccheios» a Olbia sul Boristene (Dniepr). Durante la cerimonia (telete), posseduto dal dio, faceva «il baccante e il folle». Con molta probabilità si trattava di una processione in cui gli iniziati, «sotto il dominio del dio» si lasciavano trascinare da una frenesia che gli astanti, e anche gli stessi posseduti, consideravano come ‘follia’ (mania).

Erodoto si limitava a riferire una storia che gli era stata raccontata a Olbia. Demostene, con l’intenzione di mettere in ridicolo il suo avversario Eschine, ci rivela però in realtà, in un suo celebre passo (Sulla corona, 259), certi riti dei piccoli tiasi (Bacchein) celebrati, nell’Atene del IV secolo, dai fedeli di Sabazios, dio tracio omologo di Dioniso. (Gli antichi lo consideravano d’altra parte come Dioniso tracio nel suo nome indigeno) [17]. Demostene si riferisce ai riti seguiti da letture di ‘libri’ (probabilmente un testo scritto, contenente hieroi logoi); parla di ‘nebrizzare’ (allusione alla pelle del cerbiatto, la nebride; si trattava forse di un sacrificio con la consumazione dell’animale crudo), di ‘craterizzare’ (il bacile in cui si mescolavano l’acqua e il vino, la ‘pozione mistica’), di ‘purificazione’ (catharmos), consistente in specie nello sfregare l’iniziato con argilla e farina. Alla fine l’accolito faceva rialzare l’iniziato dalla sua posizione prona o supina, e questi ripeteva la formula: «Sono sfuggito al male e ho trovato il meglio». E tutta l’assemblea esplodeva in ololyge. All’indomani si svolgeva la processione degli adepti, col capo coronato di finocchio e di fronde di pioppo bianco. In testa camminava Eschine brandendo serpenti e gridando: «Evoé, misteri di Sabazios!», e danzando al grido di Hyés, Attés, Attés, Hyés. Demostene parla anche di un cesto di forma di vaglio, il liknon, il ‘vaglio mistico’, la culla primitiva di Dioniso bambino.

Sotto le forme più diverse si trova comunque, al centro del rituale dionisiaco, un’esperienza estatica di una frenesia più o meno intensa: la mania. Questa ‘follia’ costituiva in qualche modo la prova della ‘divinizzazione’ (entheos) dell’adepto. L’esperienza era certamente indimenticabile, perché si partecipava alla spontaneità creatrice e alla libertà inebriante, alla forza sovrumana e all’invulnerabilità di Dioniso. La comunione con il dio faceva esplodere per un certo tempo la condizione umana, ma non giungeva affatto a cambiarla. Non ci sono allusioni all’immortalità nelle Baccanti, neppure in un’opera tardiva come le Dionisiache di Nonno. Ciò è sufficiente a distinguere Dioniso da Zalmoxis, con cui lo si confronta, e a volte lo si confonde, in seguito agli studi di Rohde; infatti questo dio dei Geti ‘immortalizzava’ gli iniziati nei suoi misteri. Ma i Greci non ardivano ancora colmare la distanza infinita che, ai loro occhi, separava la divinità dalla condizione umana.

Quando i Greci riscoprirono la presenza del dio…

Pare ormai assodato il carattere iniziatico e segreto dei tiasi privati (v. supra, le Baccanti 470-474) [18], benché almeno una parte delle cerimonie (per esempio le processioni) siano state pubbliche. È difficile precisare quando, e in quali circostanze, i riti segreti e iniziatici dionisiaci abbiano assunto la funzione specifica alle religioni dei Misteri. Eminenti studiosi quali Nilsson e Festugière contestano l’esistenza di un Mistero dionisiaco, perché mancano precisi riferimenti alla speranza escatologica. Ma si potrebbe obiettare che, soprattutto per il periodo antico, disponiamo di scarsissime conoscenze dei riti segreti, per non dire poi del loro significato esoterico (che senza dubbio esisteva, dato che i significati esoterici dei riti segreti sono attestati ovunque nel mondo, a tutti i livelli di cultura).

Non si deve inoltre limitare la morfologia della speranza escatologica alle espressioni rese familiari dall’orfismo o dai Misteri dell’epoca ellenistica. L’occultamento e l’epifania di Dioniso, le sue discese agli Inferi (paragonabili a una morte seguita da risurrezione) e soprattutto il culto di Dioniso fanciullo [19], con riti celebranti il suo risveglio -pur tralasciando il tema mitico rituale di Dioniso-Zagreus, su cui ritorneremo tra breve- indicano la volontà, e la speranza, di un rinnovamento spirituale. Il fanciullo divino è pregno, in tutto il mondo, di un simbolismo iniziatico relativo al mistero di una ‘rinascita’ d’ordine mistico. (Per l’esperienza religiosa è più o meno indifferente che tale simbolismo sia o non sia ‘compreso’ intellettualmente). Ricordiamo che il culto di Sabazios, identificato con Dioniso, presentava già la struttura di un mistero («Sono sfuggito al male!»). È vero che le Baccanti non parlano d’immortalità, ma la comunione, anche se provvisoria, con il dio non mancava di influire sulla condizione post mortem del bacchos. La presenza di Dioniso nei Misteri d’Eleusi fa supporre il significato escatologico perlomeno di alcune esperienze orgiastiche.

Il carattere ‘misterico’ del culto si precisa soprattutto a partire da Dioniso-Zagreus. Il mito dello smembramento del fanciullo Dioniso-Zagreus ci è pervenuto soprattutto attraverso autori cristiani [20]. Come prevedibile, essi ce lo presentano evemerizzato, incompleto e in modo piuttosto tendenzioso. Ma proprio perché erano liberi dalla proibizione di parlare apertamente di cose sante e segrete, gli scrittori cristiani ci hanno comunicato molti particolari preziosi. Era invia i Titani, che attirano Dioniso-Zagreus con alcuni balocchi (ninnoli, crepundia, uno specchio, un gioco di aliossi, una palla, una trottola, un rombo), lo massacrano e lo fanno a pezzi. Fanno cuocere i pezzi in un calderone e, secondo certe versioni, lo divorano. Una dea -Atena, Rea o Demetra- riceve, o salva, il cuore e lo pone in un cofanetto. Venuto a sapere del delitto, Zeus folgora i Titani. Gli autori cristiani non accennano alla resurrezione di Dioniso, ma questo episodio era noto agli antichi. L’epicureo Filodemo, contemporaneo di Cicerone, parla delle tre nascite di Dioniso, «la prima da sua madre, la seconda dalla coscia e la terza quando, dopo lo squartamento da parte dei Titani, ritorna in vita dopo che Rea ne ha ricomposto le membra» [21]. Firmico Materno conclude aggiungendo che a Creta (dov’egli ambienta la sua storia evemerizzata) l’assassinio veniva commemorato da riti annuali, che ripetevano ciò che il «fanciullo aveva compiuto e subìto al momento della morte»: «nel profondo della foresta, emettono strani clamori e simulano la follia di un essere furioso», facendo credere che il delitto è stato compiuto in preda a follia e «dilaniano coi denti un toro vivo».

Il tema mitico-rituale della passione e risurrezione del fanciullo Dioniso-Zagreus ha suscitato interminabili controversie, soprattutto a causa delle sue interpretazioni ‘orfiche’. In questa sede è sufficiente precisare che le informazioni trasmesse dagli autori cristiani sono confermate dagli autori più antichi. Il nome di Zagreus viene menzionato per la prima volta in un poema epico del ciclo tebano, Alcmeone (VI secolo) [22] e significa ‘gran cacciatore’, in riferimento al carattere selvaggio e orgiastico di Dioniso. Per quanto riguarda il delitto dei Titani, Pausania (VIII, 37, 5) ci ha trasmesso un’informazione che resta preziosa, malgrado lo scetticismi di Wilamowitz e di altri studiosi: Onomacrito, che viveva ad Atene nel VI secolo, al tempo dei Pisistrati, aveva scritto un poema sul seguente soggetto: «Avendo desunto il nome dei Titani da Omero, aveva fondato alcune orgia di Dioniso, facendo dei titani gli autori delle sofferenze del dio». Secondo il mito, i Titani si erano avvicinati al fanciullo divino impiastricciati di gesso per non essere riconosciuti. Orbene, nei misteri di Sabazios celebrati ad Atene, uno dei riti iniziatici consisteva nel cospargere i candidati con una polvere o con del gesso [23] e questi due fatti sono stati accostati sin dall’antichità (cfr. Nonno, Dionys., XXVII, 228 ss.). Si tratta di un rituale arcaico d’iniziazione, ben noto nelle società ‘primitive’: i novizi si sfregano sul viso polvere o cenere, allo scopo di assomigliare ai fantasmi; in altri termini, subiscono una morte rituale. Per quanto riguarda i ‘balocchi mistici’, essi erano conosciuti già da tempo; in un papiro del II secolo a. C., trovato a Fayyûm (Gouroub), disgraziatamente mutilo, si citano la trottola, il rombo, gli aliossi e lo specchio (Orf. Fr., 31).

L’episodio più drammatico del mito -e cioè il fatto che, dopo aver squartato il fanciullo, i Titani ne abbiano gettato i pezzi in un calderone, dove li hanno fatti bollire e poi arrostire- era noto, in tutti i suoi particolari, già nel IV secolo e, fatto ancor più significativo, si ricordavano questi particolari in relazione con la ‘celebrazione dei Misteri’ [24]. Jeanmaire aveva opportunamente ricordato che la cottura in pentola o il passaggio attraverso il fuoco costituiscono riti iniziatici che conferiscono l’immortalità (cfr. l’episodio di Demeter e Demofonte) o il ringiovanimento (le figlie di Peleo fanno a pezzi il padre e lo cuociono in una pentola) [25]. Aggiungiamo che i due riti -smembramento e cottura o passaggio attraverso il fuoco- caratterizzano le iniziazioni sciamaniche.

Nel ‘delitto dei Titani’ si può dunque riconoscere un antico scenario iniziatico di cui si era perduto il significato originario. I Titani si comportano da Maestri d’iniziazione, vale a dire ‘uccidono’ il novizio, allo scopo di farlo ‘ri-nascere’ a un tipo superiore di esistenza (nel nostro esempio si potrebbe dire che essi conferiscono divinità e immortalità al fanciullo Dioniso). Ma, in una religione che proclamava la supremazia assoluta di Zues, i Titani potevano svolgere soltanto un ruolo demoniaco – e perciò furono fulminati. Secondo alcune varianti, gli uomini sono stati creati dalle loro ceneri – e questo mito ha svolto un ruolo considerevole nell’orfismo.

Il carattere iniziatico dei riti dionisiaci si può scorgere anche a Delfi, quando le donne celebravano la rinascita del dio. Infatti il vaglio delfico «conteneva un Dioniso smembrato e pronto a rinascere, uno Zagreus», come dice Plutarco (De Iside, 35), e questo Dioniso «che rinasceva come Zagreus era allo stesso tempo il Dioniso tebano, figlio di Zeus e di Semele» [26].

Diodoro Siculo sembra riferirsi ai Misteri dionisiaci, quando scrive che «Orfeo ha trasmesso nelle cerimonie dei misteri lo smembramento di Dioniso» (V, 75, 4). E in un altro passo Orfeo viene presentato come un riformatore dei Misteri dionisiaci: «È per questo che le iniziazioni dovute a Dioniso sono chiamate orfiche» (III, 65, 6). La tradizione trasmessa da Diodoro è preziosa in quanto conferma l’esistenza dei Misteri dionisiaci. Ma è probabile che già nel V secolo questi Misteri avessero mutuato alcuni elementi ‘orfici’, e in effetti Orfeo era proclmato «profeta di Dioniso» e «fondatore di tutte le iniziazioni» (v. cap. XIX, vol. II).

Più ancora degli altri dèi greci, Dioniso sorprende per la molteplicità e la novità delle sue epifanie, per la varietà delle sue trasformazioni. È in perenne movimento; penetra ovunque, in tutti i paesi, presso tutti i popoli, in tutte le religioni, pronto ad associarsi a divinità diverse, anzi perfino antagoniste (per esempio Demetra, Apollo). È, senza dubbio, l’unico dio greco che, rivelandosi sotto aspetti differenti, affascina e attrae tanto i contadini che le élites intellettuali, i politici e i contemplativi, gli orgiastici e gli asceti. L’ebbrezza, l’erotismo, la fertilità universale, ma anche le esperienze indimenticabili suscitate dal ritorno periodico dei morti, o dalla mania, dallo sprofondare nell’incoscienza animale o dall’estasi dell’enthousiasmos – tutti questi terrori e rivelazioni hanno un’unica origine: la presenza dei dio. La sua natura esprime l’unità paradossale della vita e della morte. Per questo, Dioniso costituisce un tipo di divinità radicalmente diverso dagli Olimpî. Era forse, tra tutti gli dèi, il più vicino agli uomini? In ogni caso ci si poteva avvicinare a lui, si giungeva a incorporarlo, e l’estasi della mania dimostrava che la condizione umana poteva essere oltrepassata.

Questi rituali erano suscettibili di sviluppi inattesi. Il ditirambo, la tragedia, il dramma satirico sono, in modo più o meno diretto, creazioni dionisiache. È appassionante seguire la trasformazione di un rito collettivo, il dithyrambos, implicante la frenesia estatica, in spettacolo e infine in genere letterario [27]. Se, da un lato, certe liturgie pubbliche sono diventate spettacoli e hanno fatto di Dioniso il Dio del teatro, altri rituali invece, segreti e iniziatici, si sono evoluti in Misteri. Perlomeno indirettamente, l’orfismo è debitore alle tradizioni dionisiache. Più di tutti gli altri dèi olimpici, questo dio giovane non cesserà di gratificare i suoi fedeli con nuove epifanie, messaggi inattesi e speranze escatologiche.

Note

[1] Pindaro, fr. 85; Erodoto, II, 146; Euripide, Le Baccanti, 94 ss.; Apollodoro, Bibl., III, 4, 3, ecc.

[2] Iliade, XIV, 323, la definisce «una donna di Tebe», ed Esiodo, Teogonia, 940 ss., una «donna mortale».

[3] Cfr. H. Jeanmaire, Dionysos, p. 76; su Licurgo e le iniziazioni di pubertà, cfr. id., Couroï et Courètes, p. 463 ss.

[4] Si tratta di un frammento di Pilo (X a 0 6) nella lineare B.

[5] Si è cercato di vedere in Dioniso un dio dell’albero, del ‘grano’ o della vite, e si è interpretato il mito del suo smembramento come un’illustrazione della ‘passione’ dei cereali o la preparazione del vino; già i mitografi citati da Diodoro, III, 62.

[6] Cfr. i testi e i riferimenti discussi da W. Otto, pp. 162-164.

[7] Il fatto che queste due feste portassero i nomi dei mesi corrispondenti -Lenaion e Antesterion- dimostra il loro arcaismo e il loro carattere panellenico.

[8] Fu il genio delle processioni dei Misteri eleusini ad essere assimilato a Dioniso; le fonti sono discusse da W. Otto, op. cit., p. 80; cfr. Jeanmaire, op. cit., p. 47.

[9] Ricordiamo che si tratta di uno scenario estremamente arcaico e diffuso ovunque, uno dei principali retaggi della preistoria che svolge ancora un ruolo privilegiato in ogni forma di società.

[10] Si tratta di un’unione completamente diversa da quella, per esempio, di Bel a Babilonia (la compagnia di una ierodula quando il dio si trovava nel tempio) o della sacerdotessa che doveva dormire nel tempio di Apollo a Patara, allo scopo di ricevere direttamente dal dio la saggezza che poi avrebbe rivelato attraverso l’oracolo; cfr. Otto, p. 84.

[11] Sofocle, Tieste (fr. 234) e le altre fonti citate da Otto, p. 98 ss.

[12] Si conoscono altri esempi di ‘follia’ provocata da Dioniso, quando non era riconosciuto come dio: ad esempio, le donne di Argo (Apollodoro, II, 2, 2; III, 5, 2); le figlie di Minia a Orcomeno, che dilaniarono e divorarono uno dei loro figli (Plutarco, Quaest. gr. XXXVIII, 299 e).

[13] Nel V secolo Tebe era diventata il centro del culto, perché là Dioniso era stato generato e là si trovava anche la tomba di Semele. Ciò nondimeno non si era scordata la resistenza dei primi tempi e uno degli insegnamenti delle Baccanti era senz’altro questo: che non si deve rifiutare un dio perché lo si considera ‘nuovo’.

[14] Tiresia difende però il dio: «Dioniso non obbliga le donne ad essere caste. La castità dipende dal carattere, e quella che è casta di natura parteciperà alle orge senza corrompersi» (Bacc., 314 ss.).

[15] Ricordiamo che ciò che distingue uno sciamano da uno psicopatico è il fatto che egli riesce a guarirsi e finisce poi col disporre di una personalità più forte e più creativa del resto della comunità.

[16] Rohde aveva confrontato l’espansione della religione estatica di Dioniso e le epidemie di danze convulsive del Medioevo. R. Eisler richiamò l’attenzione sugli Aissaua (Isawiya), che praticano l’omofagia rituale (chiamata frissa, dal verbo farassa, ‘sbranare’). Dopo essersi identificati misticamente nei carnivori, di cui portano il nome (sciacalli, pantere, leoni, gatti, cani), gli adepti fanno a brani, sventrano e divorano bovini, lupi, montoni, pecore, capre. La manducazione delle carni crude è seguita da una danza sfrenata di giubilo «per gioire ferocemente dell’estasi e comunicare con la divinità» (R. Brunnel).

[17] Secondo le antiche glosse, il termine saboi (o sabaioi) era l’equivalente, in lingua frigia, del greco bacckhos; cfr. Jeanmaire, Dionysos, pp. 95-97.

[18] Ricordiamo che durente la festa delle Antesterie, certi riti erano effettuati unicamente dalle donne, nel segreto più rigoroso.

[19] Il culto di Dioniso fanciullo era conosciuto in Beozia e a Creta, ma finì per diffondersi anche in Grecia.

[20] Firmico Materno, De errore prof. relig., 6; Clemente Alessandrino, Protrept., II, 17, 2; 18, 2; Arnobio, Adv. Nat., V, 19; i testi sono riprodotti in Kern, Orphica fragmenta, pp. 110-111.

[21] De piet., 44; Jeanmaire, p. 382.

[22] Fr. 3, Kinkel I, p. 77; cfr. anche Euripide, fr. 472; per Callimaco (fr. 171) Zagreus è un nome particolare di Dioniso; v. altri e sempi in Otto, p. 191 ss.

[23] Demostene, De cor., 259. Quando partecipavano alle feste dionisiache gli Argivi si impiatsricciavano il viso di gesso. Si sono sottolineati i rapporti tra il gesso (titanos) e i Titani (Titanes), ma questo complesso mitico-rituale fu occasionato proprio dalla confusione tra i due termini (cfr. già Farnell, Cults, V, p. 172).

[24] Cfr. il ‘problema’ attribuito ad Aristotele (Didot, Aristotele, IV, 331, 15), discusso, dopo Salomon Reinach, da Moulinier, p. 51. Nel III secolo, Euforione conosceva una tradizione analoga; ibid., p. 53.

[25] Jeanmaire, Dionysos, p. 387. V. altri esempi in Marie Delcourt, L’Oracle de Delphes, p. 153 ss.

[26] Delcourt, op. cit., pp. 155, 200. Plutarco, dopo aver parlato dello squartamento di Osiride e della sua risurrezione, si rivolge all’amica Clea, la leader delle Menadi di Delfi: «Che Osiride sia la stessa persona di Dioniso, chi potrebbe saperlo meglio di voi che dirigete le Tiadi, che siete stata iniziata da vostro padre e da vostra madre ai misteri di Osiride?»

[27] Il ditirambo, «girotondo destinato, in occasione del sacrificio di una vittima, a produrre l’estasi collettiva con l’aiuto dei movimenti ritmici e di acclamazioni e grida rituali, si è potuto -proprio nel periodo (VII-VI secolo) in cui nel mondo greco si sviluppa la grande lirica corale- evolvere in genere letterario per l’accresciuta importanza delle parti cantate dall’exarchon, per l’alternarsi di brani lirici su temi più o meno adattati alla circostanza e alla persona di Dioniso» (Jeanmaire, op. cit., p. 248 ss.).

da: Storia delle credenze e delle idee religiose, vol. I: Dall’età della pietra ai Misteri Eleusini, tr. it. Sansoni, Firenze 1979, 388-403.

Tratto dal sito In Quiete di Gianfranco Bertagni.

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