Dino Campana, l’ultimo germano

Dino Campana (20 agosto 1885 – 1 marzo 1932)

La celebrazione del 124mo anniversario della nascita di Dino Campana, lo scorso 23 agosto, ci permette di fare il punto su una delle più straordinarie personalità letterarie del Novecento italiano. Anche in questo caso, dobbiamo registrare il lungo lavoro di sabotaggio operato dall’egemonia culturale progressista-comunista, che per decenni ha tenuto basso il tono delle celebrazioni del poeta, ha intralciato riedizioni e convegni, ha in ogni modo cercato di far dimenticare, minimizzare, edulcorare.

Il motivo è presto detto. Campana era in odore di fascismo. Quasi un antesignano. Un pericoloso imperialista. Della cerchia Papini-Soffici, quindi da tenere in sospetto. E poi era un nietzscheano confesso, un ammiratore della cultura tedesca sovrumanista, un wagneriano, un egocentrico titanista, un esempio di irrazionalismo a rotta di collo… insomma, appunto, un fascista. Ma per noi, oggi più che mai, proprio questi sono i connotati che di un semplice poeta fanno un punto fermo ideale, di un letterato un indicatore di valori, di un visionario irrazionale un perfetto ideologo della fuga da questa imbastardita società. Campana fu un irregolare se mai ce ne fu uno. Il tipico vagabondo-viandante fuori e contro la sua epoca, appartenente a un mondo interiore fatto di atavismi e contatti con l’assoluto. E proprio come Nietzsche coltivò un Io dilagante e sofferente, come il tedesco venendo alle prese con una tensione psichica insostenibile, che alla fine lo condusse alla tragica follia. Spregiatore del borghesismo, disgustato dalla decadenza e dalla miseria morale della società del suo tempo, Campana formulò un pensiero traboccante di lampi e visioni. E fece grande poesia. Gettò profondi fasci di luce su un’anima che non ci stava a sfiorire nella mediocrità della decadenza.

Nel bel mezzo del 1914, come nulla fosse, nel pieno della bagarre tra interventisti e socialisti, se ne uscì dedicando il suo capolavoro, gli Inni orfici, uscito a Marradi in prima edizione tipografica e a sue spese, nientemeno che «a Guglielmo II imperatore dei germani». Non basta. A mo’ di sottotitolo si leggeva tra parentesi: «Die Tragödie des letzten Germanien in Italien», come dire: la tragedia dell’ultimo dei germani in Italia. Due colpi in uno. Il primo è la dedica al Kaiser nel momento in cui il germanesimo veniva vissuto dai nazionalisti come ostile: a torto, poiché la Prussia fu sempre amica del nostro Risorgimento e ad esempio a Bismarck si dovette se il Veneto diventò italiano nel 1866, nonostante la sconfitta italiana. Ma, comunque, così era e gli interventisti non andavano tanto per il sottile, equiparando il Kaiser austriaco, nostro secolare nemico, a quello tedesco, nostro secolare alleato. Quindi, dedica enigmatica e provocatoria, intorno alla quale i critici si sono a lungo arrovellati. Poi, col secondo richiamo, Campana si rifà nella scelta delle parole a un immaginario insieme nietzscheano e germanofilo, collocandosi ipso facto al di fuori delle melense tendenze dell’epoca – del tipo della scapigliatura – e ben dentro invece al gesto sovrumanista già celebrato in Italia soprattutto dai romanzi e dalla poesia di D’Annunzio.

Il critico Silvio Ramat scrisse a suo tempo che, col dirsi “l’ultimo germano”, era leggibile in Campana la volontà di segnalare la propria purezza barbarica e originaria, non corrotta dalle derive della società moderna convenzionale, e che era all’opera chiaro e tondo il mito del superuomo, rielaborato con intendimenti non religiosi in senso confessionale, ma mistici, tali da farne un coltivatore di simboli di audacia e di radicalismo. Campana infatti, se non fu uomo d’azione, ma poeta fuori del tempo e spaesato rispetto ai codici borghesi, invocante la notte, l’abissale, il misterico, fu senz’altro un poeta della lotta, della vita sanguigna, della fede fanatica in sé contro tutte le avversità esistenziali. Poesia eroica, la sua, come è stata definita, che veicolava un valore di differenziazione all’epoca assai raro in Italia, e che sinora non è stato abbastanza considerato, soprattutto dal punto di vista di un’ideologia della rivolta contro il mondo moderno. «Guardava al Kaiser – scriveva dunque Ramat introducendo un’edizione Vallecchi degli anni Settanta – come al simbolo coagulante estremo di quella stirpe barbarica, potenzialmente incontaminata alle origini, quale venivano rivelandogliela l’opera grandiosa di Wagner con quella di Nietzsche che ne costituiva l’attivo complemento, da seguire con religioso ardore».

Interrotti gli studi di chimica a Bologna per il precoce sopravvenire di disturbi psichici, afflitto da una costante tensione interiore, Campana fu tuttavia uomo di studi profondi, anche se caotici, conosceva due o tre lingue, sapeva delle novità culturali della sua epoca – ad esempio, seguiva il futurismo, al quale per un periodo fu anche vicino – e in ogni caso si nutrì di Carducci e di Pascoli e, come lui stesso confidò, di Edgar Allan Poe e della musica classica tedesca, di Verdi, di Rossini… era in costante clima di esaltazione, di febbrile accumulo di sensazioni, irrequieto, mai in pace. In questa condizione partoriva di getto la sua poesia, come un subitaneo aprirsi della vena.

Nel dicembre del 1913, dal suo paese natale di Marradi, lontano tra i monti dell’Appennino, si recò a piedi a Firenze passando per i campi, senza dormire, camminando giorno e notte. Giunse in città lacero e allampanato ed entrò alla redazione di “Lacerba”, dove sapeva di poter trovare le punte di lancia della controcultura dell’epoca: Papini e Soffici. Recava con sé un brogliaccio affastellato con il testo manoscritto dei Canti orfici, che consegnò ai due famosi letterati, per averne un giudizio. In quei giorni frequentò il celebre caffè delle “Giubbe Rosse”, cuore della cultura italiana e punto d’incontro delle migliori intelligenze, poi, così com’era venuto, sparì e nessuno lo rivide più in giro per un pezzo. È noto poi che, tornato a Marradi e richiesto a Soffici l’unico esemplare consegnatogli per pubblicarlo, il famoso pittore gli rispose di averlo smarrito… e fu così che il povero Campana, con uno sforzo mnemonico che gli causò un vero trauma, ricompose il suo poemetto a memoria, facendolo stampare a sue spese da un tipografo locale. Ricomparve a Firenze verso l’estate del 1914 quando, con sotto il braccio pacchi del suo libretto, lo si poteva vedere agli angoli delle strade o nei luoghi pubblici regalar copie ai passanti: e a una copia strappava delle pagine, a un’altra altre, a seconda del personaggio più o meno simpatico cui dedicava il suo libro, così, con un fare da matto così bizzarro che a lungo i fiorentini ne serbarono la memoria.

Matto lo fu certamente, ma geniale. Si nutrì di quella follia che spesso è la matrice prima della grandezza che rompe gli schemi acquisiti e crea un nuovo stile. Va detto anche che Campana – come documentò il critico Enrico Falqui, curatore delle sue opere – conobbe a fondo il pensiero dell’esoterista francese di fine Ottocento Édouard Schuré, celebre autore de I grandi iniziati, un libro che fece epoca, subendone un’influenza diretta. In quella filosofia iniziatica di Schuré trovavano punto d’incontro mitemi neo-pagani, misteriosofie orientaleggianti, ma soprattutto un sovrumanismo mistico e faustiano che è rintracciabile con precisione nella poesia di Campana. Lo stesso rimando all’orfismo appartiene a questi influssi. La poesia come accesso al segreto dell’esistere che è prova, lotta anche bella con il tormento, continua tensione al sapere e al volere. E si è voluta vedere l’immagine della notte, che apre gli Inni orfici, proprio come un’elaborazione iniziatica della femminilità, che racchiude in sé tutti gli opposti, la dolcezza e la volgarità, la bellezza e la degradazione, la vergine e la puttana… secondo schemi di unione tra i contrari che impegnerebbe uno Jung non meno della lirica classica: la notte solare, cui si perviene attraverso un’alterazione dei modelli psichici. Nella infuocata e tempestosa relazione con Sibilla Aleramo, lungo pochi mesi alla fine del 1916, si è potuta adombrare anche questa ideologia “olistica”, nel senso di una ricerca di assoluto impossibile al di fuori della costante esaltazione. Tanto che la giovane letterata se ne fuggì da quella gabbia di immagini troppo vorticose anche per lei. Materia incandescente, come questi versi da Spada barbarica, una delle poesie dei Quaderni:

Idolo, nel mio sangue di cristiano
Io sento la vertigine colare
Idolo, il fuoco della distruzione
Mi prende. Sulla vostra testa mozza
Idolo il vostro sangue pagano
Paradisiaco io beverò…

Quello di Campana è davvero un universo di profondità e di vertigine, una psichedelìa ad alto tasso culturale, in grado di racchiudere, per impulso visionario e non per concentrazione razionale, tanta parte della tradizione europea. Nel 1932 Campana, ricoverato presso l’ospedale psichiatrico di Castel Pulci a Badia a Settimo, nei pressi di Firenze, aggredito da una febbre altissima, morì improvvisamente, ponendo fine a un susseguirsi di allucinazioni, deliri di magnetismi e telepatie, squarci di lucidità, e poi di nuovo crisi sensoriali nelle quali si diceva in possesso di poteri straordinari, in grado di suscitare catastrofi, resurrezioni, cataclismi. Venne sepolto nel vicino cimitero di San Colombano da dove, nel 1942, alla presenza di Bottai, Papini, Sironi, Berti, Vallecchi, Rosai e tanti altri, fu traslato nella chiesa di Badia a Settimo, dove ancora si trova sotto una lapide spartana. Piero Bargellini nel 1938, su “Il Frontespizio”, aveva scritto che quella sarebbe stata la sede giusta per il riposo di Campana, poiché Badia a Settimo, monastero fortificato sin dal Medioevo, era antica terra dei Cadolingi, stirpe longobarda feudataria di una vasta zona tra Pistoia e la Val di Pesa. Che forse il poeta pazzo, “l’ultimo germano”, che aveva gli occhi azzurri e la barba rossiccia… che forse Campana, si chiedeva in quello scritto Bargellini, aveva lo stesso sangue della contessa Gasdia oppure della contessa Cilia, nobili germaniche che erano state signore di quelle terre?

* * *

Tratto da Linea del 28 agosto 2009.

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3 Responses

  1. alberto
    | Rispondi

    Trovo scritto:

    … Il primo è la dedica al Kaiser nel momento in cui il germanesimo veniva vissuto dai nazionalisti come ostile: a torto, poiché la Prussia fu sempre amica del nostro Risorgimento e ad esempio a Bismarck si dovette se il Veneto diventò italiano nel 1866, nonostante la sconfitta italiana. …

    Non mi sento di condividere con affetto l'affermazione su riportata, in quanto per noi veneti il Risorgimento Italiano fu una grande disgrazia ancora peggiore della calata del barbaro Corso e molto ma molto più orrenda del ferreo dominio austrungarico.

  2. Ales
    | Rispondi

    Ok. "Die Tragödie des letzten Germanien in Italien" = la tragedia dell'ultima antica Germania in Italia.
    Germania (antica : tutti i popoli germanici) / "Tedeschia" – Germanien / Deutschland,
    un errore dell'italiano e dell'inglese.

  3. Ales
    | Rispondi

    per Alberto: la Prussia non sapeva niente del Risorgimento. In tutta la Deutschland il tedesco era la lingua sia del contadino che del Kaiser e dei Re, con delle corruzioni locali che vengono trascritte diversamente per essere chiamate "dialetti".
    curiosità: Vienna si rifiutò di concedere direttamente il Veneto al "Regno d'Italia" che aveva sconfitto sul campo, ai Prussiani vincitori toccò fare da intermediari.

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