Di nuovo sul libro di Giovanni Sessa

Se il popolo fa cattive scelte, la Repubblica sarà perduta!

(François Boissy d’Anglas)

la-meraviglia-del-nullaTorno nuovamente, a distanza di tempo, sul testo di Giovanni Sessa su Andrea Emo, La meraviglia del nulla, edito da Bietti nel 2014, questa volta per occuparmi delle considerazioni che l’autore ha dedicato al lato politico del pensiero emiano. Il punto decisivo per Emo, messo perfettamente in luce da Sessa, sta nella perdita progressiva di libertà da parte del popolo, a tutto vantaggio di un regime, quello democratico, che della libertà stessa è “mero sogno” (p. 231). Questo perché, essendo per Emo la libertà indisgiungibile dalla potenza, laddove quest’ultima manca, viene meno anche la prima. Ed essendo il popolo privato della potenza, risulterà di conseguenza sempre meno libero. Questa crisi, sempre più accentuata, viene interpretata da Emo in modo originale, facendo cioè perno sulla natura propriamente ‘epidemica’ delle democrazie moderne. Con le parole di Sessa, per Emo “la democrazia ha carattere epi-demico. Il termine va letto nel suo significato etimologico: la democrazia – assieme ai suoi apparati, ai suoi rappresentanti e alle sue mastodontiche istituzioni – si dispone sopra il popolo” (p. 231), divenendo così “la forma più totalizzante di superstitio contemporanea” (p. 231).

La democrazia è dunque, in realtà, due volte ‘epidemica’, non solo in quanto potere sul popolo, ma anche come potere massimamente diffuso. Ossia, epi-demica nel senso già indicato, ed epidemica alla stregua di una pandemia propagatasi ovunque. Il risultato, una volta catturati “nel dispositivo rappresentativo delle democrazie moderne” (Agamben), non potrà non essere la pura e semplice “ademia” (Agamben), cioè la scomparsa del popolo come soggetto politicamente libero.

parlamentoA tutto ciò credo si possa tentare di rispondere in due modi: o pensare il politico come un che di non-mediato “da alcuna articolazione o rappresentazione” (sempre Agamben), o ripensare radicalmente la rappresentazione. Con la consapevolezza che quanto si dirà non è che un modestissimo ‘segnavia’, una flebile traccia (per di più assai schematica e sommaria) per ricerche future, qui cercherò di abbozzare una possibile risposta alle fondamentali questioni suscitate da Sessa nella sua analisi del percorso emiano, proprio a partire da una differente idea di rappresentazione (politica).

Prendo spunto da Kelsen, il quale, ad esempio nel suo scritto Il problema del parlamentarismo del ’24, (ma si veda anche il più tardo Essenza e valore della democrazia dove ritornano quasi alla lettera le medesime parole) osserva che “la finzione della rappresentanza tende a legittimare il parlamento dal punto di vista della sovranità popolare”. Sempre Kelsen (e sempre nel Problema del parlamentarismo) allude alla “crassa finzione che è implicita nella teoria…che il parlamento sia per la sua stessa natura il rappresentante del popolo”. Ecco perché, con rigorosa consequenzialità, Kelsen definisce la sovranità popolare una “maschera totemica” (nel già ricordato Essenza e valore della democrazia), pur non arrivando a comprendere fino in fondo la reale portata della sua stessa definizione. Infatti ciò significa (il riferimento è ovviamente al Freud di Totem e tabù) non tanto, come vorrebbe banalmente Kelsen, che la democrazia nasce dal ripudio dell’autorità paterna, per cui i membri del clan indossano la maschera dell’avo del clan per fungere essi stessi da padre, ma che la sovranità popolare è sia il fondamento dell’ordine politico della democrazia (come il totem lo è del clan), sia ciò che può essere sacrificato nella finzione della rappresentanza (così come si dà l’uccisione sacramentale e la consumazione comune dell’animale totemico).

In altre parole, la rappresentanza non rende affatto presente ciò che ‘qui’ e ‘ora’ è assente, attraverso quella dialettica appunto di presenza/assenza in cui per il Leibholz de La rappresentazione nella democrazia (del 1929) consisteva il concetto di rappresentanza politica. La rappresentanza non rende presente ciò che è di per sé assente (cioè il popolo), ma tutt’al contrario, proprio per il suo carattere di finzione, rende in realtà il popolo due volte assente, in primis perché la rappresentanza in quanto tale postula l’assenza del popolo, e poi perché, una volta costituitasi come rappresentanza, appunto finge di rappresentare il popolo, che quindi rimane di nuovo e sempre assente.

In questo medesimo lasso di tempo, è stato, a mio parere, Schmitt a mettere in campo il più convinto tentativo di salvare, contemporaneamente, la rappresentanza e il popolo ‘rappresentato’, attraverso il doppio riferimento ai due principi della rappresentanza e dell’identità nella sua Dottrina della costituzione, risalente al 1928. Schmitt parte dalla constatazione che a prima vista rappresentanza e identità sembrano essere principi contrapposti. La rappresentanza infatti non è il popolo, non è identica al popolo (il parlamento non è un “popolo in miniatura”, scrive ancora oggi Bernard Manin). Eppure lo Stato in quanto unità politica si basa, per Schmitt, proprio sull’unione di rappresentanza e identità. Quella che pareva essere una insanabile opposizione si svela essere una indispensabile unione, la sola in grado di assicurare l’esistenza politica dello Stato. E questo perché, ecco il punto decisivo, la rappresentanza non è un che di normativo o di procedurale ma qualcosa di esistenziale. Ed è tale proprio in forza dell’identità, non contro di essa. Il che vuol dire, è sempre Schmitt a parlare, che “il problema del governo entro la democrazia consiste nel fatto che governanti e governati possono differenziarsi solo entro l’omogeneità costante del popolo”. Detto in altro modo: “l’identità democratica si basa sulla concezione che tutto quanto entro lo Stato si trova nell’attività del potere statale e del governo, resta entro l’omogeneità sostanziale del popolo”. La rappresentanza è esistenziale perché partecipa dell’omogeneità sostanziale del popolo (che in quanto tale è sempre presente ed esistente), essendo in essa fondata e da essa circoscritta. Da qui, infine, la necessità di preservare tale omogeneità, ad esempio con il “controllo dell’immigrazione straniera e non accettazione di elementi stranieri non desiderati da parte della legislazione sull’immigrazione”.

la-nuova-scienza-politicaChiudo queste brevissime notazioni (ripeto, aventi valore di mera traccia per ulteriori e ben più corpose analisi) con un riferimento a un altro testo in cui la rappresentanza è stata nuovamente collegata all’esistenza, seppure da una prospettiva parzialmente diversa da quella schmittiana. Alludo all’opera fondamentale di Eric Voegelin, La nuova scienza politica. Innanzitutto Voegelin distingue la rappresentanza elementare, cioè parlamentare/costituzionale, da quella esistenziale. Affinché si abbia una rappresentanza esistenziale è necessaria ciò che Voegelin chiama l’articolazione. “L’articolazione è dunque – scrive Voegelin – la condizione perché esista rappresentanza. Per esistere, una società deve articolarsi, facendo emergere un rappresentante che agisca a suo nome”, laddove, a sua volta (a mio parere in innegabile connessione con ciò che Smend chiamava l’integrazione personale), questo “capo rappresentativo di una società articolata non può rappresentarla nel suo complesso se non ha un certo rapporto con gli altri membri della società” (cioè con il “popolo”, chiosa giustamente Kelsen). Per finire, qui l’intreccio reciproco tra società articolata e capo rappresentativo mette comunque in luce la centralità dell’articolazione, da intendersi come legame non meccanico capace di arrivare “fino all’ultimo individuo” (sempre Voegelin), e dunque di attraversare tutto il corpo sociale, sì da giustificare il senso esistenziale della rappresentanza, non più ridotta a corpo estraneo o a mero artificio procedurale, ma pienamente inscritta nell’articolazione di cui è parte integrante.

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