Isteria

Il mondo è entrato in un periodo di isteria. Su scala internazionale, l’abominevole aggressione scatenata il 20 marzo contro l’Iraq ne è un perfetto esempio. Ad eccezione degli americani, nessuno voleva questa guerra. È bastato che gli americani la volessero per farla scoppiare. Perché la volevano? Robert Kagan ha fornito la risposta: “La politica degli Stati Uniti mira da molto tempo a preservare la loro supremazia nel mondo”. E gli americani sanno che il tempo gioca a loro sfavore. Sanno che possono vincere delle guerre ma rischiano di perdere la pace. Sanno di essere oggi l’unica grande potenza mondiale ma sanno anche che stanno per emergere potenze rivali. Da quando è andata al potere la squadra di petroassassini deliranti – neoconservatori imperialisti e cristiani fondamentalisti, rappresentanti del complesso militar-industriale e membri della lobby petrolifera texana – di cui George W. Bush è il portavoce, essi hanno scelto la fuga in avanti. Superindebitati, piombati in piena recessione industriale e commerciale, economicamente dipendenti dal resto del mondo, non resta loro che un unico mezzo per tentare di rendere perenne il proprio dominio planetario: fare la guerra. Da ciò questa nuova sanguinosa impresa, il primo grande crimine contro l’umanità del XX secolo, che segna la fine del sistema del diritto internazionale che aveva regolato nel dopoguerra i rapporti fra le nazioni. Siamo entrati in quella che Ulrich Beck ha molto appropriatamente definito la “società del rischio”. Il rischio è cosa del tutto diversa dal pericolo. Mentre il pericolo è identificabile e localizzabile, il rischio è diffuso ed onnipresente. La società del rischio si riflette a sua volta nel concetto di rischio. È una società nella quale regna la paura, che genera ossessioni. In questa società, in cui l’amico e il nemico non si distinguono più al primo colpo d’occhio, in cui la minaccia è onnipresente, tutti si trasformano in un pericolo potenziale. Tutti sono sospetti. Per questo l’isteria domina.

Alain de Benoist, La nuova evangelizzazione dell'Europa. La strategia di Giovanni Paolo II Fino a ieri si diceva che governare significa prevedere. Nella società del rischio, governare significa prevenire. Gli zeloti neomessianici del “MacWorld” hanno scatenato contro Baghdad una guerra preventiva. Ma preventiva di cosa? Evidentemente non della “minaccia irachena”. Jean Baudrillard ha scritto il 10 marzo su Libération che “la ragione ultima è l’instaurare un ordine basato sull’ossessione della sicurezza, una neutralizzazione generale delle popolazioni sulla base di un non-evento definitivo. Una sorta di fine della storia, ma assolutamente non sotto il segno del liberalismo trionfante o del compimento della democrazia come sosteneva Fukuyama; sulla base di un terrore preventivo che ponga fine a qualunque evento possibile”. Non potendo più chiamare in causa una presunta “minaccia sovietica”, gli Stati Uniti hanno inventato, per giustificare la loro azione e legittimare il loro dominio, un nuovo spauracchio capace di sedurre le menti deboli: lo spauracchio islamico-arabo-musulmanoterrorista. Essi strumentalizzano a proprio vantaggio un delirio islamofobo oggi diffuso dappertutto, che produce di riflesso nel mondo arabo (così come nelle “città” delle periferie popolate da musulmani) una giudeofobia subito a sua volta strumentalizzata. Le fobie si scambiano vicendevolmente, dando vita ad alleanze teratologiche, in una gara al rialzo che l’attualità spinge su valori estremi.

Alain de Benoist, L'impero interiore La vittoria del terrorismo, ammesso che ce ne sia una, consiste nell’aver creato le condizioni in cui anche le più forti potenze del pianeta ricorrono al terrorismo di Stato. Il risultato è una guerra civile planetaria: la guerra interminabile, la guerra in tempo di pace.

Gli statunitensi si vantano di non avere dimenticato le lezioni di Hobbes, ma ritornano a quello che Hobbes riteneva fosse lo stato di natura: la guerra di tutti contro tutti. Per scongiurare la guerra civile che essi stessi pongono in essere, per porre rimedio alle conseguenze del caos prodotto dal Nuovo disordine internazionale, mettono in piedi, con il pretesto di assicurare la sicurezza, un Leviatano reticolare fondato sulla selvaggia crudeltà tecnologica e militare, nonché sulla totale sorveglianza (dei corpi e dei pensieri), che mette fine alle libertà.

In Francia, l’isteria che aveva contrassegnato le due settimane fra il primo turno e il ballottaggio delle elezioni presidenziali si perpetua in una crescente isterizzazione dei rapporti sociali. Jakon Burckardt, già nel 1880, poneva sotto accusa i “terribili semplificatori”. Georges Bernanos, in tempi più vicini a noi, affermava la propria ripugnanza per i “piccoli bruti”. Oggigiorno, il narcisismo autoreferenziale regna negli ambienti più opposti. Tutto serve da pretesto per escludere. L’altro è, nel migliore dei casi, un seccatore da mettere in disparte, nel peggiore un nemico da sradicare, un residuo da cancellare. La retorica dell’invettiva, gli slogan dettati dalla convulsione, le profezie apocalittiche prendono il posto dell’analisi fondata sulla riflessione. In taluni ambienti, in cui radicalità ed estremismo si confondono, si è giunti al punto di discutere solamente per sapere chi si deve odiare per primo.

Anche nella vita intellettuale, l’anatema e l’ingiuria tendono a sostituirsi al confronto argomentato. Nel settembre del 2000 “Le Figaro” aveva aperto un’inchiesta sul tema “Si può ancora dibattere in Francia?”. Quasi tutte le personalità interrogate avevano risposto di no. Il “dibattito” intellettuale ormai è fatto solo di appelli alla creazione di cordoni sanitari e di denunce. Ancora di recente si è potuto assistere a questo spettacolo surrealista: il presidente della Lega dei diritti dell’uomo che definiva “sofisti” i sostenitori di una totale libertà di espressione. “In uno Stato libero”, diceva Spinoza, “è lecito a ciascuno pensare ciò che vuole e dire ciò che pensa”. Non è più così. Oggi si perseguitano la parola e lo scritto, il pensiero e il retropensiero, il detto e il non detto. L’isteria favorisce l’ascesa al potere dei sicofanti. Ma non si denuncia mai perché si crede in qualcosa. Si denuncia perché fa piacere denunciare. I sicofanti hanno la denuncia nel sangue. Arrivano persino a denunciarsi l’un l’altro. Parlando degli ausiliari della Gestapo, Ernst Jünger li descriveva come dei “maiali da tartufi”. I maiali ci sono sempre, anche quando non ci sono tartufi da trovare.

L’elemento comune fra tutte queste isteriche denunce è che dividono il mondo in due. Come bin Laden, il piissimo George W. Bush uccide in nome di Dio. Volendo procedere all’ablazione del Male contro il “resto del mondo”, volendo esportare il Bene a colpi di cannone, dà il la e indica il tono. Si vedono sempre più persone che, come lui, vogliono conoscere due sole categorie: noi e gli altri. Gli altri sono il male, noi siamo i buoni. “Chi non è con noi è contro di noi”, il che significa che non esistono più i terzi, non è più possibile alcuna conciliazione con il nemico. Quello che scompare è la dimensione dell’obiettività, quella che rifiuta l’esteriorità demoniaca. Questa è la dimensione di cui vanno a caccia le fazioni scatenate. Diceva Albert Camus: “viene sempre un momento nella storia in cui chi osa dire che due più due fa quattro viene punito con la morte”.

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Da oltre trent'anni, Alain de Benoist conduce metodicamente un lavoro di analisi e riflessione nel campo delle idee. Scrittore, giornalista, saggista, conferenziere, filosofo, ha pubblicato oltre 50 libri e più di 3000 articoli, oggi tradotti in una quindicina di lingue diverse. I suoi argomenti d'elezione sono la filosofia politica e la storia delle idee, ma è anche autore di numerose opere in materia di archeologia, tradizioni popolari, storia delle religioni e scienze umane.

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