Dalla parte dei cattivi

La Storia con la S. maiuscola è, notoriamente, un giudice severo e, nella maggior parte dei casi, anche giusto.

Il problema è che di Storia, soprattutto quando si parla di quei periodi che sono appena al limite esterno della cronaca e rispetto ai quali gli animi sono ancora scaldati da “partigianerie” di varia natura, se ne scrive ben poca. Più comunemente si scrivono, in quantità notevoli, storie con la s minuscola, in cui fatti, opinioni, giudizi di parte e qualche furberia politica di mescolano inestricabilmente a formare una supposta verità oggettiva, che di oggettivo non ha molto.

Paradigmatica in questo senso è la situazione mediorientale, dove il groviglio tra emozionalità e visione di parte risulta spesso tale da impedire un quadro che non sia affetto da pregiudizi, orientamenti manichei e, soprattutto, da una incredibile tendenza ad adottare continuamente metri di valutazione differenti a seconda del soggetto di discussione.

Soffermiamoci, a mo’ di esempio, su un particolare elemento del grande scacchiere in cui decine di pedine continuano a muoversi, a tratti senza un’apparente logicità: quell’Hamas che, per tutto o quasi il mondo occidentale è più o meno sinonimo di terrorismo estremista e, conseguentemente, di “male assoluto”.

Prima di tutto, diamo un’occhiata al tipo di immagine che Hamas ottiene sui mass media.

Hamas, in pratica, è un mostruoso frutto del fanatismo islamico che:

– ha portato alla fine della “road map” di pace fra Israele e Palestina con il suo ostinato rifiuto di riconoscere lo stato ebraico;

– ha il torto di aver insidiato il potere di Fatah, unico vero interlocutore, grazie agli sforzi di Arafat, con l’occidente;

– continua a fomentare l’odio, mandando centinaia di kamikaze in Israele a mietere vittime tra la popolazione civile ed è, dunque, una organizzazione illegale a pieno titolo per i suoi atti contro la pace;

– ha rapito e mantiene sotto custodia illegale cittadini israeliani;

– con il suo atteggiamento ha provocato il blocco di Gaza e il conseguente disastro socio-umanitario di quell’area;

– è comandato da pazzi sanguinari, imbottiti di dottrine pseudo-coraniche e pronti a tutto per ottenere i loro scopi e il partito stesso non è amato dal popolo per il suo totalitarismo, il suo integralismo e la sua ristrettezza di vedute che porta all’utilizzo della Shaaria in forma integrale come legge di Stato[1].

Sarebbe assurdo negare che, in queste affermazioni o, almeno, in alcune di esse, non esista un fondamento di verità. Sarebbe assurdo negare che lo “sceicco cieco” Yassin, fondatore riconosciuto del partito avesse sicuramente tratti di fanatismo che esulavano anche dal normale radicalismo islamico, che Hamas sia il mandante di numerosi martiri cha hanno provocato veri e propri bagni di sangue, che la sua posizione anti-sionista sfoci spesso nell’antisemitismo e che i suoi qassam lanciati sul territorio israeliano siano stati indubbiamente causa di blocchi nelle trattative.

Allo stesso modo, sarebbe assurdo assumere una posizione “positiva” verso Hamas per una sorta di “moda culturale” piuttosto dilagante nell’intellettualità occidentale che vorrebbe contrapporsi all’opinione pubblica comune e giustificare qualunque insorgenza islamica in nome di presunte (e, intendiamoci, in molti casi, ma non sempre, assolutamente reali) colpe dell’occidente nella crisi mediorientale: se, finché mosse da un giusto spirito critico di equità nel giudizio storico, tali posizioni possono non solo risultare legittime e sensate, ma assolutamente sacrosante, troppo spesso istanze di questo genere appaiono velate da una sorta di senso di “dhimmitudine”[2] serpeggiante, forse frutto di un piuttosto assurdo senso di vergogna per le “colpe dei padri” ben sfruttato da certa propaganda oltranzista e che, incredibilmente, va a colpire proprio quella parte della società che, più di ogni altra, avrebbe gli strumenti culturali per combattere contro ogni forma di asservimento morale, spirituale o intellettuale.

In punto non è assolutamente questo.

Si tratta, piuttosto, di attuare un criterio retributivo storico chiaro e univoco, che sia omogeneo e uniforme e che non sviluppi, come troppo spesso accade, una politica dei “due pesi e due misure”, in definitiva addirittura più controproducente proprio per chi la attua, risultando facilmente attaccabile dal punto di vista logico e storico.

E’ in questo senso che le accuse menzionate e continuamente reiterate, vuoi in forme esplicite che in forme implicite, da una fetta considerevole della stampa occidentale possono essere riprese una per uno, non per essere smontate (cosa, in alcuni casi, come vedremo, possibile) ma per essere poste in parallelo con altre situazioni in cui, per ragioni di equilibri politici o, diciamolo chiaramente, di pedissequità verso alcuni “poteri forti”, le medesime azioni e le medesime situazioni sono state e sono indebitamente accettate.

Proviamo, dunque, a compiere una operazione di questo genere.

1) Hamas ha portato alla fine della “road map” di pace fra Israele e Palestina con il suo ostinato rifiuto di riconoscere lo stato ebraico.

Ciò è vero solo in piccolissima parte e per comprenderlo è sufficiente dare uno sguardo alla cronologia dei fatti.

Il 13 settembre 1993 Itzhak Rabin e Yasser Arafat, sotto l’egida di Bill Clinton, siglano a Washington una dichiarazione di principi sull’autonomia palestinese che rappresenta una triplice conquista:

a) per la prima volta il governo israeliano riconosce l’OLP come interlocutore politico (cosa che il Consiglio Nazionale Palestinese aveva già fatto nei confronti di Israele nel 1988);

b) viene decisa la creazione di un’Autonomia palestinese transitoria nei Territori occupati da Israele dalla guerra del 1967;

c) ci si mette d’accordo sulla necessità teorica di una “road map” che, nei cinque anni successivi, dia vita a soluzioni relative alla divisione dei due Stati in relazione a statuto, frontiere, territori, futuro delle colonie ebree, sorte dei rifugiati, questione di Gerusalemme.

Il passo successivo, nel maggio 1994, è l’accordo del Cairo, chiamato “Oslo I”, che porta, agli inizi del 1995, al ritiro progressivo dell’esercito israeliano dalle città palestinesi, mentre nasce l’Autorità palestinese, con Yasser Arafat che è democraticamente eletto Presidente di un Consiglio legislativo in prevalenza affiliato al Fatah. Segue, il 28 settembre 1995, l’accordo di Taba (detto “Oslo II”) che, in pratica, dovrebbe sancire la nascita, a breve termine, di un vero e proprio Stato palestinese, ma la cui attuazione viene bloccata, il 4 novembre 1995, dall’assassinio di Itzhak Rabin per mano di un militare del suo apparato di sicurezza, probabilmente spinto a compiere quel gesto dalla campagna isterica contro il premier condotta dalla destra e dall’estrema destra nazionale (persino a suon di manifesti che dipingevano il firmatario degli accordi di pace come un gerarca nazista delle SS)[3].

Certamente, in questo quadro, Hamas è, in campo palestinese, una voce forte di dissenso contro gli accordi Rabin-Arafat, con il suo rifiuto, già dal 1989, di qualunque possibile riconoscimento dello Stato di Israele e della sua legittimità. Indubbiamente, a livello politico, si tratta di una visione miope, capace di impedire ai Palestinesi anche di “salvare il salvabile” (e, non a caso, nel periodo degli accordi Hamas ha un sostegno popolare molto limitato). Ma possiamo dire lo stesso dal punto di vista umano?

Proviamo ad ipotizzare uno scenario fanta-storico. Immaginiamo per un attimo che, alla fine della II Guerra Mondiale, l’Italia, perdente per aver sostenuto (e, in realtà, dal punto di vista dell’impiego di truppe e dell’impegno bellico, ben più nettamente del popolo palestinese) la follia hitleriana, rimanesse occupata fino al momento in cui, per un gioco politico in cui molta parte fosse legata a sentimenti di vergogna delle Nazioni vincitrici, l’O.N.U. non decidesse di assegnare quasi tutto il suo territorio a qualche popolo vicino, ad esempio a Libia o Albania. Sarebbe stato così difficile trovare qualche alto ecclesiastico che, magari cresciuto in un campo profughi (lo sceicco Yassin è cresciuto nel campo di al-Shati, a Gaza), incitasse la folla alla resistenza armata ad oltranza, non riconoscesse il nuovo Stato e, anche qualora una sorta di “concessione dall’alto” avesse offerto agli Italiani di ammassarsi in un paio tra le aree più povere ed economicamente depresse del Paese, continuasse ad opporsi ad una soluzione fin troppo simile a quella delle riserve indiane di 100 anni prima e, con ogni probabilità, destinata alle stesse conseguenze, trascinando con sé una quantità notevole di sostenitori?

Sì, perché, in realtà, e arriviamo qui al primo dei numerosi “due pesi e due misure” che possiamo rinvenire in tutta la vicenda mediorientale, pur essendo, lo si ribadisce, un primo passo importante e un segnale politico piuttosto fondamentale (forse l’unico possibile), in effetti, in una visione globale, “Oslo” non propone qualcosa di così radicalmente diverso, appunto, dalla creazione “umanitaria” di riserve indiane o, per altri versi dei “bantustands” nel periodo dell’apartheid in Sud Africa. E’ curioso come il mondo intero, molto a posteriori (e con meno convinzione, visto il peso degli attanti) nel primo caso, immediatamente nel secondo caso, abbia reagito sdegnato alla creazione di “ghetti” segregativi nelle aree peggiori di quello che avrebbe dovuto essere interamente territorio del popolo ghettizzato e abbia, al contrario, visto come un grande atto di pace e “concordia universale” ritrovata una soluzione analoga relativa ai “territori occupati”. Né ha molto senso affermare che un paragone come quello abbozzato non sia pertinente dal momento che Israele era già storicamente terra ebraica duemila anni prima della nascita del sionismo: semplicemente, Israele era terra ebraica dopo essere stata terra di un’altra decina di popoli diversi,compresi i Palestinesi o Filistei o gli odierni iracheni di Ninive. Avrebbe senso, sulla base di una appartenenza temporanea datata decine di secoli prima, che l’Italia, erede dell’Impero Romano decidesse di riannettersi l’Europa meridionale? O, per rendere il paragone più pertinente, nel momento in cui i Cristiani Caldei vivono una realtà difficile, ai limiti della persecuzione, in Iraq, avrebbe senso che essi, improvvisamente, chiedessero di potersi trasferire in massa nell’odierno Israele per fondarvi un proprio Stato? Eppure sono i discendenti di quei Babilonesi che avevano avuto il controllo dell’area…

Ma proseguiamo nella disamina degli eventi legati alla fine anche della possibilità di ottenere la già poco soddisfacente soluzione parziale indicata nella road map.

Dopo la morte di Rabin, il suo successore Peres, il 5  gennaio 1996, ordina, nonostante Hamas allora non rappresenti che una forza politica minoritaria nel panorama palestinese, l’eliminazione a Gaza di uno dei capi della fazione, l'”ingegnere” Yehia Ayache, presunto responsabile di attentati dinamitardi: lo sdegno per l’esecuzione, avvenuta ad opera dello Shin Beth con un telefonino imbottito di esplosivo, provoca un’ondata di attentati terroristici in Israele, a cui Tel-Aviv risponde con il blocco dei territori. Segue una escalation della violenza, con l’entrata in campo degli Hezbollah libanesi che lanciano missili sul nord dello Stato ebraico e con la terribile risposta di Israele, che culminerà con l’eccidio di Cana. Il risultato a lungo termine più devastante di questo periodo di estrema violenza è la vittoria, alle elezioni israeliane del 29 maggio 1996, della destra e della estrema destra che, con la premiership di Benyamin Netanyahou, con la sola eccezione dell’accordo di Hebron, bloccherà ogni negoziato con i Palestinesi. Tre anni dopo Netanyahou viene sconfitto alle elezioni dal laburista Ehud Barak, ma la situazione non cambia: Barak rimanda per un anno intero il terzo dispiegamento di Tsahal dai Territori occupati e blocca le negoziazioni sullo statuto finale della road map (la cui firma era prevista già per il 1996). Solo dopo il fallimento delle sue negoziazioni con la Siria, il premier torna a rivolgersi ai Palestinesi, ma appare immediatamente evidente che le distanze tra le posizioni si sono fatte enormi. Nonostante Arafat, rendendosi conto della situazione, chieda di posticipare i negoziati per aver modo di procedere preventivamente ad un riavvicinamento, Clinton spinge per un summit immediato, che ha luogo l’11 luglio 2000. E’ a questo punto che la strategia del governo israeliano diventa piuttosto evidente: nella pratica, si negano le condizioni di vivibilità necessarie alla formazione di uno Stato palestinese indipendente. Alcuni punti delle offerte di Barak possono chiarire in modo lampante la situazione:

i) si propone il ritiro delle truppe israeliane dal 90% della Cisgiordania, escludendo, però, dall’accordo la regione di Gerusalemme, la valle del Giordano ed il territorio controllato dalle colonie, che, da soli formano il 42% della Cisgiordania stessa, portando la “concessione territoriale”, in definitiva, solo al 63%  del West Bank (naturalmente la parte più povera di risorse), per di più, per salvaguardare le zone più densamente popolate da coloni, diviso in tre aree distinte e non contigue;

ii) ogni trattativa su Gerusalemme e la possibilità di una sovranità condivisa viene sospesa (e ripresa solo il 29 settembre);

iii) non viene neppure toccato il tema fondamentale della sorte dei rifugiati.

Naturalmente Arafat rifiuta queste condizioni e, per la stampa occidentale, sarà colui che ha rigettato le “generose” proposte israeliane, non tenendo conto che, di per sé, già riconoscendo lo Stato d’Israele i Palestinesi avevano rinunciato a qualcosa come il 78% della Palestina e ora Barak stava chiedendo loro di rinunciare ad un ulteriore 8-9%.

Qualche mese dopo, a Taba, Barak, su input di Clinton, dovrà fare concessioni maggiori, ma assolutamente inutili visto che ha già in mente le elezioni anticipate, che tutto lo scenario è cambiato dopo la “passeggiata” dell’ultra-falco Sharon (28 settembre 2000) sulla spianata delle moschee e il conseguente inizio della “Intifada di al-Aqsa” e che, dal 6 febbraio 2001 Israele sarà nelle mani di un famigerato criminale di guerra[4] come Sharon stesso. Nella Intifada di al-Aqsa Hamas avrà un ruolo nefando quanto determinante, ma questo non ha più nessuna importanza in termini di blocco di una road map che, di fatto, era già fallita da anni.

2) Hamas ha il torto di aver insidiato il potere di Fatah, unico vero interlocutore, grazie agli sforzi di Arafat, con l’occidente.

Vero, così come è vero che ogni opposizione insidia, fortunatamente e in una normalissima dialettica politica, il potere del partito di governo.

Sarà il caso di ricordare che Hamas, il 25 gennaio 2006, ha vinto a larghissima maggioranza delle elezioni regolari (e attestate come tali dagli osservatori internazionali[5]) e che questo non avrebbe significato una tragedia umanitaria o lo scoppio di una nuova guerra (almeno non più grave delle ostilità serpeggianti che hanno continuato ad esistere prima e dopo il governo di Hamas sul West Bank) come ipotizzato da certa stampa americana o europea, quanto, molto più pragmaticamente, la riaffermazione di un diritto sancito dall’O.N.U. all’atto di fondazione dello Stato d’Israele e finalmente accettato, più di quarant’anni dopo, a parole, dal governo di Tel Aviv proprio con l’accordo sulla road map: quello dei Palestinesi di avere uno Stato proprio, degno di questo nome.

Stante la evidente constatazione che le proposte israeliane di Camp David non  potevano, per pura logica, avere come risultato lo sviluppo di uno Stato sovrano, per comprendere quest’ultima affermazione è necessario conoscere un particolare a cui i media occidentali hanno dato ben poco (o nessun) risalto: già dal 26 gennaio 2004 Abd al-Aziz al-Rantissi, braccio destro dello sceicco Yassin e in seguito suo successore, poi assassinato da un razzo lanciato sulla sua macchina da un elicottero Apache con le insegne della Stella di David, aveva offerto al governo israeliano una tregua decennale chiedendo in cambio unicamente il totale ritiro di Israele da tutti i territori occupati durante la Guerra dei Sei giorni. Ebbene, tale offerta era stata ripetuta dopo la vittoria elettorale di Hamas nel 2006, con una accettazione implicita della iniziativa di pace araba del 2002 e con una esplicita dichiarazione sull’impossibilità di cancellare Israele (che significava riconoscerne l’esistenza).

Ciò vuol dire che, in fin dei conti, ai cittadini dei Territori veniva posta la scelta tra un sistema, con Fatah, che sembrava perpetuare lo status quo di asservimento, impantanato com’era nelle paludi di accordi mai rispettati dalla controparte e senza la forza e la possibilità di farli rispettare, e un sistema, con Hamas, che proponeva una soluzione tutt’altro che estremista e ultra-radicale ma che aveva almeno l’aura della “novità” e quella che poteva essere vista (certamente a torto, sulla base del computo delle forze in campo, ma con una valenza psicologica notevole) come un’arma di ricatto (o di scambio) verso la controparte (quella pace che era scontata con Fatah ma non lo era con Hamas).

Tra le due alternative, i Palestinesi naturalmente hanno preferito la seconda (da momento che, tipicamente, in ogni sistema stagnante, si tende a scegliere un incerto cambiamento piuttosto che una realtà negativa certa), senza brogli e senza violenze interne (che appartenevano ad un periodo precedente).

E’ a questo punto che, però, è accaduto qualcosa di una gravità assoluta.

In un quadro di una Nazione in fieri (almeno sulla carta), evidentemente necessitata ad appoggiarsi, nel suo processo di affrancamento, a strutture del Paese precedentemente (e siamo già nel campo dell’eufemismo) occupante, Israele, spalleggiato (e sarebbe troppo lungo analizzare le motivazioni di questa “santa alleanza”, che, per altro, risultano in buona parte evidenti) dagli Stati Uniti, ha attuato una tattica che era già risultata vincente per l’alleato in numerose vicende del “giardino di casa” centro e sud americano, sospendendo qualunque “aiuto” allo sviluppo di una Nazione in realtà satellite e senza possibilità di autonomia. Trovatosi improvvisamente senza strutture (e cerchiamo di immaginare, ad esempio, il significato di non avere acqua per un Paese che vive in larga parte di agricoltura di sussistenza), come naturale conseguenza il governo di Hamas ha dovuto affrontare la delusione di parte dei suoi sostenitori meno convinti e, soprattutto, la sollevazione dei suoi avversari politici e il risultato è noto.

Un rilievo è, però, d’obbligo: in qualunque parte del mondo, allorché un Paese vicino agisce in ritorsione contro il risultato di una elezione democratica di uno Stato sovrano (e già questa definizione in relazione ai poteri concessi all’Autorità palestinese appare quasi derisoria) , si parla senza indugio di ingerenza. Con pochissime eccezioni, non pare che questo termine sia stato utilizzato dai media occidentali …

3) Hamas continua a fomentare l’odio, mandando centinaia di kamikaze in Israele a mietere vittime tra la popolazione civile ed è, dunque, una organizzazione illegale a pieno titolo per i suoi atti contro la pace.

E’ davvero peculiare come il concetto di terrorismo possa variare a seconda dei contesti d’uso. E’ assolutamente ovvio che qualunque atto che porti a vittime civili sia esecrabile. Lo è nella misura in cui ogni guerra, con il suo naturale, terrificante carico di “casualties of war”, è esecrabile. Ma le “casualties of war” dovrebbero essere terribili in qualunque contesto, il che significa che gli Stati Uniti in Vietnam hanno agito come un Paese terrorista (o “Stato canaglia” per usare definizioni che, a questo punto, risultano autoreferenziali), che la strage del mercato di Bagdad è stato un atto di puro terrorismo e che tutte (ma proprio tutte) le guerre, le “operazioni di polizia”, i bombardamenti, persino gli embargo internazionali (o nazionali) sono, in ultima analisi, atti di terrorismo (come probabilmente in effetti sono!).

Se, poi, vogliamo entrare nello specifico, basterebbe uno sguardo agli avvenimenti, recenti o meno, di Gaza per comprendere, sulla base oggettiva del numero di morti e feriti civili provocati, quale sia lo Stato che agisce in maniera più chiaramente terroristica dell’area mediorientale.

E’, altresì, interessante analizzare il concetto di terrorismo in relazione al concetto di guerra. Un atto terroristico è tale se viene compiuto nel quadro di una guerra (di qualunque tipo)? Ovviamente, in caso di risposta affermativa, non possiamo che definire ogni guerra un insieme di continui atti di terrorismo contrapposti, tali per cui, uniti, giustificano l’uguaglianza guerra = terrorismo, cosicché qualunque Nazione del passato o del presente che sia stata o sia impegnata in qualunque genere di conflitto, altro non può essere considerata che una organizzazione terrorista (e, stante il fatto che nessuna Nazione al mondo può essere esclusa dall’insieme, giungeremmo al paradosso che, ad esempio, l’O.N.U. altro non sia che il più grande consesso internazionale di terroristi della storia dell’umanità).

In caso di risposta negativa, il baricentro della discussione si deve spostare sulla definizione di guerra: quando due Nazioni si possono definire in guerra? Per quanto ripugnante possa essere parlare di legislazione internazionale in relazione a questo argomento, si deve osservare che due Nazioni risultano “legalmente” in guerra allorché vi sia stata una preventiva dichiarazione in merito[6]. Bene, in questo caso Hamas è certamente in guerra con Israele, esistendo una dichiarazione di guerra fornita dallo stesso statuto fondativo pubblico dell’organizzazione, che dichiara la volontà di annientamento dello Stato sionista. Si può obiettare che Hamas non sia un governo nazionale ma una organizzazione politica. Il che vorrebbe dire che nel West Bank Hamas è stata, in un determinato periodo, una Nazione in guerra per poi essere “ricacciata”, si è visto come, nell’ambito delle organizzazioni terroristiche, ma vuol anche dire che, detenendo Hamas il potere su Gaza, che, praticamente se non formalmente risulta una Nazione autonoma e secessionista dall’Autorità palestinese (in che altro modo potremmo definire un territorio a sé stante con un governo diverso da quello centrale?) gli atti “terroristici” di Hamas possono essere visti come “atti di guerra” (e già per questo indubbiamente esecrabili) compiuti, previa preventiva dichiarazione di guerra, dallo “Stato” di Gaza contro lo Stato d’Israele e non come atti di terrorismo in senso stretto.

Infine, una ulteriore obiezione può essere data dal voler vedere gli omicidi mirati israeliani in zone palestinesi (praticamente metà dei vertici di Hamas, compreso Yassin nel 2004, sono stati eliminati nei modi più svariati, in particolare con razzi lanciati su automobili o case dagli elicotteri di Tel Aviv) come atti di guerra possibili, mentre gli attacchi kamikaze dei “martiri” in zone civili come atti terroristici: anche tralasciando il fatto che, come ormai ampiamente dimostrato, difficilmente i “razzi intelligenti” evitano le “casualties of war”, resta la enorme differenza di disponibilità finanziarie tra i due nemici e risulterebbe quantomeno strano che la linea di demarcazione tra atto di guerra e atto terroristico fosse dato da tale differenza …

4) Hamas ha rapito e mantiene sotto custodia illegale cittadini israeliani.

Indubbiamente questa è una delle pratiche più esecrabili di numerosi gruppi e partiti islamici dell’area mediorientale e, probabilmente, non esiste nessuno che non si possa indignare, ad esempio, per la vicenda di Ghilad Shalit, il soldato israeliano catturato da Hamas oltre 48 mesi orsono e tenuto ancora prigioniero.

Ma, ancora una volta, non è in alcun modo accettabile l’utilizzo di una doppia morale, così tipica della posizione occidentale. Senza scomodare leggi internazionali sui prigionieri di guerra, cosa che implicherebbe una accettazione di uno status bellico così come descritto al punto precedente, la domanda spontanea che sorge è perché nessuno dei giornalisti che tanto s’indignano per la sorte del militare (e vale la pena di sottolineare “militare”) Shalit, o delle autorità internazionali che richiedono a gran voce (giustamente) la sua liberazione (fino a concedergli cittadinanze onorarie come ha fatto Roma), si sia mai preso la preso la briga di ascoltare le famiglie delle centinaia di arrestati durante la prima Intifada del 1987, in gran parte ragazzini (non militari) che tiravano pietre contro carri armati, in numerosi casi non liberati prima dell’incontro Rabin–Arafat[7] di sei anni dopo (e sei anni di prigione per lancio di pietre risulta una pena poco giustificabile non solo dal punto di vista del diritto ma da qualunque punto di vista. Sebbene, tenendo conto che alcuni di quei ragazzini sono morti proprio per aver lanciato pietre, forse coloro che sono stati tenuti prigionieri per sei anni possono persino dirsi fortunati … ).

Se, poi, ci spostassimo su un piano più ampio di contrapposizione tra occidente e radicalismo islamico, probabilmente tutto questo discorso diventerebbe addirittura ridicolo pensando sia al numero di detenuti (gran parte dei quali, nell’ordine di circa 240 su 250[8], senza accuse specifiche e senza alcun processo) che alle condizioni di detenzione (denunciate sia dall’Alto Commissario ONU Mary Robinson che dal Amnesty International e addirittura dalla Corte Suprema americana nel 2006[9]) di Guantanamo, lager (esiste un altro modo per definirlo? Forse gulag stalinista …) ancora attivo nonostante le promesse di Obama di oltre un anno fa.

Ma, senza aprire capitoli che rischierebbero di portarci fuori strada, è interessante notare un paio di elementi ben poco pubblicizzati dai media europei in relazione al rapimento Shalit.

a) ventiquattro ore prima della cattura di Shalit, il 24 giugno 2006, due civili palestinesi, Osama Muamar e suo fratello Mustafa Muamar erano stati catturati nella notte presso Rafah  (territorio dell’Autorità palestinese) e portati in Israele senza accuse specifiche;

b) ventiquattro ore dopo la cattura di Shalit, il 26 giugno 2006, i responsabili del sequestro (le “Brigate Izz ad-Din al-Qassam”, braccio militare di Hamas, i “Comitati di Resistenza Popolare”, che includono, oltre a militanti di Hamas, anche membri di Fatah e del Movimento Islamico della Jihad Palestinese, e l'”Armata Palestinese dell’Islam”), hanno emesso un comunicato offrendo di fornire informazioni sul soldato prigioniero qualora Israele avesse acconsentito a liberare tutti i prigionieri minori di diciotto anni e quelli di sesso femminile[10] (potremmo parlare di memorie dell’Intifada?), offerta che non è stata neppure presa in considerazione.

Peccato che ci sia stata questa “svista” nella divulgazione estensiva di informazioni che avrebbero permesso una visione più corretta di tutta la vicenda …

5) Hamas con il suo atteggiamento ha provocato il blocco di Gaza e il conseguente disastro socio-umanitario di quell’area.

Questa è una delle accuse più comunemente sollevate contro Hamas. Ma forse sarebbe il caso di ripercorrere brevemente lo svolgimento degli eventi.

Nelle famose (o famigerate) elezioni (regolari) del 2006 Hamas (come era naturale, essendosi il partito originato proprio a Gaza)  ottenne il maggiore appoggio popolare proprio nella Striscia di Gaza. Quando, l’anno seguente, Hamas venne scacciato da Fatah dal West Bank, i suoi militanti fecero lo stesso con i sostenitori di Fatah a Gaza City e, immediatamente, Israele mise un embargo contro la Striscia. Soprattutto, Tel Aviv cominciò una serie (per altro riportata, almeno parzialmente, da tutti i media mondiali) di missioni di guerra e assassinii mirati all’interno di un territorio indipendente (almeno secondo quanto affermato da Oslo I)  che causò centinaia di morti civili e che portò alla ritorsione di Hamas con lancio di razzi e colpi di mortaio in territorio israeliano[11].

Già a questo punto sarebbe facile trarre conclusioni relative alle responsabilità sul disastro di Gaza, ma non è tutto.

A seguito di colpi di mortaio contro insediamenti israeliani, il 1º marzo 2008 l’esercito dello Stato di Israele diede  inizio all’operazione “Inverno caldo” con l’invasione diretta di Gaza con forze blindate ed aeree. In pochissimo tempo la Striscia venne completamente occupata e, nel giugno 2008, dietro mediazione egiziana, Hamas accettò di porre fine al lancio dei razzi in cambio di un alleggerimento del blocco da parte di Israele.

Il cessate-il-fuoco, però, fu immediatamente rotto da Israele (si sono contati 49 Palestinesi uccisi nel periodo di tregua[12]) che, soprattutto, non rispettò l’accordo di alleggerimento del blocco navale permettendo il passaggio alla frontiera di massimo 70 camion giornalieri contro i 450 stabiliti[13] (e la popolazione di Gaza vive in gran parte grazie ad aiuti umanitari). Dopo un attacco israeliano (4 novembre 2008) che eliminò (e, fino alla noia, è necessario ricordare che ciò avvenne in territorio fuori dalla sovranità israeliana) sei esponenti di Hamas, il presidente Mahamud Abbas dichiarò che, senza un alleggerimento del blocco, non ci sarebbe stato rinnovo della tregua. Tale alleggerimento non ebbe luogo e, il 19 dicembre, Hamas lanciò 3 missili qassam sul territorio israeliano. In risposta, il 27 dicembre 2008, partì (con discutibile senso della proporzionalità tra offesa e difesa, che dovrebbe essere, dai tempi di Beccaria, patrimonio comune di tutti gli Stati che si dichiarino o si suppongano essere civili) l’operazione “Piombo fuso” con un bombardamento mirato delle rampe di lancio dei qassam che doveva, a dispetto della tecnologia bellica israeliana, essere ben poco mirato se provocò, secondo dati O.N.U.[14], 1.380 morti e 5.380 feriti tra i civili di Gaza City.

Il 3 gennaio 2009 seguì l’occupazione militare dell’area, occupazione che venne condannata, il 15 gennaio dall’Unione Europea, la quale chiese il ritiro delle truppe della stella di David dalla zona. Israele apparentemente accettò di ritirarsi, tanto che il Ministro degli Esteri Tzipi Livni, a fine gennaio,  dichiarò: “Israele se n’è andato da Gaza. Ha smantellato i suoi insediamenti. Non sono stati lasciati soldati israeliani là, dopo il disimpegno”[15].

Ovviamente ciò è solo formalmente vero dal momento che, come appare assolutamente evidente nel recentissimo episodio della “Freedom Flottilla” e come attestato anche da “Human Rights Watch”[16], controllando Israele tutti i confini della Striscia, inclusi quelli marittimi, di fatto uno Stato “estero” mantiene il controllo di un territorio la cui popolazione è ormai allo stremo.

Di chi è la causa del disastro umanitario di Gaza?

6) Hamas è comandato da pazzi sanguinari, imbottiti di dottrine pseudo-coraniche e pronti a tutto per ottenere i loro scopi e il partito stesso non è amato dal popolo per il suo totalitarismo, il suo integralismo e la sua ristrettezza di vedute che porta all’utilizzo della Shaaria in forma integrale come legge di Stato.

Qui siamo, probabilmente, all’apoteosi del sistema dei “due pesi e due misure”.

Premettiamo immediatamente: Hamas, come qualunque partito fondamentalista (e certamente molto meno di altri presenti nel mondo islamico, come può facilmente vedere chiunque si occupi almeno lontanamente di questioni religiose e abbia almeno sfogliato gli statuti di qualcuno di questi gruppi estremisti[17]) ostenta, alle proprie radici una visione certamente parziale, ristretta e riduttiva del messaggio coranico e ciò è stato più volte affermato da alcuni tra i più importanti imam, sceicchi e studiosi islamici del mondo.

Ma perché dovremmo definire pazzi sanguinari persone che lottano per una visione di società che non si confà alle regole occidentali ma che, comunque, sembra prendere sempre più piede nella società araba o arabizzata, evidentemente rispondendo a bisogni piuttosto presenti, per varie ragioni che non è in questa sede il caso di analizzare, in tali società? E, a maggior ragione, ciò in un contesto in cui tale visione si unisce al sentimento di liberazione nazionale di un intero popolo …

Possiamo non essere d’accordo con la loro ideologia e i loro metodi, il che è assolutamente legittimo, ma andare oltre questo risulta solo pregiudiziale … Anche perché, stranamente, il giudizio sui governi che adottano la Shaaria risulta notevolmente variabile a seconda del grado di neutralità o alleanza che essi sviluppano verso l’occidente (e gli Stati Uniti in primis) … Se i leader di Hamas sono dei pazzi perché difendono, con un substrato jihadista, la possibilità di rivendicare una patria per il loro popolo, come definiremmo i governanti di Kuwait o Arabia Saudita (e molti altri nomi potrebbero essere fatti), Nazioni in cui la Shaaria viene applicata integralmente, in cui l’adulterio femminile viene punito fino alla pena di morte per lapidazione, in cui bere una birra in pubblico porta all’arresto immediato, in cui l’uso legale di fustigazioni e mutilazioni per vari reati fa parte della prassi comune, in cui le esecuzioni capitali (almeno per l’Arabia Saudita) sono parte integrante della vita giudiziaria del Paese (oops, ma questo accade anche negli Stati Uniti…), in cui la censura è regola quotidiana?[18] Certamente le definiremmo nazioni arabe moderate e quasi moderne … finché mantengono basi militari americane sui loro territori e riforniscono di petrolio le macchine dell’occidente (il non farlo nel modo adeguato, d’altra parte, pare abbia portato qualche problema al regime non shaarista di Saddam in Iraq, fino a qualche tempo prima alleato degli U.S.A nonostante un paio di stragi compiute …) …

E, fuori dal mondo arabo, come definiremmo la Cina, che, sulla base di una ideologia ormai sgretolata e in cui non credono più neppure i governanti cinesi (o dobbiamo definirli governanti realmente sostenitori del comunismo sulla base del loro rispetto per il lavoro di operai e contadini, sulla base della loro ricerca del benessere del popolo o sulla base della equità sociale che impera in uno dei Paesi più intensamente capitalisti e sperequati del pianeta?), pratica esecuzioni giornaliere, mantiene i suoi cittadini sotto un giogo che sarebbe eufemistico definire oppressivo e opprime allegramente, con tratti notevoli di pulizia etnica (alla Corte dell’Aja pare che siano in corso alcuni processi per questioni analoghe …), un popolo storicamente e culturalmente non affine e omogeneo al suo come quello tibetano? Un ottimo partner commerciale per l’occidente, degno un paio di anni fa di ospitare una manifestazione simbolo della fratellanza tra popoli come le Olimpiadi, fino a che le multinazionali occidentali guadagnano miliardi investendo in un mercato selvaggio e in espansione continua …

Strana storia davvero questa “storia con la s minuscola”, in cui le regole e i giudizi cambiano a seconda di chi, pur agendo nello stesso modo, ha trattamenti di serie A o di serie B.

E, certe volte, fermo restando che i “cattivi” restano cattivi (semplicemente perché compiono azioni riprovevoli o, addirittura, moralmente ripugnanti, cosa che nessuno oggettivamente negare), in questa strana “storia” son la s minuscola, vedendo chi sono i “buoni” e come si comportano, viene quasi voglia di stare proprio dalla parte dei cattivi.


[1] Opinioni tratte dagli archivi di: Washington Post, New York Times, Times, Le Figaro, CNN e BBC.

[2] Da “dhimmi”, i popoli del Libro sottomessi in forma privilegiata dagli islamici che, comunque, finivano per sviluppare un senso di sottomissione verso i dominatori. Si veda, a tal proposito, B. Ye’or, D. Maisel, The Dhimmi: Jews & Christians Under Islam, Fairleigh Dickinson University Press 1985.

[3] Qui e in seguito, i dati storici sulla situazione israelo-palestinese sono tratti da  D.L. Hulme, The Israeli-Palestinian Road Map for Peace: A Critical Analysis, University Press of America 2008 e I.J. Bickerton, The Arab-Israeli Conflict: A History, Reaktion Books, 2009.

[4] Condannato per questo dall’O.N.U. nel 1954 per la strage di Qibya, dall’Alto Tribunale militare israeliano nel 1956 per la strage di Mitla e dalla Commissione d’inchiesta israeliana nel 1982 per la strage di Sabra e Shatila.

[5] Qui e in seguito, per quanto riguarda la storia di Hamas,  cfr. B. Milton-Edwards, S. Farrell, Hamas: The Islamic Resistance Movement, Polity 2010 e S. Mishal, A. Sela, The Palestinian Hamas: Vision, Violence, and Coexistence, Columbia University Press 2006.

[6] Cfr. O.Brewer, W.S. Marshal, Lines of International War  Legislation, Prochman & Co. 1989, pp. 37-44.

[7] Rapporto di Amnesty International sui prigionieri dell’Intifada, 18 settembre 2003.

[8] G.Cucullu, Inside Gitmo, Harper 2009, p. 22.

[9] Caso Salim Ahmed Hamdan contro il governo americano, 29 giugno 2006.

[10] Fonte: comunicato alla CNN del 26 giugno 2006.

[11] Qui e in seguito, sulla questione di Gaza cfr. G. Löwy, The Punishment of Gaza, Verso 2010 e N. Chomsky, I. Pappe, Gaza in Crisis: Reflections on Israel’s War Against the Palestinians, Haymarket Books 2010.

[12] “Human Rights Watch”, 11 settembre  2008.

[13] Ivi.

[14] Documento del “United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs”, 2 febbraio 2009.

[15] Israeli MFA Address by Israeli Foreign Minister Livni to the 8th Herzliya Conference, 22 gennaio 2009.

[16] “Human Rights Watch”, 29 ottobre 2009.

[17] Cfr. ad esempio, P. Show, The Rise of Fundamentalist Parties in the Arab World, Agjan Press 2009.

[18] Cfr. “The Arabic Network for Human Rights Information” (www.anhri.net).

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Nato a Londra nel 1968 ma italiano di adozione, si laurea a 22 anni con il massimo dei voti in Lettere Moderne presso l'UCSC di Milano con una tesi sui rapporti tra cultura cabbalistica ebraica e cinematografia espressionista tedesca premiata in Senato dal Presidente Spadolini. Successivamente si occupa di cinema presso l'Istituto di Scienze dello Spettacolo dell'UCSC, pubblicando alcuni saggi ed articoli, si dedica all'insegnamento storico, ottiene un Master in Marketing a pieni voti e si specializza in pubblicità. Dal 2003 si interessa di storia e simbologia religiosa: nel 2006 pubblica Il Graal è dentro di noi, nel 2007 Non per mano d'uomo? e nel 2009 L’anima e la svastica. Nel 2008 ottiene, negli USA, "magna cum laude", un dottorato in Studi Religiosi a cui seguono un master in Studi Biblici e un Ph.D in Storia della Chiesa, con pubblicazione universitaria della tesi dottorale dal titolo Nicea: what it was, what it was not (2009). Collabora con riviste cartacee e telematiche (Hera, InStoria, Archeomedia) e portali tematici, è curatore della rubrica "BarBar" su www.storiamedievale.org e della rubrica "Viaggiatori del Sacro” su www.edicolaweb.net. Sito internet: http://www.lawrence.altervista.org.

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