Chateaubriand e il mito del buon selvaggio

René Chateaubriand, I Natchez Diciamo la verità: il mio primo impatto con Atala fu disastroso. Trovai la storia di Chateaubriand noiosa, retorica e strappalacrime. Insopportabile, ma forse perchè ero obbligato a leggerla, tradurla e commentarla dato che era il testo del corso di francese al ginnasio: dai Fratelli delle Scuole Cristiane era questa la lingua straniera che si studiava.

Ebbene, dopo quaranta e passa anni scopro che Atala e René non soltanto erano le due storie edificanti inserite a mo’ di esempi nel Genio del cristianesimo, ma hanno alle spalle una vicenda assai più complessa e interessante. Lo scopro attraverso la prima traduzione italiana, dopo quasi 180 anni, de I natchez, un romanzo-saga che tra i primi, se non il primo ha descritto i pellirosse non come nemici da combattere e sterminare, ma come perseguitati, esempi di uno status diverso, ma non contrapposto, a quello dell’europeo, dell’occidentale. L’opera di Chateaubriand ha una genesi complicata: concepita e forse in parte scritta nel 1789-90 come Les sauvages, fu arricchita dagli spunti e dalle impressioni del viaggio che il giovane aristocratico compì in America sbarcando a Filadelfia e navigando lungo i fiumi Ohio e Mississippi: ispirato da Voltaire e Rousseau, ne volle fare una specie di «utopia del buon selvaggio»; intorno al 1798 l’opera diviene René et Céluta: in questo caso risente delle posizioni del suo Saggio sulle rivoluzioni, scritto a Londra dove si era rifugiato per sfuggire ai rivoluzionari parigini: qui la ribellione dei pellirosse ai coloni assomiglia molto a quella da cui il giovane François René era dovuto fuggire; infine, ritornato definitivamente al cristianesimo dopo la morte della madre e della sorella Julie, trasforma il suo romanzo in una sorta di grande epopea, o Les natchez: in esso i toni sono variegati e passano dal «meraviglioso cristiano» alle atmosfere del romanzo gotico.

Ma l’opera subisce una singolare sorte: brani di essa – appunto Atala (pubblicata anche come singolo racconto nel 1801) e René, oltre a varie descrizioni – confluiscono nel libro che lo renderà famoso: il Genio del cristianesimo (1802). Ma nel complesso il lunghissimo testo originale resterà inedito e apparirà, privato dei citati due episodi, solo nel tomi XIX e XX delle sue Opere complete addirittura nel 1826, a trent’anni quasi di distanza dalla sua elaborazione.

La storia si svolge fra il 1653, anno di nascita di uno dei protagonisti, l’indiano Chactas, e il 1768, che è poi l’anno di nascita dello stesso Chateubriand, e narra delle vicissitudini dei Natchez, tribù della Luoisiana, che all’epoca era stata colonizzata dai francesi (il nome rimanda al re Luigi XIV), cacciati dal loro territorio dopo varie ribellioni, le loro peregrinazioni e la loro estinzione. Al centro le avventure del francese René, naturalizzato natchez, e dei tre pellirosse suoi amici e parenti: Outougamiz, Céluta e Mila. La storia è malinconicamente romantica, fastosamente esotica, spesso angosciosa e crudele, sullo sfondo – ovviamente – di una natura incontaminata, vista come un nuovo Eden dagli occhi del viaggiatore occidentale. Insomma, Chateaubriand appare così, insospettatamente per il grande pubblico, il creatore del mito del pellirosse visto non come un selvaggio nemico da distruggere, ma come un primitivo non malvagio, un’anima pura. E questo se non prima almeno contemporaneamente al primo grande romanziere americano che degli indiani fece il cardine della sua opera, James Fenimore Cooper, i cui capolavori usciranno proprio in quegli anni: da La spia (1821) a I pionieri (1823), da L’ultimo dei mohicani (1826) a I pellirosse (1846).

Merito di questa interessante scoperta va a Ivanna Rosi e Filippo Martellucci che hanno preparato un’ineccepibile edizione de I natchez (Le Lettere, Firenze, 2004, 484 pagine, 28 euro), che dovrebbe servire da esempio e campione per operazioni consimili: finalmente, dopo tanta sciatteria cui ci eravamo abituati!

Un saggio introduttivo amplissimo ed esaustivo, note bibliografiche, storiche, etnologiche, linguistiche, un inquadramento generale dell’epoca e dei personaggi, una cronologia interna, la situazione politica dell’America a quei tempi, e – non meno importante – un utile e suggestivo apparato iconografico. Poichè oggi domina la superficialità, un esempio da seguire. I libri devono essere curati con competenza e amore, e non sempre oggi ce lo ricordiamo.

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René Chateaubriand, I Natchez, Le Lettere, Firenze 2004.

Tratto da Il Tempo del 15 giugno 2004.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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