Capire la vita «ascoltando» gatti, merli e aironi

Incontro con Alfredo Cattabiani, che dopo Planetario, Florario, Volario, ha scritto Zoario, dedicato alla vita con gli animali. In una lucertola c’è l’energia del cosmo. Non sappiamo fondere il progresso tecnologico con la natura.

 

Alfredo Cattabiani, Zoario Prima o poi, ognuno di noi si ritrova a rievocare gli incontri indimenticabili della propria vita. Ma non a tutti accade di inserire, nella galleria dei personaggi principali, anche ventuno animali, dalla cicogna all’airone, dalle misteriose falene ai domestici gatti, fino ai bistrattati asini e alle calunniate cicale. Lo ha fatto Alfredo Cattabiani nel suo Zoario (Mondadori, 254 pagine, 16,53 euro), un’arca di Noè del terzo millennio in cui il noto studioso della religione e del folklore mette in evidenza non solo il senso panico che permea la natura e l’universo, ma anche i sentimenti e i desideri che governano le nostre vite, come l’amicizia, l’amore, il bisogno di felicità e il senso della morte. Per Cattabiani questo libro è una parentesi narrativa nell’ambito dell’ambizioso progetto di una Storia dell’immaginazione a cui da molti anni lavora, volume dopo volume: un repertorio di tutto ciò che la fantasia umana ha partorito – miti, leggende, proverbi e feste – contemplando l’universo visibile. Un’avventura letteraria che è cominciata con Florario, il volume dedicato alle piante, è continuata con Planetario, sulle stelle e i pianeti, e sta andando avanti con un bestiario universale di cui è uscito il primo tomo, Volario, dedicato agli abitanti del cielo, mentre di prossima pubblicazione sono i volumi incentrati sugli animali acquatici e terrestri.

 

Prof. Cattabiani, il suo libro ci insegna a isolare il canto degli uccelli dal rumore di sottofondo di una tangenziale, a privilegiare il miagolio di un gatto al superficiale “bla-bla” quotidiano. Gli animali ci aiutano a distinguere ciò che è essenziale da ciò che non lo è?

 

«Non solo gli animali, ma anche le stelle, i pianeti, le piante, i fiori, tutto ciò che ci circonda e a cui siamo stretti da un legame indissolubile. Noi uomini possediamo un’anima vegetativa, una sensitiva e una razionale. Quest’ultima, come sosteneva Plutarco, appartiene anche agli animali, sia pure in misura diversa».

 

Crede che gli animali incarnino energie cosmiche?

 

«Sì, lo avverto chiaramente, in particolare nei gatti, di cui mi sono sempre circondato. Ma ho sentito l’energia dell’universo emanare anche dalle lucertole. C’è stato un periodo in cui le lucertole venivano sul mio corpo e si fermavano lì a prendere il sole».

 

Per questo ha voluto scrivere dei racconti sugli animali?

 

«Quello con gli animali è un rapporto con un essere vivente, sensitivo, dotato anche di un barlume di razionalità, a differenza di quanto avviene con le piante, che sono vegetative e sensitive, ma non avendo la razionalità possono instaurare con l’uomo solo un rapporto squisitamente spirituale. Nella mia vita ho avuto incontri molto speciali con alcuni animali, che si sono trasformati in racconti».

 

Che cosa le hanno insegnato questi incontri ?

 

«Ho capito che gli animali sono in grado di comunicarci cose importanti, e noi di comunicarle a loro. Nei racconti di Zoario, però, la realtà si mescola alla fantasia e il rapporto con un animale diventa l’occasione per evocare un problema, un avvenimento, uno stato psicologico. In realtà il libro tratta delle grandi questioni della nostra vita, del nostro modo di vivere e morire. Nel racconto dedicato al merlo di santa Giacinta, ad esempio, il tema è quello della bellezza, del suo disprezzo da parte del ’volgo’ contemporaneo e dell’impegno dei pochi sacerdoti che ancora sanno difendere questa fondamentale componente del mondo».

 

Il merlo, però, lasciava sul davanzale di Giacinta una clematide, un fiore che lei definisce “inutile”. La bellezza è davvero priva di utilità?

 

«La bellezza è inutile per chi pensa che tutto possa e debba essere monetizzato. È utile invece dal punto di vista spirituale. In questo momento dalle finestre di casa mia, a Santa Marinella, vedo un tappeto di clematidi sul tetto di una casetta situata a poche decine di metri».

 

Dai suoi racconti sembra che lei abbia una preferenza per l’airone.

 

«Tutti gli animali mi sono cari. E ognuno di essi, nel mio libro, è simbolo di un particolare aspetto della nostra vita. Dalla cicogna, protagonista del primo racconto incentrato sul tema della nascita, all’airone appunto, che dà il titolo all’ultimo racconto: una riflessione sulla morte, sulla malattia, sulla possibilità di una rinascita al di là della morte».

 

In Zoario ci sono anche riferimenti autobiografici…

 

«Il mio libro, in effetti, è anche un’autobiografia per frammenti. Tra le sue pagine emerge il ricordo dei miei genitori – di cui parlo nel racconto sulla falena e in quello sui gabbiani, – ma anche di altre figure che, ormai scomparse, hanno lasciato un segno indelebile nella mia vita, come Vincenzo Cardarelli, Raffaello Brignetti, il poeta Cimatti, e, nell’ultimo racconto, due grandi personaggi del Novecento: lo studioso delle religioni Mircea Eliade ed il poeta Ezra Pound».

 

In un racconto lei afferma che nella nostra vita agisce una sorta di economia provvidenziale che bisogna ascoltare anche quando sembri contraddire i nostri progetti. Che cosa vuol dire?

 

«Lo spiego nel racconto dedicato a santa Giacinta. La giovane, costretta a prendere i voti contro il suo volere, per dieci anni si ribellò alla sua sorte, accettando le regole monastiche solo formalmente ma vivendo in realtà con sfarzo nel suo appartamento di due stanze in un monastero vicino a Viterbo. Un giorno, però, cominciarono i guai: morirono alcuni suoi familiari e lei s’ammalò gravemente. Il frate che la visitò, scandalizzato dal lusso di cui si circondava, non volle nemmeno confessarla. Allora la futura Santa capì che tutto quello che era avvenuto era legato a un disegno provvidenziale e da quel momento accettò la sua condizione, vivendo il resto dei suoi giorni poveramente in una cella. Ma una cosa del genere la si può capire, spesso, solo al termine della vita».

 

La nostra vita, insomma, è un po’ come un tappeto di cui vediamo la parte sottostante, i fili dell’orditura, ma solo raramente, e solo alla fine, il disegno complessivo?

 

«Non riusciamo a capire bene gli eventi e la traiettoria seguita dalla nostra vita finché siamo nel pieno delle nostre forze. Solo quando si avvicina il declino, e quel tappeto è ormai tutto disegnato, alcuni di noi hanno la possibilità di far capolino dall’altra parte e vedere il disegno. Non tutti, però, ci riescono».

 

Perché, secondo lei, abbiamo rotto la nostra relazione con la Natura?

 

«Abbiamo sviluppato una sorta di idolatria della tecnologia. Questa ovviamente non dev’essere rifiutata, sia ben chiaro, poiché fa parte dello sviluppo umano e, sia pure in forme rudimentali, è sempre esistita ed ha aiutato l’uomo a garantirsi risorse. Oggi, tuttavia, si direbbe che non sappiamo fondere il progresso tecnologico con la Natura. Di una rosa non interessa ciò che la rende una rosa, ossia il colore, il profumo, l’aspetto, bensì la composizione chimica per l’utilizzazione da parte dell’industria. È indispensabile, ma se la vediamo solo da questo punto di vista, è la morte della rosa».

 

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Tratto dal Giornale di Brescia dell’11 gennaio 2002.

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