L’Acerba o della Divina Sapienza

Il 16 settembre 1327 veniva arso vivo a Firenze Cecco d’Ascoli, il cui vero nome era Francesco Stabili: aveva poco meno di sessant’anni. Così si concludeva la lunga persecuzione che aveva subito prima a Bologna dove nel 1324 l’inquisitore Lamberto di Cingoli gli aveva inflitto la sospensione dall’insegnamento dall’università per alcune proposizioni sulla cognitio futurorum contenute nel commento alla Sphaera mundi del Sacrobosco. Dopo quella condanna si era trasferito a Firenze, alla corte del duca di Calabria, dove svolgeva le funzioni di medico e astronomo. Ma alcuni ambienti ecclesiali, che poco gradivano il suo insegnamento, giunsero a tessere intorno a lui una serie di accuse che riassunse Francesco d’Accursio chiedendo e ottenendo che fosse processato.

La sua opera principale in volgare, L’Acerba, abbreviazione del titolo originario Acerba aetas, si continuò a copiare e stampare nel corso dei secoli sebbene non fosse facile il suo linguaggio, un italiano di derivazione umbro-marchigiana, denunciasse spigolosità e arcaismi e una certa petrosità; ma era pur sempre la più significativa enciclopedia in versi del secolo XIV dove in cinque libri mescolava descrizione del cielo e del cosmo con quello dei vizi, dell’animo umano, del simbolismo di animali e pietre, e considerazioni di carattere sapienziale. Ora l’editrice La Finestra ne pubblica un testo sicuro e accettabile grazie a Marco Albertazzi che ne è il curatore e ha anche il merito di accompagnarlo con il commento latino secondo la tradizione antica. Inoltre ha riprodotto in cd l’editio princeps di Sessa del 1501 con le stupende xilografie che la scandiscono e commentano. Un testo che rivela un autore fondamentalmente ortodosso, come attestano anche gli ultimi versi del poema dedicati al Cristo: «Ciò che è fatto era vita in Lui,/ sì come forma nella mente eterna:/e questa vita è luce di nui”. Né era certo un astrologo che negava il libero arbitrio. Pianeti e stelle, quali creature e ministri di Dio, inclinavano ma non obbligavano, come aveva scritto d’altronde lo stesso Tommaso d’Aquino: “Non fa necessità ciascum movendo,/ ma ben dispone creatura humana/ per quallità, qual l’anima seguendo/ l’arbitrio abandona e fassi vile”.

Forse ad attirare le ire dei persecutori fu la sua appartenenza alla setta dei Fedeli d’amore che rappresentava nel cristianesimo medievale quello che era ed è il sufismo nell’islam. Su questo suo legame ha scritto pagine illuminanti Luigi Valli nel Linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d’amore che ha ripubblicato qualche anno fa la Luni editrice, alla quale rimando anche perché chiarisce i motivi profondi della polemica di Cecco nei confronti di Dante, accusati di essersi allontanato per tanti aspetti dalla dottrina della setta. Al cuore della dottrina dei Fedeli d’amore, che influenzò anche i templari, vi era la figura simbolica della Donna nella quale l’Intelligenza attiva della filosofia pagana si era fusa con la Rivelazione diventando mistica Sapienza, amata dall’anima pura, offuscata dal peccato e restituita dal Cristo agli uomini ma nascosta e combattuta dalla corruzione ecclesiale di allora. Sulla Sapienza Marco Albertazzi ha scritto un saggio illuminante che per ora può essere letto nel sito airesis, dove fra l’altro egli scrive” che “Cecco ha avvertito la necessità di scrivere la sua opera non perché sentisse il bisogno di ‘illuminare’ i suoi contemporanei con una scienza di tipo empirico, ma al contrario perché riteneva minacciato alla base il sapere tradizionale”. Non a caso un giovanissimo Petrarca gli scriveva un sonetto che così cominciava enfaticamente: “Tu sei il grande Ascholan che ‘l mondo allumi,/ per gratia de l’altissimo tuo ingegno,/tu solo in terra de vedere sei degno/ experientia de gl’eterni lumi”.

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Cecco d’Ascoli, L’Acerba, a cura di Marco Albertazzi, La Finestra, Lavis 2000, pp.544, euro 100.

Tratto da Avvenire.

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