Caro Martin, Caro Fritz…

L’epistolario dei fratelli Heidegger tra politica e affetti familiari

Martin Heidegger è, ancora oggi, un «caso politico». Uno dei più grandi filosofi del Novecento, che ha fortemente condizionato gli sviluppi del pensiero fino ai nostri giorni, subisce da decenni attacchi virulenti, periodiche campagne di stampa tese a screditarlo come uomo e come pensatore. Lo si è presentato, da più parti, quale teorico di riferimento del nazismo, in conseguenza dell’assunzione del Rettorato all’Università di Friburgo nel 1933 (incarico che mantenne per pochi mesi), nonché per il tratto destinale della sua filosofia. La polemica si è fatta incontenibile dopo la pubblicazione dei cosiddetti Quaderni neri, ed ha indotto il professor Friedrich-Wilhelm von Hermann, ultimo Segretario personale di Heidegger, e il professor Francesco Alfieri,  dell’Università Lateranense, a dare alle stampe il volume Martin Heidegger. La verità sui Quaderni neri (Morcelliana, 2016) per chiarire le cose. Nelle sue pagine si dimostrava che, per comprendere le affermazioni heideggeriane contenute nei taccuini, è necessario inquadrarle nell’iter speculativo del filosofo, centrato sulla storia dell’essere. Pertanto, le letture decontestualizzate dei frammenti, proposte dai curatori dei Quaderni neri, risultavano fuorvianti ed errate. E’ da poco nelle librerie per i tipi dell’editrice Morcelliana un nuovo volume curato da von Hermann ed Alfieri, che può aiutare a fare ulteriore chiarezza sul «caso Heidegger». Si tratta di Martin Heidegger, Fritz Heidegger, Carteggio 1930-1949 (euro 25,00).

Fritz, fratello del filosofo, svolse, come riconobbe Hannah Arendt, un ruolo fondamentale nella vita affettiva di Martin. Autodidatta, durante i giorni drammatici della seconda guerra mondiale, trascrisse a macchina molti manoscritti del celebre fratello, migliorando, sotto il profilo linguistico, anche passi poco chiari degli stessi, con l’approvazione dell’autore. La trascrizione mirava a preservare gli scritti da possibile distruzione, visto che il fronte bellico incombeva su Friburgo. Ora, grazie alla traduzione di Alfieri, sono disponibili per il lettore italiano le lettere che i due si scambiarono negli «anni decisivi» 1930-1949, centrate principalmente sulla discussione di temi politico-sociali. Non si tratta, però, del carteggio completo, che sarà pubblicato fra qualche anno. Mancano diverse lettere e, nelle stesse missive che compaiono nel testo, vi sono omissis relativi a persone ancora in vita.  Per questa ragione non è possibile formulare un giudizio definitivo sui contenuti dell’epistolario. Sappia, comunque, il lettore, che le epistole dei due ci introducono nel mondo familiare, positivamente strapaesano e provinciale, degli Heidegger. La nostalgia del passato, il ricordo della celebrazione delle festività natalizie nella casa paterna, indicano lo stigma intellettuale e  sentimentale che lega, nel profondo, i due fratelli e che, peraltro, è testimoniato dalla evocativa e suggestiva Appendice fotografica che chiude, impreziosendolo, il volume (di rilievo la foto n. 16, del maggio del 1957, che ritrae assieme Heidegger e Martin Buber). Il rimpianto dell’infanzia perduta, così come dell’Armonia mundi, divine lo spaccato attraverso il quale i due fratelli guardano agli avvenimenti della Grande storia che incombono su di loro e sulle loro famiglie.

Il tema dell’Heimat, della Patria materna, accogliente, il ricordo dei rapporti comunitari e solidali del paese natio, diventano termini di paragone ineguagliabili nel confronto con la modernità nichilista. Trasmettere le tradizioni scrive Martin, il 17 dicembre 1930 è: «molto più facile in campagna e nel contatto immediato con la terra e la patria che nelle città […] perciò è importante che coloro che hanno la fortuna di poter vivere lì […] prendano l’iniziativa e modellino in modo esemplare la loro vita» (p.14). Da tale stato d’animo di fondo, fin dalle prime lettere, si manifesta l’interesse per i temi politici, sollecitato dall’incalzare degli avvenimenti. Sia Martin che Fritz sottolineano la necessità di un «risveglio» tedesco e guardano con interesse al nascente nazionalsocialismo. In una missiva del 18 dicembre 1931, Martin invita Fritz a leggere il Mein Kampf. Il filosofo definisce debole la parte autobiografica del libro, ma aggiunge: «Che questo uomo abbia e abbia avuto un istinto politico sicuro e fuori dalla norma, là dove tutti noi eravamo ancora annebbiati, nessuna persona ragionevole può più negarlo» (p. 17). L’ascesa del nazismo è collocata all’interno del scontro destinale per la salvezza dell’Europa. Fritz ritorna in tema il 13 gennaio 1932, nel sostenere che le idee del nazismo: «saranno ben presto moneta comune del popolo» (p. 27), pur mostrando, da uomo di destra conservatrice, stima nei confronti di Brüning e riserve nei confronti dei rappresentanti di spicco del nuovo movimento. Martin sostiene di rimando: «Oggi c’è soltanto una linea chiara, che separa nitidamente destra e sinistra. La mezza misura è tradimento» (p. 28). Insomma, attorno al 1933 il filosofo si avvicina al nazionalsocialismo, lo ritiene movimento destinale atto al risveglio dei tedeschi, e il 4 maggio 1933 comunica al congiunto: «Ieri mi sono iscritto al partito, non solo per convinzione interiore, ma anche perché sono cosciente che solo in questo modo è possibile una depurazione e una chiarificazione dell’intero movimento» (p. 41).

Affermazione di cui tener conto: Heidegger, anche nel momento di massima vicinanza al nazionalsocialismo, presenta la propria azione politica come mirata ad una «rettifica» interna dello stesso. Ciò spiega l’assunzione del Rettorato, ma anche le successive dimissioni, sorte dalla constatazione che la «rettifica», che sarebbe dovuta passare attraverso l’attribuzione di un ruolo basileico alla filosofia, era storicamente impossibile. Da allora, l’impegno di Heidegger, come dimostrano le missive, si rivolgerà alla storia dell’essere e alla definizione del sistema filosofico. Ma, è il caso di chiedersi, in che termini il filosofo avrebbe voluto «rettificare» il nazismo? Fondando il suo interventismo culturale su una visione del mondo antimoderna. Così scrive, infatti, nel 1946, in un momento tragico della propria esistenza: «[…] anche se sembra che il mondo tradizionale debba sfasciarsi. Sta a noi [scegliere], se vogliamo noi salvare lo spirito del tempo precedente invisibile, o se vogliamo rinunciare ad esso decadendo in ciò che è abituale dell’odierno e del suo logorio» (p. 157). Ciò lo porta a leggere il bolscevismo, non solo quale espressione politica del moderno, a latere dal capitalismo atomizzante, ma addirittura come il suo volto ultimo: «con la Russia non è giunto all’Ovest qualcosa di straniero, ma noi stessi nella forma assoluta di ciò che è compiutamente moderno ed europeo» (p. 147).

Il rischio che si correva allora era rappresentato dalla grande minaccia che bolscevismo e americanismo si riunissero in una unica forma essenziale per distruggere il carattere tedesco: «in quanto centro dell’Occidente stesso» (p. 98), nella sua essenziale relazione con la Grecia arcaica, testimoniata da Hölderlin. La Parola poetica quale casa dell’Essere, in un mondo dominato dal suo oblio, divenne per Heidegger, nella prospettiva dell’Evento e della storia dell’Essere, il compito cui attese fino alla fine dei suoi giorni. Dalla lettura del Carteggio si evince che la reductio ad hitlerum, dei malevoli critici di Heidegger, non regge. Essa è lo strumento di cui si avvalgono assertori dell’intellettualmente corretto, per tacitare una delle voci più significative della filosofia europea di cui il nostro tempo ha disperato bisogno per lasciarsi alle spalle l’impasse contemporanea.

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Giovanni Sessa è nato a Milano nel 1957 e insegna filosofia e storia nei licei. Suoi scritti sono comparsi su riviste e quotidiani, nonché in volumi collettanei ed Atti di Convegni di studio. Ha pubblicato le monografie Oltre la persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma 2008) e La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano 2014). E' segretario della Scuola Romana di Filosofia Politica, collaboratore della Fondazione Evola e portavoce del movimento di pensiero "Per una nuova oggettività".
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