Le banalità di Deaglio

Uno dei ponti sul Danubio distrutti durante l'assedio di Budapest
Uno dei ponti sul Danubio distrutti durante l’assedio di Budapest

Se si vuole capire subito quale sia il grado di attendibilità del libro di Enrico Deaglio intitolato La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, (Feltrinelli, Milano 2002), bisogna cominciare con l’esaminarne la parte intitolata “Notizie sparse dal dopoguerra”.

Si tratta di un’appendice alquanto raccogliticcia, nella quale è contenuta la bibliografia che Deaglio vuol far credere di aver consultata. Il primo riferimento bibliografico consiste in quel “bel ritratto della vita a Budapest in un quartiere ebraico durante la guerra” che è costituito dai libri di Giorgio e Nicola Pressburger. (Per chi non lo sapesse, i gemelli Pressburger arrivarono in Italia nel 1956. Nicola, ora defunto, fece ovviamente una rapida carriera nel giornalismo, mentre Giorgio dirige oggi l’Istituto Italiano di Cultura nella capitale ungherese ed è celebre per avere stabilito che “la cultura italiana è Benigni, non Ariosto”). Tra i libri dei Pressburger citati da Deaglio è degno di menzione quello in cui viene ricordato con accenti commossi l’Inno alla merda (sic), composto da uno dei due gemelli per rendere omaggio “con parole solenni alla materia che domina il mondo, provoca le gioie più lievi e il dolore più profondo” (L’elefante verde, Marietti, Genova 1988, p. 73).

Passando dalla coprolalia alla storiografia, tra i “pochi libri di storia che trattano dell’Ungheria durante la seconda guerra mondiale” Deaglio cita I falsi fascismi di Mariano Ambri, L’epoca delle rivoluzioni nazionali di Michele Rallo e Roma-Berlino-Salò di Filippo Anfuso. Di Ferenc Szálasi viene citato soltanto il Discorso agli intellettuali (in un “Quaderno del Veltro” del 1977), ma vengono ignorati i discorsi contenuti in Kitartás! (Ed. di Ar, 1974) e anche il più recente Diario dal carcere (All’insegna del Veltro, 1997).

i-falsi-fascismiPiù che ovvia la poca familiarità dello “storico” Deaglio con la pubblicistica crocefrecciata; ma neanche con la saggistica liberaldemocratica egli sembra trovarsi a suo agio. Di István Bibó, infatti, viene citata l’edizione francese (L’Harmattan 1986) del saggio sulla Miseria dei piccoli Stati dell’Europa occidentale. È comprensibile che non venga citata l’edizione italiana (Il Mulino 1994), che tra l’altro è stata finanziata da un ente filantropico non ignoto a Deaglio, ossia la Fondazione Soros; ciò è dovuto al fatto che la prima edizione della Banalità di Deaglio risale al 1991 e le edizioni successive (fino all’undicesima del 2002) non sono più state aggiornate. Ma è evidente che Deaglio non ha letto neanche l’edizione francese da lui citata, perché egli scrive, testualmente, che il libro di István Bibó contiene una “riflessione sugli avvenimenti ungheresi, con particolare riguardo all’antisemitismo”. Di un particolare riguardo all’antisemitismo, invece, nel saggio di Bibó non c’è neanche l’ombra, nemmeno in quei capitoli (il secondo e il quarto) che meglio si sarebbero prestati a trattare di tale argomento.

A riferimenti bibliografici così abborracciati, sommari e disinvolti, corrisponde d’altra parte, nella Banalità del bene, una rievocazione dei fatti storici che, per usare un eufemismo, definiremo “giornalistica” e degna in particolare del “Diario” diretto da Deaglio. Citiamo soltanto alcuni punti, a titolo di esempio.

A p. 35 Deaglio dice che gli ebrei venivano “accusati” dagli Ungheresi di avere aderito alla Repubblica dei Consigli presieduta dall'”ebreo Béla Kun”. Di fronte alla parola “accusati”, il lettore è indotto a pensare che tale “accusa” non fosse necessariamente fondata, ma procedesse da un preconcetto atteggiamento antisemita. Infatti Deaglio evita accuratamente di dire che gli ebrei d’Ungheria avevano effettivamente e massicciamente appoggiato la Repubblica dei Consigli, i dirigenti della quale, d’altronde, erano quasi tutti ebrei.

Sempre a p. 35 si afferma che, dopo la prima guerra mondiale, tra i territori ungheresi ceduti al nuovo Stato jugoslavo vi fu anche la Slovenia. Uno studente di liceo dovrebbe sapere che nell’Impero austro-ungarico la Slovenia era governata da Vienna, non da Budapest; Deaglio invece lo ignora.

Ancora a p. 35, l’Ungheria degli anni Venti e Trenta è un paese “profondamente cattolico”. Forse il “profondamente” è di troppo. E non solo perché lo Stato ammetteva il divorzio; non solo perché, oltre ai cattolici c’erano ebrei e luterani, rappresentati gli uni e gli altri alla Camera Alta; ma anche perché in Ungheria era (ed è) molto consistente la comunità calvinista, tant’è vero che la terza città del Paese, Debrecen, è nota come “la Roma calvinista”.

A p. 39, Deaglio dice che László József Bíró era a Budapest, tra le due guerre, quando inventò la penna a sfera. A questo proposito, sarebbe stato interessante precisare che Bíró ottenne il brevetto della sua invenzione nel 1938; che iniziò a produrla in proprio negli anni della seconda guerra mondiale, quando ormai si trovava in Argentina; che nel 1944 vendette il brevetto, per una cifra irrisoria, a uno dei suoi finanziatori francesi; e che, in ogni caso, le prime biro arrivarono in Europa subito dopo la guerra. Certo, se la penna a sfera fosse stata messa in circolazione prima della guerra, non ci sarebbe nulla di troppo strano e di troppo sospetto nel fatto che lunghi passi del Diario di Anna Frank sono stati scritti con la biro. Ma, purtroppo per il Diario (di Anna Frank) e per il “Diario” (di Deaglio), le cose non andarono in questo modo…

A p. 40, Gyula Gömbös fonda il Partito della Difesa della Razza. È falso. La formazione politica diretta da Gömbös si chiamava Unione Ungherese di Difesa Nazionale (Magyar Országos Védelmi Egyesület). A quale “razza” si sarebbe mai potuto richiamare un nazionalista ungherese?

Sempre a p. 40, ce n’è una un po’ più grossa. Rievocando il progetto sionista di Theodor Herzl, Deaglio menziona le “terre spopolate” della Palestina (SIC!!!)

Alle pp. 50-51 si parla del rogo dei libri di autori ebrei decretato dal governo ungherese nel 1944. Secondo Deaglio, “la lista comprendeva centoventi autori ungheresi e centotrenta stranieri”. A volte Deaglio mette a confronto eventi storici interbellici ed eventi postbellici analoghi. Stavolta però si guarda bene dal farlo, altrimenti dovrebbe parlare del rogo dei libri “di ispirazione fascista e antidemocratica” che fu decretato il 28 aprile 1945 dal governo di Béla Miklós, il badoglio ungherese. Se la lista dei libri proibiti compilata nel 1944 comprendeva in tutto duecentocinquanta autori, la lista compilata dal governo democratico si estendeva per centosettanta pagine e conteneva qualche migliaio di titoli.

A p. 59 l’emblema delle Croci Frecciate è descritto così: “il simbolo della Corona di Santo Stefano trafitta dalle frecce, e non molto dissimile dalla svastica hitleriana”. Bisogna dire che la fantasia iconopoietica di Deaglio è piuttosto fervida, dal momento che il simbolo crocefrecciato, invece, consisteva più semplicemente in una croce greca con i bracci terminanti a punta di freccia.

Ma l’argomento in cui Deaglio scatena completamente la propria fantasia è quello della demografia ebraica in Ungheria. A p. 37 gli ebrei della piccola Ungheria sono il “cinque per cento della popolazione totale del paese”, vale a dire una percentuale corrispondente all’incirca alla cifra di 35.000. Invece a p. 119 gli ebrei della “Grande Ungheria” (cioè l’Ungheria successiva all’arbitrato di Vienna, comprensiva della Transilvania del Nord) sono valutati nella cifra di 825.000. Eppure a p. 48 ce n’erano, nel medesimo periodo, 700.000. A p. 114, Adolf Eichmann riesce a sterminarne… 5.000.000!!! Un vero e proprio miracolo, che fa il paio con quello della penna a sfera usata da Anna Frank prima che Bíró la inventasse…

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