Affinità e differenze tra culture

In questo saggio tratterò di vari mondi culturali ad un certa fase del loro sviluppo storico. Farò riferimento alla cultura nordica, al cristianesimo, all’ebraismo, ai Greci.

I Canti dell’Edda costituiscono una raccolta di poemi epici composti in Islanda da esuli norvegesi che abbandonarono la loro terra quando il primo sovrano norvegese privò i vari duchi di quel luogo della loro indipendenza. La materia da cui attingono è la mitologia nordica. Un letterato duecentesco islandese li rimaneggerà, alterandone il contenuto paganeggiante.

Per conoscere i costumi e la cultura delle genti nordiche ad una certa fase della loro storia, molto indicativa risulta la lettura dell’Havamal, un libro che compone i carmi eddici in cui è Odino a parlare e ad esserne il protagonista. Il libro pare risalga al decimo secolo, ovvero precedentemente all’introduzione del cristianesimo in Norvegia e in Islanda.

Se lungo l’intero corso del medioevo l’ellenismo non cesserà di influenzare la cultura di tale periodo storico (tanto che tali influssi verranno del tutto meno con la piena affermazione della cultura moderna agli inizi del seicento), anche i popoli che in quei tempi vivevano ai margini dell’Europa ne risentirono.

Del resto, è accertato come nell’evo antico popoli quali, ad esempio, gli Etruschi, avessero rapporti commerciali sia con i Celti dell’Europa centro-orientale che con i popoli che vivevano in prossimità del Baltico, importando prodotti come l’ambra (tali popoli ne trassero le loro prime rune, ovvero i loro primi segni alfabetici). Successivamente i Romani sostituirono gli Etruschi in quei traffici. Che anche i Greci intrattenessero commerci con quei popoli dell’Europa centrale e nordica è forse attestato indirettamente da alcuni loro storici che ne menzionano alcuni. Nei loro testi i Celti sono citati assieme ad altri barbaroi (che ai Greci erano più o meno vicini), quali ad esempio gli Illiri. Ebbene, con estrema probabilità anche gli ellenici, portatisi a nord-ovest presso il Danubio, raggiungevano successivamente le coste baltiche seguendo il corso dell’Elba. In alternativa, i Romani ellenizzati continuarono nel tempo a seguire i suddetti tragitti commerciali.

Ai tempi di Alessandro Magno il suo precettore Aristotele (precursore del suo pensiero fu Platone) fu, a mio parere, una tipica espressione della cultura ellenistica, anche se la sua filosofia differiva parzialmente dalle credenze culturali e religiose dei Greci del suo tempo.

Ebbene, attraverso la lettura dell’Havamal, credo di aver colto dei riscontri con il clima culturale che si respirava in Grecia ai tempi del monarca macedone, tanto che i popoli che lo redassero esprimevano una situazione socio-esistenziale assai simile a quella della Grecia dell’anzidetto periodo. L’aver fatto riferimento all’Edda, ovvero a popoli tanto distanti dal mondo mediterraneo, accerta come anche popolazioni ad esso più limitrofe, come i Germani, presentassero tratti etnografici analoghi. Insomma, sto sostenendo come nel corso del medioevo influenze ellenistiche fossero presenti in tutta Europa, anche presso le stirpi più barbariche.  

Ed è soprattutto con riferimento alla mia conoscenza di Aristotele, più che, ad esempio, dei culti ellenistici, che ho potuto trovare nell’Havamal i riscontri del tipo suddetto.

L’elemento che spicca maggiormente dal testo epico da me esaminato è il realismo. Tanto che le rune divengono i contrassegni di conoscenze di carattere scientifico (ad esempio medico), piuttosto che di precetti comportamentali. Ciò che poi colpisce è l’assenza in esso del valore dell’eroismo fine a se stesso, dello slancio generoso in battaglia. Al suo posto sembra esserci un concetto di magnanimità e di onorabilità più accorto, che si esprimerebbe in sentimenti benevoli e disinteressati rivolti ai propri cari e ai propri amici, ovvero alla propria tribù, alla propria gente. Vi è dunque da ritenere che quei barbari fossero più umani di come si potrebbe credere. Se episodi di stupri e di selvagge razzie da parte di queste popolazioni sono accertati, ciò non caratterizza forse molte guerre, di tempi anche recenti, combattute anche da popoli civili?

Certamente il loro paganesimo non gli faceva denigrare, o quantomeno giustificare, le loro pratiche guerresche. Per quanto, vi è da ritenere che, perlomeno in linea di principio, trattassero i loro nemici rispettosamente, anche quando non reputati come loro pari (così come ai tempi di Aristotele, ma anche in periodi precedenti, in Grecia lo schiavo, il barbaro, veniva trattato con un certo ritegno).

Come ogni popolo pagano il loro senso etico non era massimamente sviluppato. Nell’Havamal è di fondamentale importanza l’accoglienza e il buon trattamento riservato allo straniero ospite, in quanto una società chiusa in se stessa, che non intrattiene scambi di ogni tipo con altre società, è destinata a deteriorare e a perire.

L’azione di contro al vivere pacifico, perlomeno dunque in una certa misura, veniva accettata di buon grado (ma in modo irragionevole). Ciò perché, in fondo (perlomeno secondo una certa prospettiva), non si era ancora acquisita vera coscienza dei pericoli che essa in ogni caso comporta (come il rischio di morire in battaglia, la possibilità di venire attaccati, da un momento all’altro, da un popolo confinante, la vendicativa ritorsione di popoli magari cruentemente sconfitti e depredati). Forse l’uomo d’azione guarda con stupefazione alle eventuali nefaste conseguenze del suo operare, non immaginandone, nel momento in cui vi si accinge, le possibili, negative, ripercussioni, sia immediate che future.

Se il cristianesimo non può forse propriamente venire annoverato fra i culti ellenistici, certamente presenta degli aspetti che lo accomunano con essi.

In quel capolavoro che è il Vangelo secondo Matteo il valore dell’amore ha estensione apicale, tanto che la moderna coscienza morale ha fatto proprio tale essenziale aspetto del cristianesimo (perlomeno il suo lato puramente etico-comportamentale). Se non ché in Gesù l’amore per l’umanità è portato all’estremo, tanto da annullare e sacrificare completamente se stesso al bene dell’altro. E ciò che ha reso il Nazareno un personaggio storicamente unico fra gli uomini d’eccezione, degno della più alta lode per la sua commovente magnanimità.

È piuttosto facile apprendere il contenuto essenziale del suddetto vangelo. Sin da piccoli, cresciuti in un paese cattolico, siamo stati educati ad una coscienza morale di tipo cristiano, tanto che precocemente si è formata in tutti noi l’idea cristiana di bontà.

Per il resto, in continuità con i culti ellenistici, in esso è presente sia una soteriologia che, mi sembra, un’escatologia. Ciò che, perlomeno nel Vangelo secondo Matteo, mi pare non esser presente, è una teologia, una definita metafisica del cristianesimo, in mancanza della quale non è possibile valutarne pienamente la portata, chiarificandone ogni significato. Se Gesù è stato ebreo allora la sua dottrina potrebbe richiamarsi alla teologia ebraica che forse, nell’intera Bibbia, emergerebbe (fra l’altro, ritengo, solo parzialmente) nella Genesi. Specie odiernamente la visione teologica cattolica predominante pare ancora ispirarsi in misura notevole ad Aristotele (più a costui che a Platone).

Per quel che riguarda l’aspetto escatologico del vangelo in esame, esso pare prospettare anche un’imminente mutamento politico, pacifico, dovuto al cambiamento del modo d’essere degli uomini, o perlomeno di gran parte di essi. Una situazione di equità e di giustizia, severa ma non spietata, si realizzerà più o meno a breve termine, secondo il vangelo. Quando Gesù afferma di voler dividere, ad esempio, i padri dai figli, si sta pronunciando, a mio parere, contro il familismo a favore di una condizione di piena democraticità.

Ma veniamo all’aspetto soteriologico. L’uomo, più della giustizia degli uomini, deve temere il castigo della sua coscienza. Il riferimento ai Cieli, ovvero alla componente spirituale dell’uomo, può costituire sia la sua estrema salvezza e letizia già durante la sua vita – se non esclusivamente in essa (è il caso di Cristo, in virtù della sua perfezione morale) – sia la sua più o meno acuta punizione (sulla base della gravità dei peccati commessi). In tal caso i Cieli si identificano con la Geenna, con l’inferno, anche (o solo) in terra.

Se l’uomo è capace d’amore, di benevolenza, l’amore di sé, l’egoismo, non può che assumere deteriori tratti femminei, di contro alla virilità spirituale insita nell’esercizio della carità.

Nel Vangelo secondo Matteo l’egoismo, l’attaccamento a se stessi, è espresso, ad esempio, dalla codardia di Pietro in occasione del suo triplice rinnegamento del Messia, piuttosto che dall’inutile formalismo dei Farisei. Costoro, per un conformistico senso di vergogna sociale, adempiono sempre alle loro insensate regole comportamentali.

Una voluttà femminea spinge indifferentemente uomini e donne a desiderare la carezzevole, languida, accettazione di se stessi da parte del numero maggiore di persone, senza ovviamente ricambiare realmente gli altri (o meglio, alcuni di essi) dell’amore che provano per noi (che è, inoltre, un vano piacergli, in fondo, sessualmente, magari persistentemente ossessivo).

La sessualità (perlomeno in alcuni casi) non è che volontà di sopraffazione attenuata (o meglio, non eclatante), conflittuale espressione d’odio. Ma al malvagio non potrà che piacere il malvagio. E, se qualcuno mi attrae, soccombo ad esso. Il cattivo verrà amato, il buono denigrato. Il più buono fra gli uomini, Gesù, è stato oltraggiato, torturato e mandato a morte. In vita è stato socialmente distrutto (e apprezzato solo dai buoni), proprio perché amorevolmente anticonformista. Ma Gesù è anche colui che il meno possibile tiene a sé. I soli dolori che prova sono di tipo empatico. L’egoista, al contrario, aborrisce il dolore in quanto espressione d’odio nei confronti della sua persona. La morte, essendo il suo pieno annientamento, costituisce l’atto d’odio più terribile che possa ricevere. Ecco perché viene oltremodo temuta. Ma si può essere oggetto di oltraggi talmente atroci da preferirla ad essi.

Con una certa coerenza dunque il cristianesimo è sessuofobico, condanna la carne, la materia. Dei bambini, proprio perché asessuati, è il Regno dei Cieli (si dice nel vangelo).

Ovviamente l’uomo, finché vive, non può ignorare del tutto la sua materialità. Per amore del prossimo può tuttavia mitigare, ingentilire, ogni suo gesto, rinunciare ad assumere atteggiamenti malevoli, infine può essere d’aiuto agli altri. In tale triplice modo la sessualità è stemperata nelle sembianze del sentimento. Gesù non condanna poi le più dolci espressioni di letizia, quali la tenerezza o la convivialità. Essa consiste anche nel provare il sentimento della simpatia, stato d’animo in cui si gioisce della sollevante sensazione di alleggerimento provata dall’altro nei momenti gioiosi della vita.

Altro testo della tradizione cristiana di notevole interesse intellettuale è la più importante epistola di Paolo di Tarso, la Lettera ai Romani.

Anche in essa è presente un’escatologia, presentando inoltre, a mio parere, alcuni risvolti metafisici. Gli aspetti soteriologici dell’epistola sono invece problematici quanto all’interpretazione della loro portata.

Credo che metafisicamente, per san Paolo, Dio sia tutto quanto esiste. Il male, di conseguenza, non può esistere. Cosa differenzierebbe l’uomo da Dio? Un pieno dislivello intellettuale. Se Dio avesse un’intelligenza infinita (in quanto assoluta), l’uomo sarebbe forse dotato della più totale assenza di conoscenza. E l’uomo non deve sostituirsi a Dio nel suo operare, per mezzo delle sue umane conoscenze. Certamente per Paolo il mondo è provvidenzialmente orientato al raggiungimento di uno scopo ultimo, che certamente verrà riconosciuto tale anche dall’uomo. Ma l’uomo non deve intervenire politicamente nel mondo, nel tentativo di raddrizzare le cose, rispettando ogni status quo.

Nella lettera Paolo parla, ritengo quale astrazione teorica, quale fatto irrealizzabile, della possibilità da parte dell’uomo di agire moralmente per utilità. Il che è materialismo, per cui l’evangelizzatore condanna ciò.

Negata dunque la possibilità di un’etica egoistica, vediamo quale sia per l’uomo la scelta più ragionevole da compiere in vita.

Ora, tutti soffriamo, la nostra personale vita è vana. Ma il conformista se la passa comunque meglio di chi non lo è (soffrendo meno).

Se poi l’etica è inattuabile, per cui la società non sarà mai pacificata (perlomeno su basi utilitaristiche), la persona morale e quella immorale non scamperanno identicamente al pericolo. Anzi quest’ultima se la passerà meglio dell’altra, in quanto agisce dovutamente laddove l’altra, non agendo, si lascia travolgere dagli eventi.

Ma a questo mondo, per san Paolo, si può essere morali solo per fede. Ma la fede non apporta alcun miglioramento alla propria condizione esistenziale.

Essa, infatti, in linea di principio, non è neanche minimamente interessata alla propria persona. Ciò comporta che, se al mondo tramite la fede si realizzano il vero amore e la vera amicizia (imperituri e pieni – che riempiono la vita), ciò al cristiano poco importa. E se il mondo diventa un mondo di pace, per cui egli non deve più temere alcuna sofferenza, ancora una volta, poco gli interessa. Nel mondo imperfetto attuale, inoltre, se la passa peggio dell’egoista (in quanto più menefreghista). Essendo empatico soffrirà maggiormente di quest’ultimo, in quanto al mondo i sofferenti e gli oppressi sono in gran numero.

Insomma, la fede cristiana è del tutto irragionevole. È irrazionale. Chi ha fede ha, concretamente, tutto da perdere e nulla da guadagnare.

Ora, Dio ci rivela la sua Legge. Per l’uomo è incomprensibile. Non resta che abbandonarvisi ciecamente, solo e soltanto, dunque, attraverso un puro atto di fede. La Lettera è un testo antignostico e nel modo più pieno.

Concludo chiarendo i concetti (connessi) di fede, speranza e grazia.

Chi ha fede non può che agire nel bene (è giustificato, reso giusto). Ovvero non può peccare. E non potrà che essere buono anche nel suo cuore. Poi, certamente, tanto più si ha fede tanto più si sarà buoni, moralmente perfetti (ciò emerge nell’epistola).

La speranza verte (quantomeno principalmente) sulla giustezza della nostra fede. Avendo solo fede in ciò che facciamo e che sentiamo, non possiamo che svolgere un ragionamento simile: ‘spero che la mia fede sia vera, fondata’. Lo posso solo sperare, da cristiano, di non errare nella vita (non potendone avere cognizione).

Ma la viva speranza che mi deriva da una fede autentica mi concede uno stato di grazia, di letizia. Mi rasserena, mi apporta grande sollievo, nonostante tutto quanto di negativo mi accade.

Con implicito riferimento al Pentateuco (i primi cinque libri che compongono la Bibbia) e in particolare alla Genesi, ho tentato di trarre la visione delle cose e la mentalità dell’antico popolo ebraico.

Forse fra quest’ultimo e i greci dell’età presocratica vi era affinità sia di vedute che di temperamento, stando perlomeno a quanto Nietzsche nella Nascita della tragedia afferma sul carattere greco.

Anche gli ebrei forse tendevano (e in modo più marcato rispetto ai greci) alla riflessione, avendo profondità d’animo e, dunque, di vedute. Probabilmente, proprio per questa loro scarsa attitudine all’azione, hanno sofferto più di altri popoli in conseguenza della facilità con cui venivano sconfitti o assoggettati. Da ciò avrebbero acquisito un’acuta coscienza di tutto il dolore che la vita comporta, da cui l’elaborazione di una morale universalistica identica a quella attuale.

È proprio della profondità d’animo, della capacità di meditare, sviluppare una concezione pessimistica del mondo e dell’esistenza. Gli ebrei, probabilmente, da un lato hanno considerato il mondo come caotico, come pericolosamente privo di leggi, dall’altro hanno scrutato a pieno il male di vivere derivante dall’egoismo umano. Vi è dunque, a mio parere, una concezione ebraica originaria, pre-biblica, identica (o comunque molto simile) a quella dei primi presocratici. Si tratta ora di vedere quale sia stata (ipoteticamente) la soluzione ebraica alla problematicità dell’esistenza.

Avendo colto il carattere sopraffattore ed egoistico del sesso sono giunti a demonizzarlo, sviluppando un’etica molto rigida, antilibertaria. Se a ciò si aggiungono le molte sofferenze subite, anche per via della precarietà di vivere peregrinando, privi della sicurezza derivante dal vivere entro i confini di una patria, si comprende come gli israeliti desiderassero intensamente un luogo accogliente in cui abitare in pace e lietamente.

Risolvono allora il problema dell’esistenza inventandosi un Dio benevolo che crea un mondo a misura d’uomo, in cui tutto è a suo servizio e che domina agevolmente grazie alla conoscenza. L’esistenza da dolorosa, insuperabilmente amara, diviene positiva, felice. Tutti gli uomini che vi partecipano sono fraternamente uniti (la carne di ognuno è dell’altro e viceversa): non c’è male al mondo. Il sentimento, che produce distensione d’animo e la più calorosa, piena e durevole accoglienza e benevolenza da parte dell’altro, è la caratteristica essenziale di ogni uomo.

Ma l’aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male annienta l’illusione. Ecco perché non si deve disobbedire a Dio, anche e soprattutto conoscendo. L’uomo si ritrova allora solo: la sua vita ha poco o nessun valore per gli altri (anzi è per lo più un problema per essi). La vita è resa ancora più amara e dura dal fatto che è conoscibile-dominabile solo ingannevolmente. È curioso, fra l’altro, notare come l’ebreo delle origini non si ponesse nessun problema di tipo propriamente valoriale (ciò mi sembra emerga dal Pentateuco). A costui non interessava tanto avere un animo nobile, ponendo l’amore e la pace sopra ogni cosa.

Concludendo, un aspetto interessante dell’etica ebraica è il seguente. Si è detto come gli ebrei trattassero l’intera umanità, in linea teorica, alla loro stregua. Punire severamente e prontamente, duramente, il peccatore, l’immorale (chi non rispetta la Legge), tra cui anche il nemico, fu tuttavia una loro caratteristica. Ebbene, in un mondo dove ognuno è libero di fare ciò che vuole a danno dell’intera umanità, dovremmo appropriarci di tale aspetto dell’antico temperamento ebraico. Le cose funzionerebbero meglio e la nostra morale universalistica, umanitaria, lungi dal venire tradita, troverebbe finalmente compimento.

I tragici greci potrebbero non aver riflesso il contesto in cui vissero. Ciò varrebbe per il socratico (o in parte socratico) Euripide, credo valga certamente per Sofocle (coevo di quest’ultimo). Essendo difficoltoso conoscere la cultura della Grecia del V secolo, non so fino a che punto Eschilo abbia potuto esprimerla (il tragediografo è inoltre vissuto fra il VI e il V secolo).

Farò riferimento unicamente a due tragedie, l’una eschilea, l’altra sofoclea, avendo tentato di comprenderne il significato.

Stranamente Eschilo sembra essere quantomeno più vicino ai suoi tempi rispetto a Sofocle, ancora legato a mio parere alla mentalità dei primi presocratici.

Ne I sette contro Tebe Eteocle e Polinice, i due figli di Edipo, oltre a dover scontare la maledizione – che si ripercuote dunque anche su di loro – legata all’empietà del loro padre, commettono entrambi un’infrazione: Eteocle usurpa Polinice del suo legittimo dominio regale su Tebe, quest’ultimo, con l’aiuto degli Argivi, attacca ferocemente la sua patria per prenderne possesso. Tra i sette campioni Argivi, che combattono ognuno faccia a faccia contro uno dei sette campioni Tebani, vi sono anche Eteocle e Polinice, che cadono entrambi in battaglia, l’uno per mano dell’altro. Creonte (zio e cognato di Edipo, in quanto fratello di Giocasta), divenuto in seguito a ciò il nuovo re di Tebe, anche in nome della sua popolazione, decide di non dare degna sepoltura al traditore Polinice. Ismene e Antigone, le due figlie di Edipo, piangeranno quest’ultimo. È in particolare Antigone ad avversare il volere di Creonte relativamente al fratello.

Eschilo in questa sua tragedia ci parla dell’importanza degli affetti e dei legami che vincolano un uomo al luogo in cui abita, in cui ha le proprie radici. Ma il ristretto familismo ed il più esteso senso di appartenenza ad una certa comunità, non sono umanamente superabili in vista di una maggiore, universalistica e perfetta giustezza morale. Tanto vale dunque non tormentarsi interiormente per i propri limiti etici, i quali, fra l’altro, non potranno che venire infranti. Angustiarsi per come si è fatti è inoltre pericoloso, poiché ci rende fragili quando viene il momento di agire. Se durante uno scontro mi metto a pensare alle mie colpe, nell’eventualità che ne abbia commesse, il mio avversario – mettiamo che si sia sicuri che non ne abbia – acquisirà ai miei occhi un valore maggiore rispetto al mio (essendo più degno di me di stare al mondo), per cui non potrò infierirvi contro senza freni. Svantaggiandomi dunque rispetto al mio avversario, costui avrà ragione di me.

Antigone e Creonte hanno entrambi, a loro modo, ragione. Ovvero, non possono prescindere dall’essere faziosi, partigiani, dunque in contrasto.

Eschilo ci comunica che non bisogna avere nessuna pietà per il nemico, se non si vuole soccombere.

Tale etica barbarica è a mio parere non presente nel contesto in cui visse Aristotele. Tutto, infatti, per quest’ultimo ha valore. Tutto, di conseguenza, và rispettato, sia pure più o meno, gerarchicamente. Anche il barbaro, lo schiavo (quale animale, o quasi), merita del rispetto, anche se un proprio pari và trattato con maggiore riguardo. E in guerra si deve assumere un atteggiamento quasi cavalleresco.

Assai brevemente, L’Edipo re è la tragedia sofoclea in cui Edipo giunge a prendere atto dei suoi ignominiosi misfatti (l’uccisione del padre Laio e l’incesto con la madre Giocasta. Quest’ultima, nella tragedia, si toglierà la vita). Edipo, quasi imitando il sacerdote Tiresia, si accecherà e inizierà a girovagare senza meta, vivendo da sradicato esule.

Giocasta, ad un certo punto della tragedia, afferma come l’uomo non possa conoscere alcunché e che dovrebbe vivere l’attimo. Tiresia pare si sia accecato per poter continuare a vivere. Gli abomini commessi da Edipo sono quanto di più moralmente basilare si potesse trasgredire. Sofocle ci vuole in tal modo comunicare che ogni uomo è dialetticamente solo, avendo solo nemici. Il problema esistenziale pare si possa risolvere solo in modo dionisiaco (con riferimento a ciò che Nietzsche ha inteso con tale termine). Non bisogna cioè più badare all’assenza tragica di Humanitas al mondo.

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Umberto Petrongari è nato a Rieti nel 1978. Laureatosi in filosofia presso l’Università degli Studi dell'Aquila, ha pubblicato per la casa editrice Aracne due saggi dal titolo: Il pensiero negativo di Julius Evola e il suo oltrepassamento (2013); Excalibur e la tradizione ermetico-alchemica (2014).

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