Adriano Romualdi testimone ideale

Adriano Romualdi

Trentacinque anni sono già passati dalla prematura scomparsa di Adriano Romualdi.

Pensatore scomodo e contro corrente – ma anche militante e uomo d’azione – seppe sintetizzare le sue doti intellettuali alla sua naturale capacità di organizzare ed informare la realtà che lo circondava. Un uomo convinto delle proprie idee, che seppe coniugare dunque la militanza politica con una severa e lucida preparazione culturale. Per questo rappresentò, e rappresenta tutt’ora, l’ideale di studioso che non si chiude in una torre d’avorio, avulso da ciò che lo circonda, ma che al contrario mette in pratica nell’esperienza di tutti i giorni le indicazioni d’una “kultur” che già fu dei nostri migliori antenati. L’opera e l’azione di Adriano Romualdi furono dunque sempre su di un piano che potremmo definire meta-politico, secondo gli insegnamenti di quell’Evola a cui fu molto legato, anche umanamente.

Il suo esser figlio di Pino Romualdi, presidente del MSI, non gli impedì d’essere un rivoluzionario, nel senso più fecondo del termine. Intuì, infatti il cambiamento del mondo – bruscamente anestetizzato dopo il 1945 – e di conseguenza dell’uomo, sempre più colonizzato da un’invadente consumismo. La morale del gregge che si esercita nella società moderna lo disgusta, per questo il suo antiegualitarismo, più che la negazione di un’aberrante parodia, fu la lucida affermazione di valori gerarchici e metastorici.

Critico della democrazia e dei suoi dogmi “laici”, sin da giovanissimo ruppe con gli stereotipi di quella cultura decadente che aveva caratterizzato l’ambiente intellettuale d’una certa destra. E proprio per questo la sua azione culturale cominciò partendo da destra, proprio per risvegliare l’amore per l’identità e l’eredità dei padri, cioè per la Tradizione. Tradizione per Romualdi è tradere, cioè passare il testimone, attuare insomma una sorta di “ri-voluzione permanente” che resti ben salda sui valori essenziali della propria Civiltà.

I suoi studi – da Drieu La Rochelle fino a Nietzsche, passando per Evola e Günther – non furono mai nostalgici, né faziosi o retorici, ma sempre chiari e filtrati dal rigore culturale di chi è in grado di produrre un’azione politica altrettanto incisiva e tagliente. Per questo la politica per Romualdi fu sempre una “palestra dello spirito”, ovvero uno strumento affinché l’uomo potesse nobilitarsi, nel piano esistenziale-sociale come in quello personale-spirituale. Il suo stile impersonale e la sua vena artistica sono il segno tangibile d’una tensione interiore vissuta intensamente, sulla base di quella visione del mondo che si riconosce nell’ordine, nella disciplina, ma anche nella semplicità e nella chiarezza.

Adriano Romualdi seppe così vincere il dolore e le difficoltà di chi nacque orfano d’una patria – sconfitta e derisa – e d’una Tradizione cancellata dalla società dei consumi. Da quella sconfitta, tragica ma mai totale, poté richiamare l’attenzione sui valori eterni ed incorruttibili della nostra memoria storica e della nostra identità culturale.

Il suo impegno, la sua vocazione e qualificazione sono un esempio da seguire, specie per quei giovani sempre più vittime delle sirene del “mondo moderno” e di un’esistenza accelerata che non permette cedimenti, soprattutto nel carattere. Adriano questo lo sapeva, e lo aveva perciò indicato con una sconvolgente lucidità nei suoi libri e più in generale con la sua opera, fatta di pensiero ed azione.

A trentacinque anni di distanza da quel tragico incidente stradale, l’esempio di Adriano Romualdi è quanto di più grande costui possa averci donato, più d’ogni suo scritto o d’ogni sua opera.

«Gli Dei amano chi muore giovane, diceva l’antica saggezza: gli Dei amarono Adriano Romualdi, recidendone il filo rosso della vita terrena nel fiore degli anni, della virilità, dell’impegno intellettuale e politico»[1].

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Note

[1] C. Terracciano, La generazione che non si arrese. Trent’anni senza Adriano Romualdi

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Tratto da Il Borghese, Giugno 2008.

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