A come Asimov, ma anche come Anderson

“Siamo nati in quest’epoca e dobbiamo percorrere
valorosamente fino alla fine il cammino che ci è
stato assegnato. Non ci sono altre vie. È nostro
dovere mantenere le posizioni perdute, anche se
non c’è più speranza di salvezza. Mantenere il
proprio posto”, come quel soldato romano a un
forte di Pompei…“Questa è grandezza, questo
significa avere scelta. Una fine onorevole è
l’unica cosa che all’uomo non può essere tolta”

Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente

Poul Anderson (Bristol, 25 novembre 1926 – Orinda, 31 luglio 2001)

Dieci anni dopo la sua nascita (l’esordio fu proprio con la “quadrilogia della fondazione” del Buon Dottore nel 1983), I Massimi della Fantascienza, collana pensata da Carlo Fruttero e Franco Lucentini un po’ come la Plèiade del nostro genere letterario, dedica uno dei suoi volumi a Poul Anderson, uno scrittore che gli stessi critici americani ritengono abbia una “posizione atipica” nel Pantheon delle firme più note della fantascienza mondiale, e di conseguenza una fama che è ad un gradino, e forse più, in basso rispetto ad altri colleghi della sua generazione.

Non ce ne dovrebbero essere oggettivamente i motivi, eppure è così. Poiché ha esordito ventunenne su Astounding nel marzo 1947 con il racconto Tomorrow’s childrens poi divenuto la prima parte di Loro i Terrestri (Twilight World, 1961), Anderson è uno dei tanti “figli di John Campbell” e rientra nella cosiddetta “età d’oro” fantascientifica: è dunque attivo ininterrottamente da 45 anni, pur avendo cominciato a pubblicare con regolarità dal 1951-52, quando apparve il suo primo romanzo, un juvenile dal titolo La città perduta (Vault of the Ages, 1952), e da allora ha dato alle stampe centinaia di storie e decine e decine di volumi dei più vari generi (romanzi e antologie di science fiction e di fantasy, opere per ragazzi, gialli e mystery, saggi di divulgazione scientifica e di critica fantascientifica, proprio un po’ come Asimov).

Caratteristica comune di tutte le sue opere, per innumerevoli che esse siano: una grande professionalità, una qualità media di notevole livello inusitata per una narrativa di genere “popolare” e soprattutto rispetto a tanti colleghi famosi ai quali non si possono perdonare alti e bassi sproporzionati. Anderson ha così vinto per ben sette volte il Premio Hugo nell’arco di vent’anni (1961-1982): è lo scrittore che se n’è visti assegnare di più insieme ad Harlan Ellison (meglio di loro hanno fatto solo i disegnatori e i curatori di fanzines) ma , cosa strana, soltanto per racconti lunghi e/o romanzi brevi, e non per romanzi veri e propri, quasi a voler indicare che per i lettori statunitensi Anderson è più bravo nella dimensione medio-breve che in quella lunga (ovvero meno bravo in questa che in quella). Il che ovviamente non è. Forse il caso ha semplicemente fatto sì che quando alcuni suoi romanzi hanno ottenuto le nominations al premio vi concorressero anche dei testi già unanimemente osannati e insigniti di altri riconoscimenti. Avvenne nel 1971 quando Tau Zero (Tau Zero, 1970) che qui si presenta fu superato da Larry Niven con I burattini (Ringworld, 1970), ed è avvenuto di recente nel 1990 quando Gli Immortali (The Boat of a Million Years, 1989) ha dovuto capitolare di fronte a Dan Simmons con Hyperion (Hyperion, 1989).

Nonostante ciò, come si è detto, Poul Anderson non raggiunge la popolarità di altri suoi colleghi, ad esempio il citato Asimov, o anche Frank Herbert, o Marion Zimmer Bradley o Robert Silverberg, o non gli si tributa alcun “culto” come per Philip Dick o Ursula LeGuin. Le risposte che hanno dato i critici per cercare una spiegazione non sono univoche: c’è chi ha indicato l’opera vastissima e dispersiva dello scrittore che da sempre si suddivide in moltissimi cicli narrativi; c’è chi ha evidenziato una sua matrice sostanzialmente europea (scandinava, nordica per l’esattezza) che mal si addice ad un pubblico americano; c’è chi ha visto in una sua filosofia di vita, individualista e conservatrice, questo suo handicap culturale; c’è chi ha ritenuto il suo carattere riservato e alieno dai clamori, il motivo della freddezza dei fans nei suoi confronti. Forse nessuna di queste motivazioni, che mescolano il pubblico e il privato, la forma e la sostanza, è quella giusta; e forse lo sono tutte. Vi è però in esse un elemento comune: la difficoltà di “classificare” Anderson nell’ambito di uno schema (fantascientifico) precostituito, di cliché, consuetudini e convenzioni narrative consolidate. Non si tratta di una sostanziale “ambiguità” del nostro autore, ma della sua capacità di muoversi all’interno della science-fiction (ma anche della fantasy) con una libertà che non è anarchia ma fa salvi certi “valori”: da qui il suo essere ”conservatore”, non certo in politica, ma nella salvaguardia di certe tipicità dell’essere umano negli sfondi più diversi (nello spazio, su altri pianeti, lungo il corso del tempo, in società alternative eccetera).

Un simile atteggiamento, ritengo, nasce da una caratteristica culturale di Anderson e dallo schema di fondo di quasi tutte le sue opere più importanti, e che si ritrova nei romanzi qui riuniti (le cui traduzioni sono state, per l’occasione, riviste, corrette e annotate). La caratteristica culturale (che può essere un altro tassello per capire la “posizione atipica” dello scrittore) è che egli a differenza degli altri suoi colleghi pare da sempre equamente diviso tra scienza e mito, fra tecnologia e leggenda, tra razionalità e irrazionalità, fra – diciamo pure – cervello e cuore, mente e sentimentalismo: laureatosi in fisica a 22 anni nel 1948 presso l’università del Minnesota, Anderson pone sempre al centro delle sue trame un fatto, una trovata, un elemento, uno spunto della più pura scientificità, addirittura quando scrive racconti umoristici e divertenti (come Razzo a tutta birra [A Bicycle Built for Brew, 1958] per esempio): lo stesso Tau Zero ne è uno dei casi più evidenti. Le sue spiegazioni ed i suoi ragionamenti, sul filo delle ipotesi e delle possibilità, non fanno una grinza. Ma qui non c’è nulla della freddezza non dirò di un Clarke o di un Niven, ma neanche degli scrittori delle ultime generazioni che hanno imboccato la via della hard science fiction tecnologica come David Brin, Gregory Benford o anche Ian Banks. La scienza, la razionalità, il cervello, in Anderson vengono sempre, veramente sempre, temperate, ammorbidite e fatte accettare dal mito, dal sentimento, dal cuore. Non per nulla lo scrittore venne definito tempo fa da Adolfo Morganti “tecnocrate e bardo”: quasi una contraddizione in termini ma vera, giacché in lui convivono e si amalgamano queste sue due nature: l’uomo di scienza odierno, laureatosi in fisica negli Stati Uniti, e l’uomo tradizionale del passato, le cui origini sono in terra scandinava, patria delle più belle leggende dell’Europa e del mondo.

In effetti, a dispetto delle sue origini, Poul Anderson è tutt’altro che un insensibile: viceversa ha un temperamento decisamente romantico, come ha notato Sandro Pergameno, e non se ne vergogna affatto. Le storie d’amore, spesso disperate a causa dell’alienità fisica e culturale dei protagonisti, sono forse i suoi capolavori: si pensi a tre dei premi Hugo da lui vinti: La comunione della carne (The Sharing of Flesh, 1968), Regina dell’Aria e della Notte (The Queen of Air and Darkness, 1971) e Orfeo Secondo (Goat Song, 1972). Non a caso, poi, in queste tre vicende una parte essenziale è assunta da un mito tradizionale che si scontra con le concezioni scientifiche, posizioni simboleggiate da personaggi diversi, per poi giungere ad una specie di sintesi finale. Lo scrittore pare quasi suggerire che la scienza debba essere temperata da qualcosa di più umano, da un elemento meno glacialmente razionale.

Lo schema di fondo della sua narrativa Poul Anderson lo ha tratto da due storici europei, le cui idee sono sembrate consone alla propria personalità: il tedesco Oswald Spengler e l’inglese Arnold Toynbee. Da Der Untergang des Abendlandes (1918-22) e da Der Mensch und die Technik (1931) tradotti in italiano come Il tramonto dell’Occidente e L’uomo e la tecnica presso Guanda nel 1991 e 1992), lo scrittore americano ha tratto un paio di concetti che si ritrovano di continuo nelle sue opere: il ciclo quasi biologico delle diverse civiltà con il loro nascere, crescere, giungere ad un apice e poi decadere per motivi interni ed esterni concomitanti (crisi dei valori e sorgere di nuove entità storiche), spesso evidenziato dallo scontro fra la Kultur e la Zivilisation, termini che in modo sintetico e approssimativo si possono rendere come una civiltà più naturale ed una civiltà più meccanizzata e artificiale; quindi – secondo concetto – la necessità dell’uomo che vive in questo clima sociale di tener fermo sulle proprie posizioni nonostante tutto crolli, difendendo i valori in cui crede anche se in apparenza corrono il rischio di essere sconfitti e pur essendo perfettamente consapevole della situazione: è l’immagine con cui si conclude L’uomo e la tecnica, quella del soldato romano che resta al suo posto durante l’eruzione di Pompei secondo gli ordini ricevuti benché non abbia possibilità di salvezza, “ È nostro dovere mantenere le posizioni perdute, anche se non c’è più speranza, né salvezza” scrive Spengler. È la posizione di Dominic Flandry, uno dei personaggi più noti, se non il più noto, creato da Anderson e protagonista di numerosi romanzi e racconti, “l’agente dell’Impero Terrestre” che combatte la sua piccola-grande battaglia, forse inutile, forse perduta in partenza, ma la combatte, per rallentare la caduta di un Impero ormai corrotto e l’avvento della Lunga Notte della barbarie dove si annida l’Impero Marseiano, giovane e bellicoso, pronto a soppiantare i decadenti terrestri. “Una fine onorevole è l’unica cosa che all’uomo non può essere tolta” sono le ultime parole di L’uomo e la tecnica.

Dal monumentale A Study in History (1934-61) di Toynbee, Anderson ha invece tratto la tesi di fondo elaborata dallo storico inglese per una classificazione genetica della civiltà, adattandola però anche a un ambito più limitato, quello dei singoli o di piccoli gruppi umani, tesi conosciuta come “sfida e risposta”: la civiltà, per Toynbee, nasce come risposta di un gruppo umano organizzato alla sfida, allo stimolo proveniente dall’ambiente o da altri gruppi, e più vi sono stimoli e sfide in rapida successione e più una civiltà progredisce, per poi decadere quando questi si esauriscono o ad essi non si sa più rispondere. Si pensi solo a Le montagne volanti (Tales of Flying Mountains, 1970) dove si mescolano due temi cari allo scrittore: qui si crea una apposita mitologia che sia allo stesso tempo punto di riferimento e sfida culturale per una ignara generazione di giovani lanciati verso la conquista delle stelle.

Naturalmente i tre romanzi riuniti in questo tomo de I Massimi della Fantascienza sono anch’essi esemplificativi delle caratteristiche strutturali e tematiche di Poul Anderson, forse anche perché appartengono a momenti abbastanza diversi della sua vasta produzione letteraria, la giovinezza e la maturità. Quoziente 1000 (Brain Wave, 1954), la cui prima parte apparve come The Escape su Space Science Fiction del settembre 1953, è il romanzo che rivelò e impose al pubblico e alla critica il ventottenne scrittore ed ancora oggi nonostante alcune ingenuità, viene ricordato per la sua originalissima idea portante; Le Amazzoni (Virgin Planet, 1959), apparso in versione ridotta su Venture Science Fiction del gennaio 1957, è uno dei primi, se non il primo, che affronta il problema di una società esclusivamente femminile che si basa sulla partenogenesi. In entrambi sembra riconoscere una influenza esterna di gran nome: in Quoziente 1000 la crisi delle metropoli, l’esodo verso le campagne, gli animali intelligenti, non ricorda forse Anni senza fine (City, 1952) di Simak? In Le Amazzoni il viaggio del protagonista attraverso le contrade di un pianeta alieno, la scoperta e la descrizioni di varie società femminili, i loro usi e costumi, non ricorda in modo impressionante L’odissea di Glystra (Big Planet, 1957) di Jack Vance, che però era apparso già su Startling Stories nel 1952 e “su per li rami” il Marte di E. R. Burroughs?

Influenze, influssi, quasi scontati per un autore che però si stava facendo strada e già aveva messo in evidenza tematiche personali. Ad esempio, prendiamo la situazione delineata in Quoziente 1000: qui la Terra, anzi l’intero Sistema Solare, esce all’improvviso da un “campo di inibizione”, cioè un campo di forze incontrato nel suo viaggio attraverso lo spazio e che sin dalle origini dell’uomo sul pianeta ha influito sui processi elettrochimici ed elettromagnetici dei neuroni impedendo loro di reagire velocemente agli stimoli. Scomparso il “campo” l’attività cerebrale degli esseri viventi (dunque, anche degli animali) s’intensifica sempre più, di conseguenza aumenta anche il Q.I., il Quoziente Intellettivo. Una civiltà di persone intelligentissime, sarà allora positiva per tutti? Anderson non è così ingenuamente utopico da pensarla così, e mette quindi in evidenza luci ed ombre della nuova realtà: chi mai vorrà lavorare, mentre è più interessante leggere Kant all’ombra di un albero? Peraltro l’aumentato Quoziente Intellettivo non elimina automaticamente i difetti morali dell’umanità, come il desiderio di sempre maggior potere, la predisposizione alla credulità più irrazionale, l’antagonismo fra nazioni. Allo stesso tempo Anderson non è così scioccamente conservatore da rimpiangere il passato e rinnegare le nuove possibilità future: o, almeno, non è un conservatore nel senso comune che si dà al termine, come già è stato notato: chi si oppone al complotto di un gruppo di intellettuali e scienziati un po’ di tutto il mondo che vorrebbe ripristinare il “campo di inibizione” e riportare l’umanità nella situazione pre-mutamento, è anche un personaggio come Felix Mandelbaum il quale – e non è certo un caso – “si dichiarava uno degli ultimi conservatori, ma asseriva che, per conservare, era necessario potare e aggiustare”. Come si conciliano dunque le due posizioni: un conservatore che accetta il cambiamento e non vuole conservare lo status quo del passato? La risposta è che quel che occorre conservare non è il superfluo esteriore ma l’essenziale all’interno di noi stessi, adattandoci senza modificarlo alle nuove situazioni.

Ecco il punto in cui, già da questo suo primo romanzo giovanile Poul Anderson coniuga le due coppie di concetti: scienza/mito e sfida/risposta. In cima ad una palazzo, in una sera in cui dovrebbe forse verificarsi la fine del mondo nucleare, due personaggi emblematici, Mandelbaum e Rossman – se vogliamo il lavoratore e il capitalista – conversano a voce alta e mentalmente della situazione: passato, presente e futuro, nella più grande calma, “agendo da signori”, nonostante il vicino, possibile olocausto. Dice Rossman: “Vi sarà sempre bisogno di capi, di stimoli e di un simbolo che abbia valore universale. Soprattutto la mancanza di quest’ultimo crea il vuoto che ci circonda oggi: non siamo stati capaci di trovare un simbolo. Non abbiamo un mito né un sogno”. E Mandelbaum risponde: “Sì, suppongo che abbiamo bisogno di nuovi simboli”.

Ad una crescita intellettuale, dunque, non è corrisposta una crescita spirituale, al punto da far ammettere amaramente al sindacalista: “La gente pensa molto di più, oggi, ma non pensa bene”. E dice Sheila, la moglie del protagonista del romanzo, Peter Corinth, una donna per la quale l’aumento dell’intelligenza, data la sua personalità, non è stato positivo: “Sono diventati tutti così spietati” dopo il “grande cambiamento”…

Il graduale potenziamento del Q.I. è forse la fine di ogni sfida possibile avendo raggiunto l’uomo il culmine di ogni sua possibilità, oppure è esso stesso una sfida cui occorre dare una risposta? E quale? Nonostante la sua “nuova mente”, pensa Corinth, “era bene ammettere che vi sarebbero stati una frontiera e una meta da raggiungere”: un migliore controllo delle facoltà mentali, la telepatia per trasmettere il pensiero senza l’impaccio e la mediazione delle parole, la conquista del cosmo con astronavi meravigliose costruite grazie allo sviluppo vertiginoso della scienza, il contatto con popoli extraterrestri, magari anche da indirizzare verso la civiltà, la necessità di essere tolleranti gli uni verso gli altri?

Oppure… “Forse hai bisogno di trovare Dio”, aveva detto Helga, la donna segretamente innamorata di Peter, avendo saputo della sua decisione d’imbarcarsi sulla nave stellare. Forse il sogno, il mito, il simbolo di cui discorrevano Rossman e Mandelbaum, non è altro che una più profonda dimensione spirituale che possa accompagnare e rettificare un Q.I. sproporzionato per i valori morali dell’uomo, Forse la nuova meta, lo scopo, la frontiera non sono altro che una diversa e più profonda comprensione del posto che l’uomo occupa nell’Universo.

Questi temi sono presenti in qualche modo come sottofondo anche in un romanzo meno impegnato, più “leggero” decisamente ironico e strutturato “alla Vance”, come Le Amazzoni. Il giovane e aitante astronauta Davis Bertram giunge sul satellite di un pianeta che ruota intorno al sistema binario Delta Capitis Lupi e vi trova una singolare civiltà sviluppatasi, durante l’arco di trecento anni di isolamento, dall’equipaggio esclusivamente femminile di una astronave perdutasi nello spazio. Sopravvissuto e perpetuata la razza attraverso un “apparecchio partenogenico”, alla fine ogni donna della missione originaria ha trasmesso alle sue discendenti non solo i tratti fisici ma anche le caratteristiche psicologiche, mentali e morali, le predisposizioni pratiche. Si sono formate così tante società con specializzazioni tipo-formicaio per cui le Udall sono le più adatte al comando, le Withley sono guerriere, le Dickman sono cameriere, le Craig poetesse, le Salmon attrici e così via. In cima alla piramide sociale vi è la casta dei dottori che monopolizza la macchina della partenogenesi e che, per rispondere alla sfida del pianeta, per sopravvivere su di un mondo ospitale ma sconosciuto e fuori da ogni rotta stellare, ha ideato un mito fondante su cui si basa l’esistenza dei vari gruppi, un mito che è allo stesso tempo una speranza e la meta finale della loro cultura: l’Avvento dell’Uomo, idealizzato fisicamente e spiritualmente, ma non nelle sue funzioni essenziali, quelle generative: “Gli Uomini sono i maschi della razza umana. Noi dovevamo unirci ad essi, ma la loro nave fu allontanata a causa dei nostri peccati. Gli uomini sono esseri più alti e più forti delle donne, infinitamente più saggi e più virtuosi…”

Una simile mitizzazione che pur ha permesso di sopravvivere all’isolamento e all’attesa, impedisce però alle “amazzoni”, anzi alle “vergini” (per rifarci al titolo originale) di quel lontano mondo di riconoscere in David Bertram un Uomo: “Lo straniero si fermò. Barbara era abbastanza vicina per notare che si trattava di un essere assai brutto. Le spalle ampie non erano, in realtà, tanto male, ma i fianchi erano ridicolmente stretti. I capelli, poi, erano biondi e cortissimi, il viso sottile con troppo naso e troppo mento. Troppe ossa, insomma e troppa poca carne. Forse era un Mostro!”

Come può fare, dunque, un maschio a dimostrare di essere maschio ad un popolo di femmine che non ha mai visto un maschio, anche perché il pianeta è privo di mammiferi, e ne ha sentito parlare solo in via teorica? Situazione grottesca che in mano ad altri autori e in anni diversi (i nostri ad esempio) avrebbe dato il via a scene boccaccesche, più o meno osè o apertamente porno. Ma si era negli Anni Cinquanta e l’autore era Anderson: il tutto viene risolto con molto buon gusto, notevole umorismo e autoironia, con soluzioni che certo non saranno gradite dalle odierne femministe di retroguardia.

La fuga di Davis dalla città in cui viene fatto prigioniero, per tentare di raggiungere la Nave del Padre dove è custodita la macchina della partenogenesi, permette quindi allo scrittore di dispiegare un tipico romanzo “viatorio” con l’incontro e la descrizione di varie società, come si è già anticipato: ecco le comunità delle guerriere, delle libere pensatrici, delle poetesse e artigiane, delle rudi marinaie. Come John Glystra anche Davis Bertram passa da strane abitudini ad altre ancora più strane, da avventure esotiche e paesaggi inusuali ad altri che lo sono ancora di più, sino alla conclusione finale, inevitabile, quasi ovvia.

La “macchina della vita” sarà alla fine conquistata, il potere condizionante dei Dottori abolito, una parvenza di democrazia (“repubblica”) ripristinata, la “mascolinità” (diciamo così) di Davis riconosciuta: il mito fondante dell’Avvento dell’Uomo, che ha permesso di rispondere alla sfida del pianeta e di sopravvivere per trecento anni in isolamento, ha assolto il suo compito, Le Amazzoni non saranno più amazzoni, le Vergini non saranno più vergini: “Urrah per questo Uomo e per quelli che verranno in seguito”.

Estremamente più complessa la situazione descritta in Tau Zero, e decisamente assai più ambiziose le intenzioni di Anderson. Ma sono trascorsi dieci anni e lo scrittore ne ha ormai quaranta: il romanzo apparve infatti in forma ridotta su Galaxy del giugno–luglio 1967 col titolo di To Outlive Eternity, e poi ampliato nel 1970. L’idea di base è geniale e terribile insieme: secondo la Teoria della Relatività più ci si avvicina alla velocità della luce e più il valore della massa aumenta e il valore del tempo (tau) diminuisce rispetto al resto dell’universo. Che cosa succederebbe allora ad una astronave che per un incidente non riesce a rallentare, accelera sempre più fino a raggiungere un valore zero di tau? Cosa potrà accadere al suo equipaggio di venticinque uomini e venticinque donne che, annullato ormai il tempo all’interno della nave, vede l’universo, i pianeti, le stelle, le nubi cosmiche invecchiare con la velocità di miliardi di anni ogni giorno soggettivo?

È possibile istituire un parallelo fra Quoziente 1000 e Tau Zero, di certo non forzato, al di là di alcuni elementi comuni come può essere il viaggio nel cosmo delle astronavi Sheila e Leonora Christine, però quanto diversi fra loro! Tanto è ingenuo il primo, quanto è complesso, scientificamente e psicologicamente, il secondo. Più significative, invece, le due figure di Felix Mandelbaum e di Charles Reymont, la loro funzione e i loro scopi, da un lato; e quella situazione nuova rispetto al passato che in entrambi i romanzi produce una serie di conseguenze, da un altro.

È singolare, ma fra il sindacalista del romanzo giovanile e il commissario di bordo del romanzo della maturità ci sono tante somiglianze da pensare che Anderson abbia voluto riprendere lo stesso personaggio-simbolo a quasi vent’anni di distanza. Somiglianze addirittura fisiche: Mandelbaum “era piccolo muscoloso, aveva capelli grigi, occhi neri, naso adunco e faccia rugosa”; Reymont “era un uomo tarchiato, con capelli scuri, un’espressione dura sul volto, la fronte solcata da una cicatrice che non si era mai preoccupato di far scomparire”. Somiglianze di idee: entrambi si definiscono esplicitamente “conservatori”, nel senso che si è già spiegato. Entrambi hanno una posizione chiave nell’economia delle vicende narrate: l’agire nei confronti degli altri come centro di stimolo, motore di avviamento di quella reazione che è necessaria alla sfida di una situazione inaspettata e per tutti gli altri incomprensibile. Accettare la novità, non respingerla e farsene frastornare; andare avanti, ma conservando i valori in cui si crede: “abbandonare alle proprie spalle il superfluo per conservare l’essenziale”, come ha detto un filosofo.

Dice Mandelbaum al gruppo di scienziati che vorrebbe ripristinare il “campo di inibizione” e ritornare al vecchio Q.I. dell’umanità: “credete che l’uomo non sappia trovare un nuovo equilibrio? Credete che non possiamo creare una nuova cultura con tutti i sogni, le bellezze e i piaceri relativi, ora che siamo riusciti a rompere il vecchio guscio? (…) Adesso abbiamo l’occasione di uscire dal corso della storia e andare altrove, nessuno sa dove, nessuno può nemmeno supporlo, ma i nostri occhi sono stati aperti”. Dice Reymont nel momento più cruciale del viaggio infinito della Leonore Christine: “Mettetevi l’animo in pace. Una pace interiore. È il solo tipo di pace che sia mai esistito. La guerra esterna continua. Propongo di andare nel nuovo ciclo dell’universo”.

“Uscire dal corso della storia e andare altrove”, “Andare nel nuovo ciclo dell’universo”: non sono forse due mete grandiose ed assolute per una Umanità che voglia – appunto – abbandonare il superfluo e conservare l’essenziale?

Tau Zero è stato diviso da Anderson in fasi: non solo perché a descrizioni di tipo tecnico-scientifico se ne alternano altre di tipo psicologico e umano, ma proprio perché l’astronave ed il suo equipaggio devono affrontare sempre nuove situazioni disperate dalle quali o si esce o si soccombe interiormente: “il nostro peggior nemico è la disperazione”, spiega Reymont. E come non ci si può disperare quando si è a bordo di una astronave inarrestabile, in rotta verso il nulla mentre l’universo intorno a te invecchia sempre più velocemente e tutto quel che conosci scompare annichilito alle tue spalle? È una continua, ininterrotta serie di sfide cui il commissario di bordo, l’unico all’altezza della sua situazione magari facendo anche violenza sul proprio carattere, riesce a dare le risposte adeguate riuscendo a salvare la sanità mentale degli scienziati e dell’equipaggio della Leonore Christine. Egli è “un fuoco, una frusta, un’arma, un motore”. Dopo ogni incidente, dopo ogni speranza fallita, con le buone o con le cattive, riesce a ideare uno scopo pratico, riesce a inventare una motivazione ideale, riesce a dare la carica psicologica necessaria per non crollare: la risposta adeguata alla sfida creata da ogni nuova situazione. Soltanto così astronave e passeggeri alle fine si salveranno.

Nelle situazioni di emergenza sono necessarie “leggi e disciplina” e anche un “capo”. Ma per gli “esiliati perenni” il cui tempo si avvicina sempre più allo zero, per questi dannati del cosmo costretti in una corsa senza fine come per i mitici protagonisti della Caccia Selvaggia, “la suprema fonte di autorità deve essere lontana a mo’ di divinità”, mentre “il tuo immediato superiore è uno spregevole figlio di puttana che ti costringe a conformarti alle regole e che perciò detesti cordialmente: Reymont, che si comporta come un parafulmine nei confronti delle crisi dell’equipaggio e dei passeggeri, lasciando in disparte il comandante Telander, non è però un superuomo nel senso comune del termine. In realtà nessuno dei protagonisti dei romanzi di Poul Anderson lo è: ma essi diventano tali, o tendono a diventare tali, quando le loro azioni sono motivate, quando si comportano avendo in mente uno scopo ben preciso.

Un ulteriore parallelo tra Quoziente 1000 e Tau Zero riguarda proprio quest’ultimo punto, a sottolineare la continuità e la coerenza delle linee andersoniane, della sua – diciamo pure – Weltanschauung. Qual è la posizione e il compito dell’uomo una volta constatato che la “Via Lattea è piena di vita”? Questa la risposta di Nat Lewis, biologo, uno dei personaggi di Quoziente 1000: “E noi, la cosiddetta umanità normale, che cosa dobbiamo fare? Dove possiamo trovare qualcosa che possa metterci alla prova e stimolarci, qualcosa di cui possiamo essere orgogliosi? Penso che la risposta la troveremo nelle stelle. Oh non voglio dire che il nostro fine sia quello di stabilire un impero nella Via Lattea. La sete di conquista è una cosa puerile, che ormai abbiamo messo da parte. E neppure intendo dire che abbiamo la pretesa di diventare gli angeli custodi di questi innumerevoli mondi, di arrogarci il diritto di essere la loro guida e vigilarli sino a quando le loro razze avranno raggiunto una maturità tale che permetterà di reggersi da sole. No, niente di tutto ciò. Noi pensiamo di creare la nostra nuova civiltà, una civiltà che si diffonderà fra le stelle ed avrà i propri fini, la sua funzione creativa, le sue lotte, le sue speranze (…) Non saremo degli dei, e nemmeno dei condottieri. Ma saremo, almeno alcuni di noi, elargitori di opportunità. Faremo in modo che il male non si radichi troppo tenacemente e che la speranza e le possibilità si presentino quando maggiore ne sentiamo il bisogno, a tutti quei milioni di creature sensibili che vivono, amano, ridono, piangono e muoiono, proprio come faceva l’uomo una volta. No, noi non saremo la personificazione del Destino; ma forse potremo essere la Fortuna. E persino, se ciò è possibile, l’Amore.”

E dice Charles Reymont quando ormai il viaggio si sta felicemente concludendo e s’intravede un futuro: “Mi piacerebbe se avessimo la nostra scelta di mondi, quando i nostri discendenti intraprenderanno la colonizzazione interstellare. E mi piacerebbe se diventassimo noi… oh, gli anziani. Non imperialisti, questo è ridicolo, ma il popolo che era presente fin dall’inizio e sapeva cosa lo circondava e che era degno di essere ascoltato, Non importa quale aspetto fisico avranno le razze più giovani. A chi importa? Ma, quanto più possibile, facciamo di questa galassia una galassia umana, nel senso più ampio della parola ‘umano’. E forse anche un universo umano”.

Non penso che questi concetti siano stati influenzati dal fatto che nel 1954 vi fosse la guerra in Corea e nel 1970 la guerra in Vietnam, o che in essi vi possano essere echi del “mito della frontiera” o della american way of life o del concetto degli Stati Uniti come civiltà-guida del mondo. Forse anch’essi, ma sullo sfondo, attenuati, contingenti. Ritengo invece che questa sia la filosofia di vita personale di Poul Anderson, della sua concezione tradizionale della civiltà della società che deve essere influenzata dagli “anziani”, vale a dire – platonicamente – dai più saggi. Del resto il diretto interessato è consapevole del fatto che, pur essendo la science fiction (e/o la fantasy) una narrativa popolare e d’intrattenimento, inevitabilmente in essa vengano trasfuse le idee di chi scrive, tanto che nella postfazione a Eutopia, il suo racconto compreso nelle Dangerous Visions riunite da Harlan Ellison nel 1967, afferma: “Forse volevo fare qualcosa di più. È inevitabile. Ognuno guarda il mondo dalla propria piattaforma filosofica. Quindi ogni scrittore che cerchi di riferire ciò che vede sta inevitabilmente facendo della propaganda. Ma, di solito, la propaganda resta al di sotto della superficie. Questo è doppiamente vero per la fantascienza, che parte tramutando la realtà in una netta non-realtà.

Una non-realtà che Poul Anderson porta coerentemente avanti da 45 anni ammirevolmente amalgamando le sue due anime: quella di tecnocrate che esalta le meraviglie della scienza, e quella del bardo cantore di miti e leggende.

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Introduzione a P. Anderson, I Massimi della Fantascienza.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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