25 aprile: si festeggia una sconfitta

Il 25 Aprile non è una data da festeggiare, anche se oggi la festeggeranno anche coloro i quali sino all’altro ieri l’avevano osteggiata per motivi ideali. Non la si deve festeggiare perché è una data che si basa su quella che Sergio Romano ha recentemente definito una “nobile bugia”, e che noi preferiremmo definire una pietosa bugia: quella secondo cui l’Italia avrebbe vinto la guerra in base all’inedita definizione di “co-belligeranza”. Fu invece la sanzione della sconfitta nella Guerra Mondiale e della fine sanguinosa di una guerra civile.

Nessuna nazione festeggia date del genere. Né le nazioni vinte come la Germania e il Giappone, che non ricordano le date della resa ufficiale, né – ad esempio per la Germania – l’attentato a Hitler da parte dei militari antinazisti. Ma non sembra che festeggi neppure una nazione vincitrice come si considera la Francia, il cui territorio era diviso in due come l’Italia: non si festeggia l’ingresso delle truppe gaulliste a Parigi. O sbaglio?

Venne sconfitta la dittatura, si dice. Certo, ma quando si fa questa affermazione non ci si riferisce agli Alleati ma ai Partigiani, una consistente fetta dei quali voleva sostituire una dittatura ad un’altra assai più feroce: quella comunista, sovietica, stalinista. Adesso finalmente qualcuno lo ammette, ma giustifica quei Partigiani “rossi” per il loro valore e il loro coraggio, dimenticando le mostruose efferatezze di cui si macchiarono anche nei confronti di Partigiani non-comunisti. Singolare giustificazione a senso unico, però, dato che valore e coraggio non valgono per quelli dell’altra parte, i “repubblichini”: essi sono dunque supportati solo dall’ideologia vincente. E se si ammette finalmente che ci furono antifascisti antidemocratici – il che significa che l’antifascismo non si può identificare sic et simpliciter con la democrazia, come vorrebbero gli ultimi arrivati – i quali continuarano la guerra civile per altri due anni dopo il 25 Aprile, uccidendo ancora senza pietà, non si capisce bene per quale motivo il loro pseudo-inno, quel “Bella Ciao” che nessuno praticamente cantò fra il 1943 e il 1945, ma assurse a canzone simbolo della “resistenza” soltanto nel Dopoguerra per imposizione del PCI, la si canti ancora come fosse veramentre un simbolo di libertà dei Partigiani di ogni colore.

Tutte queste sono considerazioni puramente accademiche, dato che l’omologazione ideologica e intellettuale ha ormai coinvolto tutti, ma non si può far a meno di notare che soltanto nelle parole dei politici il 25 Aprile è “la festa di tutti gli Italiani”: per essere tale, deve essere da tutti condivisa, e così non è per vari motivi. Non tanto perché i superstiti da una parte o dall’altra, ormai ottantenni e sulla via dell’estinzione naturale, sono sempre meno, ma perché da un lato sempre meno le nuove generazioni sanno di cosa si parla e a nulla servono le insistenze pubbliche e le rievocazioni ufficiali, e dall’altro perché ancora si pone la discriminante sul piano ideologico-politico e umorale-sentimentale. Non si sono fatti veri gesti di “pacificazione” da parte dei politici, mentre i vertici dell’ANPI ancora gettano zizzania e lanciano ricatti morali (per esempio nei confronti del Sindaco di Roma, costantemente sotto tiro). Un gesto di pacificazione, come proponeva Giampaolo Pansa vari anni fa al Presidente Ciampi, poteva essere quello di deporre una corona di fiori a Piazzale Loreto, il luogo-simbolo della “macelleria messicana” (Ferruccio Parri) che possono difendere ormai soltanto pochi estremisti accecati dall’odio. Oppure portare a conclusione il progetto di legge sul riconoscimento di “militari combattenti” ai soldati, aviatori e marinai delle forze armate della RSI.

La sinistra unita, l’ANPI e le Comunità ebraiche la considerano una “parificazione” dei valori (lo ha detto di recente anche Luciano Violante), di chi combatteva per una giusta causa o una sbagliata, per la dittatura o per la libertà, per il Bene Assoluto o il Male Assoluto. È un malinteso voluto, un errore di prospettiva in mala fede, se non vogliamo proprio parlare di assoluta ignoranza, perché il progetto di legge è soltanto una equiparazione giuridica e non altro, e non affronta il problema della ragione o del torto sulla bilancia della democrazia. Se i militari della Repubblica Sociale non furono “combattenti” cosa erano esattamente, come li dobbiamo classificare? E allora da questo punto di vista giuridico i Partigiani come li definiamo? Il riconoscimento come “militari combattenti” i repubblicani già lo ebbero dagli Alleati che così li trattarono, dal Tribunale Supremo Militare italiano nel Dopoguerra, dalle Associazioni d’Arma che oggi li accolgono tra le loro file, da un incontro moltissimi anni fa tra il Presidente dei reduci della RSI Baghino e da quello del CIL Poli, se non vado errato. Dunque, l’ostracismo violento si ha soltanto da parte dei politici. Questi sarebbero i gesti di pacificazione. Sicché sorprende che uno spin-doctor del centrodestra come Alessandro Campi, docente universitario per di più, se ne esca con parole assurde come queste: «Nessuno può davvero pensare di mettere “alla pari” le ragioni degli uni e degli altri. La storia non si riscrive. È tempo che la destra smetta di chiedere rivincite postume». La richiesta di giustizia è una “rivincita postuma”? Anche il professor Campi parla da ideologo e non da giurista.

Con il 25 Aprile trionfarono quei valori che sono alla base della nostra Costituzione, si dirà. È certamente vero considerando chi furono i “padri costituenti” e la pesante impronta “di sinistra” che essa ha, come dimostrano gli atti della Assemblea Costituente, che nessuno consulta più. Ma il 25 Aprile è anche una data di sangue che portò ad eccidi, a vendette, a pseudosentenze dei cosiddetti “tribunali popolari”, alla discriminazione, all’epurazione anche di chi non si era macchiato di nessun crimine, aveva fatto soltanto il soldato o aveva creduto nel fascismo e basta (i libri di Pansa, e prima di lui di Pisanò, sono pieni di questi episodi non smentibili). Non si può ricordare come “festa nazionale” una data che ha queste macchie, meglio un’altra unanimemente condivisa.

Penso allora che si potrebbe considerare la data fondante dell’Italia democratica del Dopoguerra, non quella sanguinosa del 25 Aprile, ma quella pacifica e democraticamente valida del 2 giugno: la nascita di una Repubblica in cui tutti, ma veramente tutti, dopo oltre sessant’anni, si riconoscono – questa volta sì “senza se e senza ma”, come è stato autorevolmente scritto – anche gli ex fascisti e gli ex monarchici, e che non si mostra ai “vinti”, a coloro che invece non si riconoscono nel 25 Aprile, con il volto della matrigna.

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Tratto da Linea del 25 aprile 2009.

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Giornalista, vicedirettore della cultura per il giornale radio RAI, saggista ed esperto di letteratura fantastica, curatore di libri, collane editoriali, riviste, case editrici. E' stato per molti anni presidente, e successivamente segretario, della Fondazione Julius Evola.

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