130 anni di H.P. Lovecraft. Il suo mito e la sua eredità culturale

Il 20 agosto dovrebbe essere ricordato come un giorno a dir poco rilevante per il Fantastico contemporaneo, nelle sue varie accezioni letterarie, cinematografiche, fumettistiche e quant’altro: fu proprio questo giorno, ben 130 anni fa, che vide la luce Howard Phillips Lovecraft ovvero l’indiscusso maestro del Terrore del XX secolo, la cui importanza come autore (e teorico) dell’Immaginario, si è detto spesso, è oggi paragonabile soltanto a quella di altri giganti del settore come i ben noti Poe, Sheridan le Fanu, Gustav Meyrink, Arthur Machen o John Ronald Reuel Tolkien. A tutt’oggi, l’ammirazione per Lovecraft e l’interesse per la sua opera (da parte di un pubblico entusiasta costituito soprattutto da giovani) sono un fenomeno in costante crescita, per quanto la grandezza di questo autore sia stata progressivamente riconosciuta, da ambienti che non fossero quelli degli appassionati, solo nel corso degli ultimi decenni dopo un lungo periodo di indifferenza o snobismo nei suoi confronti da parte di certa “critica togata”.

La questione è in realtà più complessa di quanto comunemente si pensi, perché ad una analisi anche superficiale dell’opera di HPL emergono i tratti di una figura di scrittore e intellettuale tra le più singolari ed influenti emerse dalla letteratura dell’ultimo secolo; infatti, è la stessa eccezionale figura dell’uomo Howard Phillips Lovecraft ad essere divenuto a sua volta un personaggio al centro di un culto che ha trasceso i decenni successivi alla sua scomparsa. Il suo nome, parafrasando Richard Matheson, è ormai letteralmente leggenda.

Come hanno scritto due tra i massimi studiosi di Lovecraft in Italia, Sebastiano Fusco e Gianfranco de Turris, il più evidente segnale della consacrazione di un autore si ha quando il nome di quell’autore diviene un aggettivo qualificativo.[i] Accennando a una bolgia “dantesca”, a un personaggio “shakespeariano” o “pirandelliano”, oppure a una situazione “kafkiana” sappiamo bene di cosa stiamo parlando; e il termine “lovecraftiano” è da tempo familiare e usitato quando si deve trovare una definizione per concetti le cui caratteristiche spaventose travalicano di molto i confini del senso comune. Una palese dimostrazione, insomma, di come l’importanza esercitata da HPL appare oggi come un dato di fatto inconfutabile, nonostante ci siano voluti decenni per rendersene conto e per accettarlo (basti dire che attualmente in Italia i suoi racconti sono editi da prestigiose case editrici come Feltrinelli, Bompiani e Mondadori). Come si va ad esaminare, se si ripercorrono gli ultimi quaranta/cinquant’anni si può infatti notare come questa innegabile “impronta” lasciata dallo scrittore emerga non solo dall’ambito specifico delle nuove espressioni della narrativa fantastica, ma, come si è accennato, le idee e il gusto della narrativa lovecraftiana sono state ampiamente riprese nel linguaggio del cinema fantastico e dell’orrore, dei fumetti e altro ancora: emerge quindi in modo palese come Lovecraft abbia direttamente o indirettamente influenzato anche e soprattutto quei media che nel corso dell’ultimo secolo hanno segnato la cultura popolare.

Dati tutt’altro che indifferenti, quindi. Ma, anche alla luce di tutto ciò, definire chi sia stato Lovecraft, oltre che un maestro della narrativa fantastica, rimane un’impresa tutt’altro che semplice, come sanno bene i numerosi critici letterari e studiosi che, tra gli Stati Uniti e l’Europa (da Dirk W. Mosig a S.T. Joshi, da Jacques Bergier a de Turris e Fusco), si sono occupati della questione da molti decenni a questa parte.

HPL: la vita, l’opera, la leggenda

La vita di HPL fu, prima di tutto, quella di un sognatore e di un nostalgico di altri tempi: nato alla fine dell’Ottocento a Providence (nel più piccolo Stato americano, il Rhode Island) figlio unico del rappresentante di commercio di origine inglese Winfield Scott Lovecraft e di Sarah Susan Phillips, lo scrittore resterà visceralmente legato per tutta la vita alla sua città natale, che non lascerà mai se non per la sua breve parentesi matrimoniale a metà degli anni Venti, quando si trasferirà con la moglie Sonia Haft Greene a New York City. Pur essendo un rampollo dell’agiata borghesia, Lovecraft si troverà a vivere un’infanzia singolare e alquanto tormentata, funestata molto presto dalle ombre della pazzia e della morte: già nel 1893, infatti, il padre viene ricoverato per esaurimento nervoso all’ospedale di Providence, dove morirà cinque anni dopo. Il piccolo Howard e la madre (la quale manifesterà sempre, nei confronti del figlio, un eccesso di attenzioni e di apprensioni al limite del patologico) si trasferiscono quindi presso i nonni materni. Tra le ombre della vecchia casa dei nonni Phillips non ci sono soltanto mobili d’antiquariato, quadri, arazzi e vecchi ninnoli: ci sono scaffali di libri. Proprio qui infatti, imparando a leggere, il bambino avrà i primi approcci con la vasta biblioteca del nonno; antologie di autori classici, pandette, trattati di scienze naturali, romanzi e dizionari gli spalancano orizzonti di conoscenze.

Non sorprende quindi che già dall’infanzia Lovecraft si era intanto dedicato alla scrittura di racconti fantastici e del terrore, e di questa sua prima produzione ne sopravvivono una mezza dozzina, scritti tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio successivo. Come la sua infanzia, anche la giovinezza di HPL prosegue su toni non esattamente “regolari”: nel 1896 muore nonna Phillips, e il piccolo Howard, impressionato dall’atmosfera di lutto famigliare, sarà perseguitato per anni da incubi ricorrenti. Nel 1904 scompare anche il nonno, privando Lovecraft di un’altra figura insostituibile. Nel 1911 la famiglia subisce un serio rovescio economico, e l’adolescenza dello scrittore sarà caratterizzata da frequenti esaurimenti nervosi, instabili frequentazioni delle scuole pubbliche e una convivenza famigliare con una madre iperprotettiva ed emotivamente squilibrata. È nel 1917, in un periodo di particolare depressione, che HPL decide di arruolarsi nella Guardia Nazionale del Rhode Island. Sia a causa della salute cagionevole, sia per l’ennesima intromissione della madre nelle sue iniziative, Lovecraft viene respinto. Come ha sottolineato il grande e compianto Giuseppe Lippi,[ii] è in questo momento che HPL sembra prendere una decisione irrevocabile: se, giunto all’età di 27 anni, non è riuscito ad affermarsi nella vita “normale”, quella che conduciamo alla luce del Sole, allora trionferà nelle tenebre, nei  sogni e negli incubi. È da qui che, se vogliamo, facendo suo il «Dreaming dreams no mortal ever dared to dream before …»[iii] del suo grande maestro Poe, Lovecraft torna alla produzione di narrativa (dopo nove anni in cui si era occupato soltanto di poesia e giornalismo scientifico) e il suo lato macabro prende il sopravvento, scrivendo di getto il racconto The Tomb. La storia è un esordio, se possibile, già maturo e consapevole nell’ambito del Fantastico più macabro; l’impianto della storia risente sicuramente degli influssi del romanzo gotico e dello stile onirico di E.A. Poe, per quanto presenti già quei tratti e quelle idee che saranno assolutamente caratteristici della narrativa lovecraftiana. Il racconto si apre infatti con una indicativa citazione dal VI libro dell’Eneide: Sedibus ut saltem placidis in morte quiescam, e già il titolo rivela l’animo “classicista” di HPL (si utilizza il termine di origine latina tomb anziché il più usitato grave anglosassone). In The Tomb, l’autore racconta in prima persona le singolari esperienze giovanili dell’aristocratico Jervas Dudley, il quale, da quando scopre nelle vicinanze della propria residenza la presenza di una cripta famigliare vetusta di secoli, comincia a frequentarla nottetempo, ispirato da inquietanti visioni che sembrano quelle delle vite precedenti dei defunti ivi sepolti. Si fa cominciare dalla scrittura di questo racconto il cosiddetto “Ciclo dell’orrore puro” di HPL, con i racconti di poco successivi The Outsider e The statement of Randolph Carter, che mette in scena il principale alter ego letterario di HPL, ovvero il sognatore Randolph Carter.

Ma rieccoci alla questione principale: come e perché uno scrittore come HPL ha radicalmente rinnovato la narrativa fantastica? Nel periodo di passaggio tra la seconda metà del XIX secolo e il successivo, il Fantastico moderno passa attraverso ulteriori e profondi sviluppi, soprattutto in area britannica e americana: basti pensare alla nascita della moderna narrativa fantasy, grazie ad autori come Lord Dunsany e William Morris, fino al texano Robert E. Howard. In questo lungo periodo, un importantissimo mezzo di diffusione della narrativa fantastica contemporanea furono le riviste popolari: analogamente alla consuetudine europea del cosiddetto feuilleton, il romanzo pubblicato a puntate in appendice a quotidiani e riviste, nei primi decenni del Novecento si vendono negli Stati Uniti i cosiddetti pulp magazines, riviste vendute a pochi centesimi di dollaro. Ogni collana di riviste pulp era solitamente improntata a un tema tipico: basti ricordare le celebri testate poliziesche Black Mask e Detective Fiction Weekly, oppure a Amazing Stories e Astounding Stories, le prime riviste specializzate in fantascienza; ma ancora più importante fu l’uscita di Weird Tales, nel marzo 1923, la prima rivista in assoluto ad occuparsi solamente di narrativa fantastica. A parte questo dettaglio non indifferente, Weird Tales non si distingueva dalle altre collane del settore, ma l’importanza di questa testata editoriale è evidente se si considera che dagli anni Venti agli anni Cinquanta (la rivista chiuderà le pubblicazioni nel 1954) Weird Tales pubblica racconti di autori come Isaac Asimov e Ray Bradbury, autentici colossi della fantascienza del Novecento, oltre che un vasto campionario delle opere di giovani scrittori horror e fantasy come Robert E. Howard, Robert Bloch, Clark Ashton Smith, Frank Belknap Long, E. Hoffman Price, Fritz Leiber, Catherine L. Moore e August Derleth. Il vero maestro di tutti questi autori, che a sua volta fu una delle firme di punta della rivista, era ovviamente HPL.

Nessuno è profeta in patria, dice il vecchio adagio, e sicuramente per molti versi è anche il caso di Lovecraft e dei suoi racconti: la sua era un tipo di narrativa fantastica decisamente particolare per il pubblico americano medio degli anni Venti e Trenta, e nel suo essere originale ed innovativa, nella sua personale “teoria dell’orrore” venne perlopiù tacciata di astrusità. Nei racconti di HPL, infatti, non ci si imbatte così facilmente nelle figure più classiche della narrativa fantastica, gotica e orrorifica come vampiri, streghe, lupi mannari e gli inossidabili demoni e fantasmi; o meglio, nelle storie del Lovecraft più giovane, ad esempio i racconti risalenti agli anni Venti, tali soggetti sono in realtà ben presenti e anzi spesso rivestono ruoli di primo piano, come accade in racconti come The Hound, The dreams in the Witch’s house, The Outsider e altri ancora. Ma del tutto particolare è il modo in cui vengono reinterpretate queste figure archetipiche, introducendo l’idea che i mostri siano a loro volta una manifestazione di oscure forze sconosciute di cui la ragione umana può solo percepire le minime propaggini; se, in qualche modo, l’uomo apre la via su ciò che giace oltre la soglia dell’ignoto, non può che venirne schiacciato ed azzerato.

È in questo punto che si può dire che il Fantastico di Lovecraft prende le distanze da quello di Poe. L’autore dei Tales of horror and imagination, a differenza del più giovane HPL nato alla fine del XIX secolo, aveva ereditato in buona parte le concezioni dell’Idealismo romantico tedesco,[iv] e la sua opera narrativa porta all’apoteosi il tema dell’orrore che emerge dagli abissi della psiche umana («Il terrore non è della Germania, è dell’anima…» sostiene Poe a chi lo accusava di plagio hoffmaniano). La situazione spaventosa, nei più oscuri racconti del bostoniano, non è mai narrata e accettata come mero dato oggettivo ma viene vissuta in prima persona dal soggetto; in questo modo, regna sovrana l’incertezza e l’impossibilità di stabilire se l’orrore sia reale o incubo o allucinazione. È, in linea di massima, il meccanismo classico del conte fantastique settecentesco e ottocentesco, da E.T.A. Hoffmann a Gautier, da Nerval a Villers de l’Isle-Adam, fino alla narrativa “nera” degli Scapigliati. Nei racconti di Lovecraft, invece, l’orrore è cosmico in quanto scatenato dalla obiettiva consapevolezza dell’esistenza di inconcepibili mostruosità intergalattiche, che scardinano le certezze antropocentriche.

Le pagine dei migliori racconti di HPL abbondano di passaggi che dichiarano questa concezione, quella del cosiddetto «orrore cosmico» (definizione utilizzata dallo stesso Lovecraft nelle parole di uno dei protagonisti di At the Mountains of Madness, il grande romanzo scritto nel 1931, da più parti considerato il capolavoro di Lovecraft) che suggerì a Fritz Leiber la definizione del Lovecraft narratore: quella di essere stato un “Copernico letterario”. Scrive infatti lo stesso HPL, come si può leggere oggi nella raccolta Teoria dell’orrore: «Il punto di vista antropocentrico mi riesce insopportabile, perché non riesco a condividere quella primitiva miopia che esalta il mondo trascurando ciò che vi sta dietro. Il mio piacere è la meraviglia, l’inesplorato, l’inaspettato e ciò che è nascosto e quell’alcunché d’immutabile che si cela dietro l’apparente mutevolezza delle cose». E anche nel suo Notes on the writing of Weird Fiction, pubblicato postumo, HPL ribadisce che nei racconti dell’orrore il concetto principale sia l’immissione dell’inspiegabile e dello sconosciuto, un punto centrale che non mancherà di sottolineare negli anni Cinquanta il celebre critico del Fantastico Roger Caillois. Ancora, nel saggio di Lovecraft Supernatural horror in literature leggiamo: «Il sentimento più forte e antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto». E lo scrittore, con i suoi racconti più potenti, eleva alla massima potenza consentita per la sua epoca questo concetto. Un racconto come Dagon, il primo pubblicato dall’autore nel 1920 sulla rivista The Vagrant, darà il via alla grande serie di storie che HPL scriverà nei quindici anni successivi: la serie di racconti che viene ancora oggi indicato come il «Ciclo di Cthulhu», sicuramente il più celebre ciclo narrativo di Lovecraft che si estende dal 1921 con The nameless city fino a The thing on the doorstep del 1935. La serie di racconti prende il nome dalla terribile entità spaziale protagonista del racconto The Call of Cthulhu del 1926, forse il racconto di HPL più celebre e sicuramente uno dei suoi capolavori narrativi.

Nel Ciclo di Cthulhu incontriamo in modo ricorrente il celebre Necronomicon, scritto dal folle Abdul Alhazred, studioso arabo del VIII secolo dopo Cristo, con il titolo di Al Azif, ovvero «Il suono degli esseri striscianti nella notte», a sua volta trascritto da obsoleti testi ritrovati da Alhazred nella città di Irem, sperduta nel deserto dello Yemen. Testi risalenti ad ere inconcepibilmente remote, e contenenti i segreti dei Grandi Antichi. Queste entità, che Lovecraft definisce the Ancient Ones, o meno frequentemente the Ones who came before, «Gli antichi» o «Quelli che vennero prima», erano divinità spaziali infinitamente potenti e malvage, provenienti da dimensioni sottili oltre la nostra galassia e la nostra dimensione, e che avevano condotto guerre di proporzioni cosmiche contro altre tipologie di esseri e civiltà che a loro volta avevano preceduto di milioni di anni l’avvento dell’uomo sulla Terra. Il Necronomicon è infatti ritenuto il libro di magia evocatoria più potente mai compilato, una sorta di Chiave di Salomone incredibilmente più antica e pericolosa. Sia Abdul Alhazred che il Necronomicon, ricordiamo, sono semplici invenzioni letterarie del buon Lovecraft, che, da grande scrittore qual era, aveva creato una vera e propria mitologia fantastica su Cthulhu, Dagon, gli Shoggoth e quant’altro (in realtà i primi, ci racconta l’autore, sono entità “subalterne” e celate negli abissi degli oceani sulla Terra milioni di anni dopo la conclusione di tremende battaglie cosmiche, mentre ben più potenti sono i vari, ineffabili Azathoth, Shub Niggurath e Yog-Sototh, residenti nello spazio interstellare). Abdul Alhazred e il suo Necronomicon facevano parte di questa mitologia inventata, proprio come, per fare un esempio, Il libro rosso dei Confini Occidentali e i canti epici degli Elfi fanno parte delle tradizioni della Terra di Mezzo nella saga de Il signore degli Anelli.

Il pantheon orrorifico di Lovecraft ha radici probabilmente nella lettura di Dunsany e Arthur Machen,[v] di cui si avverte l’influenza soprattutto nei racconti lovecraftiani più vicini al fantasy come The outer Gods, The quest for Iranon, The doom that came to Sarnath senza dimenticare le storie “oniriche” di Randolph Carter  (Through the gates of the silver key e The dream quest of the unknown Kadath). Dietro la figura di Abdul Alhazred, invece, vi è evidentemente la passione infantile di Lovecraft per Le Mille e una notte; come fa notare il critico inglese Malcolm Skey, lo stesso nome del personaggio parrebbe uno “scherzo” letterario, suonando come All has red, «Colui che lesse tutto»,[vi] epiteto che ricorda il titolo dello Sha Nagma Imuru, ovvero «Colui che vide tutto», altrimenti noto come l’Epopea di Gilgamesh, l’antichissimo poema epico babilonese che Lovecraft ovviamente conosceva. L’idea di un leggendario “libro maledetto”, invece, ha una lunga tradizione all’interno della narrativa fantastica, quella dei cosiddetti pseudobiblia, letteralmente “falsi libri”. Questo termine greco è stato utilizzato nel 1947 dal critico e scrittore statunitense Lyon Sprague de Camp[vii] (studioso dell’opera di Robert Howard e di HPL) per indicare quei libri il cui titolo, e oltre ad esso magari qualche estratto del loro contenuto, è spesso citato in altre opere di narrativa (o anche saggistica), pur non essendo libri esistenti né mai scritti, se non nella fantasia dei rispettivi autori. Nonostante questo particolare, sono testi alquanto famosi e ad essi si fa spesso riferimento, perché la loro popolarità e la credenza nella loro effettiva realtà li ha in un certo sensi resi “veri” nell’immaginazione di innumerevoli generazioni di scrittori e lettori. Il più antico ed illustre caso di pseudobiblium proviene addirittura dal racconto antico egiziano noto come Storia di Setne Khaemuaset: il testo fa riferimento a un misterioso testo magico ovvero il Libro di Thot, ovviamente mai rinvenuto, che viene ad esempio citato nel classico del cinema horror La Mummia con Boris Karloff, risalente al 1932.

Alla base dell’idea del Necronomicon, quindi, ci sono molto probabilmente la raccolta The king in yellow di Robert William Chambers e le Stanze di Dzyan della Società Teosofica, assieme alla Chiave di Salomone conosciuta da Lovecraft nell’edizione di A.E. Waite del 1898. Il Necronomicon rientra quindi pienamente (e con enorme successo) nella categoria degli pseudobiblia, rivestendo peraltro il curioso primato di essere probabilmente il libro inesistente più discusso e più “diffuso”. Questo anche perché ad intorbidire le acque ci hanno pensato, a cominciare dagli anni Sessanta e Settanta, scrittori come Sprague de Camp, John Hay e Colin Wilson; dal nucleo originario dei racconti lovecraftiani in cui viene citato il Necronomicon, hanno mano a mano contribuito a dare una credibilità al leggendario tomo scrivendo vere e proprie versioni del suddetto.

HPL è morto, viva HPL

A riconoscere la cultura letteraria e scientifica del proprio mentore furono soprattutto i moltissimi “amici di penna” di Lovecraft. Quello costituito dalle missive da lui scritte nel corso dei suoi 47 anni di vita è letteralmente un mare sterminato, testimonianza di una vasta e attivissima cerchia di amici, scrittori, intellettuali e ammiratori a cui l’autore spedì un numero incredibile di lettere che oggi si stimano più di 100.000 (e si parla soltanto di ciò che si è finora riuscito a recuperare e ricostruire). All’interno di questo che si rivela come uno dei più giganteschi epistolari registrati dalla storia della letteratura, si trovano in molti casi interi saggi e racconti e, in linea di massima, argomentazioni che vanno a coprire uno spettro estremamente vasto dello scibile umano, dalla filosofia alle più attuali teorie scientifiche, dalla letteratura all’economia, dall’antropologia alla religione fino alla storia dell’arte e in particolare quell’architettura alla quale HPL si diceva particolarmente sensibile. Oggi, in tempi di comunicazioni telematiche onnipresenti e onnipotenti, dati come questi relativi all’immensità della corrispondenza di HPL possono lasciare indifferenti o spingere all’ilarità, ma non possono fare a meno di colpire la sensibilità di taluni e rendere decisamente l’idea della vastissima, non comune attività intellettuale e letteraria dello scrittore statunitense. In particolare, tra i suoi numerosi corrispondenti si ritrovano i giovani scrittori del Fantastico attivi sulle pagine di Weird Tales e delle riviste affini. Tra questi, vanno ricordati il grande Robert Ervin Howard, autore estremamente prolifico e padre del celebre personaggio di Conan il Barbaro, e il californiano Clark Ashton Smith, altro significativo autore del Fantastico novecentesco dalla sensibilità particolarmente vicina a HPL, a Poe e a Dunsany.

Nonostante l’esaltata venerazione che i giovani ammiratori testimoniarono con la citata messe spaventosa di lettere, per una serie di circostanze (la costante precarietà economica che non era mai riuscito a superare e non ultima, evidentemente, la sua proverbiale riservatezza e discrezione), HPL morì solo ed indigente nel 1937, ricoverato al Butler Hospital di Providence per un tumore allo stomaco. La tomba di Lovecraft, nello Swan Point Cemetery di Providence, rimase anonima per decenni, fino all’erezione di una lapide con l’iscrizione «I am Providence» (tratta da una sua lettera) fortemente voluta da Dirk W. Mosig con la collaborazione di appassionati da tutto il mondo.

A differenza di autori come Poe, che nella sua breve e tormentata vita ottenne comunque un certo successo di pubblico, di Conan Doyle e Wells che divennero vere glorie nazionali ancora viventi, o di Bram Stoker che con Dracula segna indelebilmente la storia del Fantastico e ogni successiva variazione sul tema vampirico (oltre a rappresentare notevoli entrate economiche per tutta la vita dell’autore), il nome di Lovecraft rientra così tra i numerosi casi nella storia della letteratura, fantastica e non, di scrittori che non conobbero mai un vero successo di pubblico o di critica, poiché questo sarebbe arrivato soltanto postumo. Ma, come è ricordato nella nota biografica riportata sui volumi della collana del «Fantastico economico» edita dalla Newton & Compton negli anni Novanta, il 15 marzo 1937 moriva l’uomo chiamato Howard Phillips Lovecraft, ma contemporaneamente nasceva il suo mito.

Come si sviluppò questo mito? Il merito iniziale della cura e della diffusione del corpus lovecraftiano, poco dopo la scomparsa dell’autore, va sicuramente a Donald Wandrei e August Derleth, che fondano la casa editrice Arkham House nel 1939. Questi erano due giovani letterati e a loro volta collaboratori di Weird Tales, nonché tra i maggiori “discepoli” di HPL: la loro iniziativa era volta alla pubblicazione in volume della narrativa del maestro di Providence, oltre che a preservare la sua preziosa e sterminata corrispondenza.

In Italia, la narrativa di Lovecraft apparirà tradotta solo nel 1960, grazie a Bruno Tasso che pubblica I ratti nel muro (The rats in the wall) nell’antologia Un secolo di terrore, mentre nel 1963 Colui che sussurrava nelle tenebre (The whisperer in the darkness) vede la luce sul num.310 di «Urania». Negli anni Quaranta, Weird Tales, attiva ancora per poco, proponeva sulle sue pagine le ultime ristampe dei più noti racconti di HPL, mentre la Arkham House si occupava finalmente di una promozione decorosa dei suddetti; è nel decennio successivo che le prime ombre lovecraftiane cominciano, progressivamente, a stagliarsi anche sullo schermo cinematografico.

HPL e il cinema

L’ultimo mezzo secolo di cinema dell’orrore e del fantastico ha un grande debito con l’opera di H.P. Lovecraft. In realtà, le autentiche trasposizioni filmiche dei suoi racconti rimangono a tutt’oggi alquanto scarse (e pressoché nessuna davvero fedele ai testi di riferimento, ammesso che sia possibile realizzare una pellicola che restituisca lo straordinario potere evocativo delle pagine dello scrittore di Providence), ma è ben noto come la filmografia di molti registi storici del cinema horror internazionale, tra i quali vanno ricordati soprattutto John Carpenter e Lucio Fulci, denota più di qualche esplicito omaggio con l’immaginario lovecraftiano.

Come accennato, le prime avvisaglie si hanno già negli anni Cinquanta, con pellicole di fantascienza horror che, sebbene non dichiarino ufficialmente nessuna particolare ispirazione allo scrittore di Providence (del resto, all’epoca ancora alquanto sconosciuto al “grande pubblico”), rivelano in realtà palesi riferimenti a varie idee e motivi tipiche della sua narrativa. Uno dei primi casi che viene allo scoperto è il celebre Mostro della Laguna Nera del 1954: il suddetto mostro che unisce caratteristiche umanoidi e ittiche, manco a dirlo, a qualsiasi lettore di Lovecraft non può che apparire come uno stretto parente di Dagon e degli abitanti della città di Innsmouth.

Altro caso alquanto evidente è un altro celebre b-movie della fantascienza orrorifica, ovvero Blob del 1958, in cui il mostro gelatinoso proveniente dallo spazio (oltre che simboleggiare, si è detto, terrori di matrice politica evidenti nel suo colorito rosso…), dimostra tipici connotati lovecraftiani: proviene dall’interno di un meteorite piovuto dagli abissi spaziali, esattamente come la terrificante entità invisibile di cui si narra in The Colour out of space, che rimane uno dei racconti più emblematici per il concetto di “orrore cosmico”. Dello stesso periodo è il film Caltiki il mostro immortale, girato nel 1959 da quel pioniere dell’horror italiano che fu Riccardo Freda (con l’ausilio dell’altro grande maestro del genere, Mario Bava), in cui ritroviamo un analogo mostro informe e gelatinoso, anche in questo caso giunto sulla Terra dallo spazio ma in epoca preistorica, che dorme un sonno eterno nei fondali di un lago sperduto nella giungla messicana. L’incoscienza di una spedizione esplorativa risveglierà la temibile creatura, non a caso dopo avere ritrovato un antico idolo di pietra in quella che sembra una citazione da The call of Cthulhu e da The doom that came to Sarnath.

Ma è nel 1963, con The Haunted Palace di Roger Corman e Vincent Price che i riferimenti cinematografici a HPL si fanno (quasi) diretti ed espliciti. Il film, uscito in Italia come La città dei mostri, è impropriamente annoverato alla sua uscita come appartenente al ciclo di film di Corman ispirati alla narrativa di E.A. Poe e in realtà palese e riuscita trasposizione del racconto The case of Charles Dexter Ward. Negli anni seguenti vi saranno altri tentativi ufficiali o semiufficiali di riportare sul grande schermo la narrativa lovecraftiana, ma in realtà saranno perlopiù deludenti e ricordati come pellicole di basso profilo, tra le quali The Dunwich Horror, Daniel Haller, 1970, ispirato (ma non così fedelmente) all’omonimo racconto del 1929. Degno di nota è il caso di un film fondamentale per il cinema fantastico italiano, ovvero il fantascientifico Terrore nello spazio (1966) di Mario Bava, nel quale si potrebbe ritrovare qualche indiretta eco lovecraftiana (le rovine dell’antica civiltà spaziale, le possessioni aliene che ricordano The whisperer in the darkness), per quanto ispirato al racconto Una notte di 21 ore (1960) di Renato Pestriniero. È comunque negli anni Ottanta che l’ispirazione lovecraftiana si fa esplicita e ricorrente in numerose pellicole dell’horror internazionale. In particolare, diviene centrale in molti film l’idea della trasformazione del corpo umano in orribili forme aliene, una costante dei racconti lovecraftiani più riusciti ed inquietanti come The shadow over Innsmouth, The Dunwich horror, The colour out of space, The thing on the doorstep, The whisperer in the darkness e altri ancora.

Già a partire dall’Alien di Ridley Scott del 1979 (si vocifera, ispirato al citato Terrore nello spazio di Bava) il mostruoso alieno protagonista potrebbe essere considerato a pieno diritto un erede della progenie dei Grandi Antichi, anche grazie alla sua realizzazione grafica ideata dall’artista svizzero H.R. Giger, illustratore dallo stile decisamente “lovecraftiano”.

Paura nella città dei morti viventi, girato nel 1980 da Lucio Fulci, regista di culto che non ha bisogno di presentazioni, è ambientato nella città di Dunwich, in cui si verificano atrocità varie e sorgono orde di mostruosi zombie; le stesse atmosfere macabre tornano nel film …E tu vivrai nel terrore! L’Aldilà dell’anno successivo, scritto con il grande sceneggiatore del cinema fantastico italiano Dardano Sacchetti, in cui è centrale nientemeno che il Libro di Eibon. Come Fulci, anche Dario Argento si dichiara da sempre appassionato di Poe e Lovecraft, e nel film Inferno risalente a questi anni se ne può percepire una certa ispirazione: nel film infatti, oltre ai palesi riferimenti al Suspiria de profundis di de Quincey, abbiamo il libro maledetto e il mito “nero” delle Tre Madri. Seguendo la linea del Necronomicon, va ricordato ovviamente il celebre horror La Casa (Evil Dead) di Sam Raimi, 1984, che mette in scena il libro maledetto e cita i Grandi Antichi.

Nel 1985, Stuart Gordon e Brian Yuzna, coppia interscambiabile di regista e produttore molto attivi nelle produzioni dell’horror americano indipendente, realizzano Re-animator. Si tratta di una esplicita trasposizione, in ambientazione contemporanea, della serie di racconti di HPL che vedono protagonista il dr. Herbert West, giovane e folle medico che, con diabolica freddezza, dedica le sue forze alla creazione di un siero per rianimare i cadaveri con esiti spiacevoli. Con il film di Gordon siamo ovviamente in pieno ambito horror-splatter, come giustamente ci si attende da una trasposizione di alcuni tra i più macabri racconti scritti da Lovecraft tra il 1921 e il ‘22. Necronomicon, girato da Yuzna nel 1993, come e più di Re-animator è molto liberamente ispirato solo in parte ad alcuni racconti, e si tratta in realtà di un puro pretesto per la messa in scena di splatter selvaggio, nonostante la simpatica interpretazione di Jeffrey Combs (già nel ruolo di Herbert West) nei panni di un divertito HPL.

Ma è soprattutto con John Carpenter, e ai suoi capolavori di horror moderno, che vediamo sullo schermo una riuscita e convincente ispirazione alle pagine di HPL. Il regista statunitense dimostra questo già a partire da Fog del 1981 (una macabra storia di fantasmi che cita Poe ma che probabilmente guarda anche al racconto di HPL The doom that came to Sarnath, per elementi analoghi come la nebbia spettrale e l’antica maledizione), girando l’anno dopo il celebre The Thing. Il film è ufficialmente il rifacimento di The Thing from anther world di Jack Arnold (1951) a sua volta tratto da un racconto di John W. Campbell, ma il mostro alieno proteiforme e tentacolato che assale una base scientifica isolata in Antartide (l’ambientazione delle Montagne della follia…) pare uscito direttamente dai peggiori incubi spaziali di HPL. Con Prince of darkness, del 1987 e In the mouth of madness del 1994, Carpenter realizza sullo schermo grandi affreschi di horror allucinato e macabro, in cui l’ispirazione alle opere lovecraftiane è palese, e che proprio in quest’ultimo film si dipana in una divertita serie di citazioni e di riflessioni meta-letterarie e meta-cinematografiche. Nel 2001 Stuart Gordon torna a HPL girando Dagon, ovvero una libera trasposizione di The shadow over Innsmouth ambientata sulle coste spagnole anziché quelle del New England tanto care a Lovecraft. Recentissima è l’uscita della trasposizione filmica ufficiale di The colour out of space (2019), con Nicholas Cage, i cui notevoli effetti speciali tentano di ricreare le agghiaccianti descrizioni del racconto del 1927, già liberamente portato sullo schermo ben due volte (e con esiti decisamente risibili, che avranno fatto sobbalzare nel cimitero di Swan Point i poveri resti del Solitario di Providence) nel 1965 da Daniel Haller e nel 1987 da David Keith. Dell’ultima ora è la notizia dell’imminente uscita (prevista per fine estate 2020) della serie televisiva statunitense, ovviamente horror, dall’accattivante titolo di Lovecraft Country, che tutti i lettori “lovecraftiani” attendono incuriositi.

Musica lovecraftiana

Da quanto risulta, HPL non era un grande appassionato di musica e non amava le nuove espressioni musicali della sua epoca come il jazz, come sottolinea Michel Houellebecq nel suo saggio Contre le monde, contre la vie dedicato al Gentiluomo di Providence. Ciononostante, sono significativi i riferimenti musicali che si incontrano tra le sue pagine e proprio il tema della musica come ponte tra il nostro mondo e l’altrove, come in certi racconti di Hoffmann, è alla base del celebre racconto The music of Erich Zann scritto nel 1921. Alla luce di ciò, viene da chiedersi cosa direbbe HPL nel venire a sapere che, oggi, la sua opera rimane una importante fonte di ispirazione per numerosissimi gruppi musicali, in quanto l’”impronta lovecraftiana” si rivela profonda e significativa anche nell’ambito di una parte considerevole della musica contemporanea. Espliciti riferimenti alle opere di HPL si ritrovano nella produzione di numerosissimi gruppi musicali attivi nel corso degli ultimi cinquant’anni, dal rock primordiale risalente a quel fondamentale decennio che furono gli anni Sessanta, passando (soprattutto) attraverso la galassia dell’heavy metal e dei suoi sottogeneri più oscuri, arrivando fino ai territori dell’elettronica e dell’ambient (è il caso dell’etichetta discografica statunitense Cryo Chamber, responsabile in tempi recenti della singolare operazione di pubblicare una serie di album a tema, ciascuno dedicato a un rispettivo Grande Antico!).

Il primo ed esplicito segnale viene proprio dagli U.S.A. e si tratta dell’uscita del primo disco del gruppo rock psichedelico che intende esplicitamente omaggiare il grande scrittore di Providence, fin dall’atto stesso di battezzarsi con il suo stesso nome. Nei primi due album degli H.P. Lovecraft (appunto), usciti rispettivamente nel 1967 e nel ’68, ritroviamo infatti vari brani dedicati alla narrativa dell’autore, da The White Ship a At the Mountains of Madness. Nello stesso periodo, in Inghilterra, avviene l’epocale esordio discografico dei Black Sabbath: il gruppo di Birmingham (com’è risaputo, uno dei più influenti in assoluto della storia del rock) inserisce nel disco omonimo del 1969 il brano Beyond the wall of sleep, il cui testo, però, di autenticamente lovecraftiano ha soltanto il titolo, preso in prestito dal racconto del 1919.

Con l’attività dei Black Sabbath e le cupe sonorità da loro ideate, il dado dell’heavy metal è tratto, ed è soprattutto nei sottogeneri più oscuri ed estremi sviluppati negli anni Settanta e Ottanta che i riferimenti a HPL si fanno ancora più espliciti, frequenti ed approfonditi, inseriti da un notevole numero di band nelle proprie composizioni. Quella che rimane forse la formazione heavy metal più celebre di sempre, ovvero gli inglesi Iron Maiden, riporta sulla copertina dell’album dal vivo Live after Death, uscito nel 1985, il celebre distico tratto dal Necronomicon che viene citato in The call of Cthulhu e The nameless city: «That is not dead which eternal lies / And with strange aeons even death may die …». L’anno precedente, gli altrettanto famosi Metallica avevano pubblicato il secondo album Ride the lightning, che si concludeva con il grandioso ed evocativo brano strumentale intitolato proprio The call of Ktulu (sic). Nel 1986 la band pubblica il terzo disco, Master of puppets, in cui troviamo The thing that should not be, un pezzo il cui testo parrebbe ispirato a The shadow over Innsmouth e ancora una volta al celebre Richiamo. Negli stessi anni, anche altri gruppi alfieri del thrash metal come i Mekong Delta intitolano The music of Erich Zann il loro secondo album, mentre i tedeschi Necronomicon scelgono di chiamarsi come il famigerato grimorio.

Con la nascita del death metal, sottogenere “estremo” per eccellenza caratterizzato da ritmi supersonici, parti vocali grugnite ai limiti dell’udibile e testi incentrati su tematiche horror, è naturale che i più tetri racconti di Lovecraft forniscano una grande ispirazione alle numerose band del settore. Solo per citare alcuni tra i casi più noti e rappresentativi, ricordiamo ovviamente i Morbid Angel, gruppo proveniente dalla Florida guidato dal chitarrista che si firma (non certo casualmente) Trey Azagthoth, i Nocturnus, i Massacre (autori dell’album From Beyond) e i notevoli Nile la cui musica, basata su una incredibile brutalità sonora unita ad una perizia tecnica non comune, è sistematicamente ispirata agli antichi testi sacri egiziani. Oltre a questa direttiva tematica che si snoda tra piramidi, mummie e papiri magici, i Nile non hanno lesinato più di qualche significativo omaggio a HPL, a cominciare dal titolo del disco d’esordio Amongst the catacombs of Nephren-Ka del 1995, il quale è appunto una frase presa alla lettera dalla conclusione del racconto The Outsider (1921). Il leader del gruppo, il chitarrista Karl Sanders, dichiara infatti in una vecchia intervista alla testata specialistica Metal Hammer, risalente al 2003: «Ho un rispetto immenso per Lovecraft e la sua opera […]. Riusciva a dare dei significati particolari a ciò che scriveva e con pochi termini appropriati era in grado di trasmettere sensazioni indescrivibili e dipingere scenari incredibili. Lovecraft, a suo modo, faceva death metal prima ancora che questo esistesse!».[viii] Anche dai tenebrosi e gelidi lidi del black metal, parente stretto del death nato in Scandinavia verso la fine degli anni Ottanta, emergono vaghi ma significativi accenni a tipici leit-motiv lovecraftiani: i norvegesi Mayhem, tra i fondatori del suddetto sottogenere, rievocano en passant il Necronomicon nella canzone De Mysteriis D.O.M. Sathanas, contenuta nell’omonimo album del 1993, così come gli svedesi Marduk inneggiano a Shub-Niggurath nel disco d’esordio Dark Endless (1991).

Radicati anche nel doom metal, i riferimenti alla mitologia lovecraftiana emergono attraverso i decenni. La cosa non sorprende affatto in quanto nel caso del doom siamo evidentemente di fronte al sottogenere del metal più oscuro e “antico”, essendo la sua formazione di diretta derivazione sabbathiana risalente ai lontani anni Settanta, con l’attività di gruppi storici come Pentagram e Pagan Altar. È peraltro innegabile che il genere in questione, con le sue sonorità profondamente tetre, lente e funeree, si riveli un’espressione musicale alquanto adatta alle trasposizioni della narrativa di HPL, e in effetti in questo senso sono numerosi i casi riusciti e suggestivi. Nell’esordio discografico dei Candlemass, fondamentale gruppo del doom svedese: nel primo album Epicus, Doomicus, Metallicus, risalente al 1986, la canzone Demon’s Gate (ispirata al citato film di culto L’Aldilà di Fulci) rievoca infatti il Libro di Eibon. Sempre negli anni Ottanta, proprio in Italia prende le mosse un’altra formazione di notevole spessore e dal nome programmatico, ovvero i romani Dunwich, che dedicano il loro doom metal con influenze sinfoniche a tematiche fantasy, occulte e, com’è ovvio, tipicamente lovecraftiane.

Ricordiamo poi i finlandesi Thergothon, autori nel 1994 dell’impressionante album Stream from the heavens, che va a fondare il sottogenere molto allegro del cosiddetto funeral doom e realizza trasposizioni musicali lovecraftiane alquanto suggestive. Sempre dalle tenebrose propaggini del doom anni ’90 emergono gli inglesi Electric Wizard, “lisergici” cantori dell’oscurità nei cui brani appaiono frequenti riferimenti a Cthulhu e compagnia.

HPL e i fumetti

Anche nel caso del mondo dei fumetti, l’enorme influenza del Sognatore di Providence si manifestata a diversi livelli; perlopiù, come nel caso del cinema, si sono verificati numerosi e illustri casi di riferimenti e citazioni, nonché, negli ultimi anni, a trasposizioni più o meno fedeli. Se il primo illustratore lovecraftiano ufficiale va evidentemente ricordato in Virgil Finlay, copertinista di Weird Tales e autore di numerose illustrazioni ispirate alla narrativa di HPL, uno dei primi casi fumettistici decisamente degni di nota avviene in Italia ed è l’Omaggio a Lovecraft, realizzato nel 1970 dal grande illustratore e fumettista Dino Battaglia, che in questo periodo si specializza in riduzioni di classici della narrativa ottocentesca come i testi di Melville, Maupassant, Poe e Stevenson. Il suo tratto suggestivo e crepuscolare appare sicuramente adatto a rievocare sulla carta le mostruosità inter-dimensionali narrate dalla penna di HPL; non a caso, Battaglia collaborerà nel 1972 al periodico Horror Pocket, uscito solo per pochi numeri in Italia edito da Sansoni, che annovera tra i suoi disegnatori anche il francese Philippe Druillet, da sempre appassionato dell’opera di HPL di cui realizzerà anche una versione a fumetti di alcuni estratti del Necronomicon. Tra il 1973 e il ‘78 l’argentino Alberto Breccia, uno dei maestri mondiali del fumetto, realizza la riduzione di alcuni racconti dei Miti di Cthulhu; sempre in Italia, tra i più celebri fumetti incentrati sul Fantastico degli ultimi quarant’anni troviamo ovviamente una fitta rete di riferimenti e citazioni lovecraftiane nel Martin Mystère di Alfredo Castelli e nel Dylan Dog di Tiziano Sclavi. Nell’albo numero 18 («Cagliostro», uscito nel marzo 1988) avviene addirittura un rapido incontro tra l’Indagatore dell’incubo in trasferta statunitense e il Solitario di Providence (il quale venderà un’automobile particolarmente disastrata all’investigatore inglese, prima di venire divorato da un uomo-pesce evidentemente transfuga da Innsmouth). Rimanendo in ambito del fumetto italiano e nella fattispecie delle pubblicazioni di Sergio Bonelli Editore, la collana di Dampyr, personaggio horror nato circa vent’anni fa sulla scia di Dylan Dog, dedica le ultime uscite del 2019 a storie di ispirazione lovecraftiana (il n.233 porta il titolo I Grandi Antichi). Va ricordato il lavoro dello sceneggiatore inglese Alan Moore, osannato autore della celebre graphic novel From Hell, che realizza una lunga serie di storie a fumetti molto liberamente ispirate all’universo lovecraftiano, a partire da The Courtyard del 1995 fino al recente Providence, mentre risale al 2010 l’interessante riduzione a fumetti delle At the Mountains of Madness di Ian Culbard.

HPL: giochi e videogiochi

Inevitabile che il mondo orrorifico di HPL venisse ampiamente saccheggiato dai prodotti ludici. Anche in questo ambito, i casi degni di nota sono numerosissimi e se ne citeranno alcuni di particolarmente rappresentativi. Al 1981 risale The Call of Cthulhu, pubblicato dalla casa editrice Chaosium, il primo gioco di ruolo moderno esplicitamente ispirato al celebre racconto e in generale all’universo lovecraftiano, a cui ne seguiranno molti altri. Entrando nella galassia dei videogames, tra i primi casi “storici” di videogiochi di ispirazione lovecraftiana abbiamo Alone in the dark (Necronomicon), di impianto investigativo; si ricordano poi Amnesia: The dark descent, ispirato a The Outsider, mentre tra i giochi che mettono in scena e in campo riferimenti palesi vi sono Call of Cthulhu, a sua volta ispirato all’omonimo gioco da tavolo, e Shadow Hearts Covenant. Tra le variazioni sul tema più recenti hanno avuto successo giochi come Moons of Madness, di ambientazione spaziale, e il nuovo The sinking city.

Conclusioni: HPL filosofo della storia, HPL il conservatore, HPL il sognatore

Basterebbe tutto ciò di cui abbiamo parlato finora a giustificare la celebrità raggiunta oggi dalla figura di Howard Phillips Lovecraft, e a rendere l’idea dello spessore della sua personalità e del suo pensiero? Forse è il caso di rimarcare quanto HPL sia stato un autentico profeta di ciò che sarebbe successo nel mondo di poco successivo alla sua scomparsa, o meglio, che si stava già ampiamente verificando quando egli era in vita. Lo scrittore, negli anni Venti e Trenta, aveva chiaramente capito e denunciato tutti i mali e i pericoli di cui noi oggi, all’inizio del XXI secolo, soffriamo l’acuirsi, primo dei quali l’omologazione dell’identità personale e collettiva, la perdita delle basi culturali (arte e letteratura in primis, mentre la scienza ha ormai da tempo superato i confini dell’eticamente ammissibile), fino alla massificazione del pensiero collettivo e del modo di comportarsi. Lovecraft fu sicuramente un esteta aristocratico e razionalista, partito da posizioni giovanili classiciste e reazionarie (la sua avversione per la democrazia e il comunismo rimase sempre categorica). Negli ultimi anni della sua vita, durante la crudissima realtà dopo la Depressione del ’29, si farà però sostenitore di una ideale politica sociale di tipo dirigistico, curiosamente allo stesso tempo vicina ad una visione alquanto rivoluzionario-conservatrice (per quanto questa visione potesse venire adattata, ovvero in modo estremamente improbabile, al contesto della Nazione statunitense. Ma non a caso HPL manifestò sempre un suo personale senso di appartenenza alla tradizione inglese ed europea in generale…).

In una lettera che l’autore scrive all’amico Maurice W. Moe dell’aprile 1931 troviamo l’affermazione «La chiave della mia personalità è una rivolta individuale contro la stolida convenzione»[ix]. In queste sue parole, scrive Gianfranco de Turris, si può individuare in breve tutto ciò che fu Lovecraft, come uomo e come scrittore, nonché come intellettuale del proprio tempo… in lotta contro il proprio tempo. È infatti palese che HPL, che non a caso tra i suoi epiteti postumi vedrà quello di “Solitario di Providence”, rimanga uno dei più illustri casi di disadattamento al periodo storico in cui si è nati e vissuti, un lampante esempio di autoesilio dal contesto sociale contemporaneo (per quanto relativo, a giudicare dalla spaventosa mole della sua corrispondenza e dalle testimonianze pervenute da tutti coloro che lo conobbero di persona, e che sostanzialmente concordano nel dipingerlo come un uomo dalla gentilezza e dal senso estetico tutt’altro che comuni). È altrettanto innegabile che fosse profondamente xenofobo, e questa sua ideologia di fondo, questa avversione per la folla tanto eterogenea quanto caotica si rafforzò dopo la parentesi matrimoniale trascorsa a Brooklyn negli anni Venti. Ciò sicuramente è andato ad alimentare l’idea di un Lovecraft razzista o para-nazifascista, che andrebbe riconsiderata alla luce di fatti evidenti alquanto stridenti con questa sbrigativa definizione: lo scrittore sposò una donna di origine ebraico-russa, aveva amici ebrei (come Robert Bloch) e presunti omosessuali (il poeta Samuel Loveman, traduttore di Baudelaire e Verlaine), e nelle sue lettere, partendo da una iniziale attenzione al fenomeno, finì per esprimere posizioni critiche nei confronti del contemporaneo sorgere del Nazismo in Germania. Semplicemente, un conservatore devoto alle tradizioni quale era Lovecraft non poteva che essere ideologicamente intollerante, in generale, con chi stravolgeva un certo tessuto sociale, e quindi, peraltro, anche con gli immigrati bianchi ed europei[x] (e non a caso nel racconto The Haunter of the Dark l’orrore si annida nelle comunità italiane e irlandesi della città di Arkham).

È da qui che nasceva la sua totale avversione per una popolazione massiva e multietnica («La prospettiva del “Grande Crogiuolo di Razze” americano apparirà in tutta la sua grottesca fallacia agli occhi del popolo, in una delle pagine più dolorose della sua storia»[xi] scrive HPL, e lo scrive nel 1917…), per una società sempre più basata sulla speculazione finanziaria, per le brutture architettoniche che vedeva diffondersi inarrestabili negli Stati Uniti del suo tempo. È di fronte a queste cose che Lovecraft rimaneva inorridito e disperato; è sempre da qui che, per sublimare il suo terrore dell’ignoto, per il diverso e il caotico con cui si ritrovò ad avere a che fare soprattutto durante il breve e infelice periodo trascorso a New York, nascono alcune delle sue creazioni narrative più grandiose ed inquietanti. Ancora, è sempre in questo punto che Lovecraft, a modo suo, si rivela incredibilmente vicino al pensiero di altri grandi maestri della narrativa del Novecento, assolutamente distanti da lui e tra loro stessi, per nazionalità, formazione, visione della vita e visioni politiche, ma tutti analogamente turbati dal crollo delle ideologie (o meglio degli ideali) e dallo sradicamento delle tradizioni, ovvero ciò che mantiene vivo l’antico tessuto culturale di una Nazione o, più in generale, di ogni popolo. Vengono in mente Cesare Pavese, William Butler Yeats, Yukio Mishima, nonché, a onor del vero, figure alquanto “scomode” per le rispettive posizioni politiche come Ezra Pound e addirittura l’ultimo Pasolini, nella sua disperata ma sincera e precisa critica del consumismo e della società omologata. Che sono le stesse, identiche cose contro cui si scaglia J.R.R. Tolkien, descrivendo nel Signore degli Anelli le mefitiche officine di Mordor in cui i degenerati servi del Male producono armi di distruzione, per rovinare tutto ciò che vi è di elfico nel mondo…

Palese e definitiva è quindi l’importanza dell’eredità culturale che ci ha lasciato Lovecraft, alla luce di un messaggio e di un senso che, in fin dei conti, è molto semplice. È lo stesso che egli ha raccolto e tramandato dal suo maestro Poe, così come è condiviso dagli insigni (e distantissimi) “colleghi” Dostoevskij e Tolkien, ma si potrebbe dire anche da Borges o André Breton, o dal Leopardi dell’Infinito: l’ammonimento a considerare, anche e soprattutto nei tempi della più miserabile decadenza, che l’antica, sempiterna bellezza dell’Ideale e la vita immaginifica sono parte integrante della vita cosiddetta “reale”.

Visto il successo e l’ammirazione riservata all’opera e alla figura del Solitario di Providence, a ben centotrenta anni dalla sua nascita, siamo ancora in tanti a pensarla così. Per fortuna.

E intanto il grande Cthulhu, nella sommersa e limacciosa città di R’lyeh, continuerà ad attendere sognando …

Note

[i] Gianfranco de Turris, Sebastiano Fusco, Introduzione: le miniere di H.P. Lovecraft, in Howard Phillips Lovecraft, L’orrore della realtà. La visione del mondo del rinnovatore della narrativa fantastica, Edizioni Mediterranee, Roma 2007, p.7.

[ii] Giuseppe Lippi, Introduzione, in Howard Phillips Lovecraft, Tutti i racconti 1897-1922, Mondadori, Milano 1989, p. XIII.

[iii] Da The Raven di Edgar Allan Poe.

[iv] Sandro D. Fossemò, Il Terrore Cosmico, I parte, in Lex Aurea. Libera rivista di formazione esoterica n.58, maggio 2015, p.35.

[v] Giuseppe Lippi, Introduzione, in Howard Phillips Lovecraft, op.cit., p. XVI.

[vi] Gianni Pilo, nota a La Città senza nome, in Howard Phillips Lovecraft, I racconti del Necronomicon, Newton & Compton, Roma, 2004, p.25.

[vii] Stefano Marzorati, Maurizio Colombo, Gianfranco de Turris, I cent’anni di H.P. Lovecraft, l’inventore di miti, in Dylan Dog presenta: il primo Almanacco della paura, Sergio Bonelli Editore, Milano 1990, p.143.

[viii] Intervista ai Nile a cura di Fabio Rodighiero, in Metal Hammer. La rivista hard rock più venduta in Europa n.6/2003, giugno 2003, p.38.

[ix] Gianfranco de Turris, Almanacco del mistero, in Martin Mystère n.103, Sergio Bonelli Editore, Milano, ottobre 1990, p.4.

[x] Gianfranco de Turris, Lovecraft 80, pubblicato il 24 marzo 2017 su www.centrostudilaruna.it.

[xi] Howard Phillips Lovecraft , lettera a Rheinart Kleiner del 23 dicembre 1917,  in Howard Phillips Lovecraft, L’orrore della realtà, cit., p.53.

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