“Femminilità metallica”: le forme del Futurismo

Valentine de Saint-Point (Lione, 16 febbraio 1875 – Il Cairo, 28 marzo 1953).
Valentine de Saint-Point (Lione, 16 febbraio 1875 – Il Cairo, 28 marzo 1953).

Sembrerà impossibile che dal Futurismo, che nel suo famoso Manifesto del 1909 aveva predicato il “disprezzo della donna”, siano invece uscite alcune tra le idee più moderne ed emancipatrici del “sesso debole”. E che il vero femminismo di punta, all’epoca, fosse imbracciato proprio dalle donne futuriste che circondavano Marinetti.

In realtà, infatti, il “disprezzo” marinettiano si indirizzava a quel tipo di donna che compariva nei romanzi di scuola dannunziana: tutti quei sospiri, quei languori, quelle frasi retoriche… e poi quel sentimentalismo che uccide la volontà, che rende l’uomo un burattino impotente. Marinetti, con la tempra di lottatore che aveva, alle accuse di odiare le donne rispose subito alla sua maniera. Nessun disprezzo per le donne, disse, ma solo per un certo tipo di esse: quelle sottomesse e timorate, oppure vittime del romanticismo da operetta, una cosa che proprio non poteva sopportare.

Egli invece ammirava la femmina guerriera, e non ci mise nulla a plasmare un ideale in linea col suo programma di battaglia: la femminilità metallica. Con decenni di anticipo su Jünger e il suo Arbeiter d’acciaio, Marinetti s’inventò un tipo umano adatto all’epoca industriale, che pretendeva il dominio sulla tecnica e che faceva della guerra, del coraggio, dell’audacia, della giovinezza sempre e comunque una poesia esistenziale: in questo clima di tensione invocò l’uomo maschio e volitivo, tutto slancio e volontà. Ma anche sulla donna aveva le idee chiare: voleva «la donna-istinto, la donna animale, l’amazzone irrazionale e istintiva, protesa eroicamente, proprio come il suo compagno futurista…». C’era da conquistare un mondo, da rovesciare una società, e i futuristi intendevano dar vita a una razza di indomiti, uomini e donne, barbari modernissimi.

Il tema della femmina futurista è un apice della cultura e della società del primo-Novecento, e bisogna dire che non ha avuto seguito, se non in quel drappello di donne colte e emancipate che al tempo debito misero la camicia nera, diventando squadriste. Caratterini in totale controtendenza con la morale dell’epoca, che voleva la donna tutta casa-e-chiesa, ubbidiente e castissima. Il recente volume di Valentina Mosco e Sandro Rogari Le Amazzoni del Futurismo (edito da Academia Universa Press), getta un fascio di luce su un argomento poco noto. Si riscoprono formidabili inquadrature di un’epoca che, per certi versi, era più avanti della nostra. Sicuramente erano anni in cui circolavano più classe, più cultura, più idee. E dunque ecco poetesse, danzatrici, romanziere, attrici, registe di teatro: personalità a tutto tondo, protagoniste della loro epoca, ragazze e giovani donne che davano del filo da torcere agli uomini. Non si trattava delle “fatalone”, delle “madame Bovary”, ricche e sfaccendate, che sono sempre esistite, coi loro effimeri scandali. Qui c’era un programma. Roba d’avanguardia. Ad esempio, lo straordinario “Manifesto della Lussuria”, stilato nel 1913 da Valentine de Saint-Point, romanziera, drammaturga, pittrice, danzatrice, che diffuse il Futurismo in Francia ed era acerrima nemica del femminismo borghese: per lei i diritti delle donne erano più morali che civili. Nel Manifesto parlò di liberazione sessuale, di vita “brutale” ed “energica”, in una specie di paganesimo naturista da far invidia ai recenti fenomeni di eguale segno e in ritardo di quasi un secolo: «L’Arte e la Guerra sono le grandi manifestazioni della sensualità; la Lussuria è il loro fiore… la Lussuria incita le energie e scatena le forze… la Lussuria è la ricerca carnale dell’ignoto». Fece della sessualità quasi una mistica della carne, arrivando a elogiare le forze più scatenate dell’istinto: «È normale che i vincitori, selezionati dalla guerra, giungano fino allo stupro, nel Paese conquistato, per ricreare la vita».

A questi radicalismi non giunse mai neppure Marinetti, battuto sul suo stesso terreno. Valentine negli anni Venti si trasferì in Egitto, divenne una battagliera sostenitrice del nazionalismo arabo contro il colonialismo inglese, venne attratta dal sufismo appreso da Guénon, di cui divenne amica, e alla fine morì al Cairo povera e dimenticata, nel 1953.

Ma di vite eccezionali, le donne futuriste ne ebbero parecchie. Si trattava infatti di un’avanguardia culturale d’élite, di “superdonne” che sarebbero piaciute a Nietzsche più di tanti uomini. Fanny Dini, ad esempio. Nel 1917 scrisse un elogio del libro di Marinetti Come si seducono le donne (recentemente ripubblicato dalla Vallecchi) e scrisse che il capo futurista era «riuscito a vedere le donne come sono: le creature più felinamente e più voluttuosamente animali che esistano». La Fanny, che collaborava a L’Italia Futurista e al Nuovo Giornale di Firenze, prese parte alle lotte politiche degli anni Venti, scese in piazza in camicia nera e fu una delle squadriste di punta: nel 1922 partecipò alla Marcia su Roma, poi, collaboratrice del giornale Il Balilla, fu sempre accanto al regime scrivendo sui quotidiani e vincendo premi letterari.

Oppure, ricordiamo un attimo Fulvia Giuliani, futurista a sedici anni, poetessa e narratrice, collaboratrice de L’Ardito e La Testa di Ferro, due testate certo non da dame di carità… negli anni Venti direttrice del famoso e ancor oggi studiato Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia; poi fu articolista del Lavoro Fascista e direttrice della Scuola di recitazione della GIL: un’avanguardista culturale e politica come l’Italia non ne ha più avute. O Maria Goretti, laureata in filosofia morale a Firenze, rappresentante della seconda generazione futurista, animatrice culturale negli anni Trenta, autrice di romanzi, saggi filosofici e nel 1941 di un libro su Valentine de Saint-Point e Benedetta Cappa (la moglie di Marinetti e anch’essa futurista di vaglia) e del Manifesto della poesia eroica femminile nel Futurismo. Oppure pensiamo alla pratese Enif Angelini Robert, che scrisse un libro sul libero amore e si permise, in pieno 1929, l’anno della Conciliazione con la Chiesa, di polemizzare su L’Impero di Mario Carli contro la “procreazione obbligatoria” in nome del libero decisionismo femminile… roba inaudita per quei tempi. Tutte queste donne avevano in mente un Futurismo come macchina motrice di una rivoluzione non solo dei costumi o della morale corrente, ma anche politica, legando il loro “sessismo” a una concezione combattiva e dinamica della donna. E quando fu il momento, queste donne intelligenti e spregiudicate seppero anche passare dalla letteratura al realismo politico: come ricorda Rogari, grazie alle futuriste la donna «aveva rotto il ghiaccio» e sotto il Fascismo poté accedere per la prima volta a «un suo ruolo politico» e a una «partecipazione diretta alle istituzioni del regime… per il coinvolgimento come soggetto sociale nelle sue politiche».

Quelle tra le donne futuriste – quasi tutte – che confluirono nel Fascismo, recarono al suo interno la loro collaudata vena polemica, contribuendo a svellere i cascami conservatori che resistevano negli ambienti clerical-fascisti e partecipando a quella rivoluzione sociale del ruolo della donna che il regime alla fine bene o male realizzò. Dato che, nel mentre per compiacere la sua ala conservatrice parlava di donna “madre e sposa esemplare”, di fatto il Fascismo emancipò la donna, la fece uscire di casa, la mandò a frequentare corsi di formazione professionale, l’inserì nel lavoro, alla fine dando in mano alle amazzoni della RSI anche le armi. Altro che repressione della donna! Ci sarebbe da paragonare questa rivoluzione sociale, culturale e politica – futurista prima e fascista poi – col gelido reazionarismo degli anni Cinquanta, in cui democristiani e comunisti collaborarono a una concezione sessuofoba della società, che ci vollero altri decenni per sgretolare.

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Tratto da Linea del 17 gennaio 2010.

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